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Dimmi quando. O forse no
La notizia, se confermata, sarebbe inquietante: l’Università di scienze mediche di Teheran avrebbe scoperto che basta un esame del sangue per scoprire quando una donna andrà in menopausa.
Anche se, con tutto il rispetto, la fonte accademica non sembra garantire una particolare attendibilità alla dichiarazione, l’ipotesi ha fatto il giro del mondo, suscitando discussioni e riflessioni. Sul Corriere ha commentato la notizia la scrittrice Silvia Avallone, esprimendo un certo scetticismo: «L’idea che un prelievo sia sufficiente a predire il futuro – commenta – può entusiasmare o meno. Del resto ricorriamo ancora agli oroscopi e ai tarocchi per sapere se e quando avremo un figlio, e dovremmo gioire adesso che il responso potrà essere scientifico e non più vaneggiato».
Quel mistero chiamato vita
Sul delicato tema si era cimentato, di recente, anche il dr House: il celebre medico televisivo, per un giorno ricoverato fuori dal suo reparto, si trovava a contestare le opinioni del primario secondo il quale uno dei ricoverati era ormai irrecuperabile e destinato al trapianto.
Per una volta la realtà ha, se non superato, quantomeno raggiunto le iperboli della sceneggiatura: un uomo, Rom Houben, reduce da un incidente automobilistico nel 1983 e ritenuto irrecuperabile, è tornato a vivere. O, come dice lui ora, “sono nato un’altra volta”.
Minoranze fastidiose
Tempi duri per i pentecostali. Non passa quasi giorno senza che la denominazione – che, ormai, comprende sul piano numerico la stragrande maggioranza degli evangelici in Italia e nel mondo – subisca riferimenti e allusioni ingenerosi da parte dei media, ispirati dagli eccessi di qualche esagitato o dalla singolarità di certe pratiche.
Una strategia, quella dei media, che potrebbe anche non essere del tutto consapevole, ma che porta l’opinione pubblica ad accostare la diversità alla bizzarria, e la bizzarria al pericolo tout court. Se poi a questi elementi si aggiunge la diffidenza verso lo straniero, ci sono tutti gli elementi per fare di una onesta denominazione il capro espiatorio ideale per le paure, i fastidi, le intolleranze del nostro Paese.
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Rissa continua
Il Corriere segnala che l’associazione Comunicazione perbene «ha monitorato le reti nazionali per individuare che spazio hanno litigi e risse nei programmi tv quotidiani. Secondo l’analisi ogni 8-10 minuti su uno dei principali canali, si può ascoltare un insulto oppure vedere un dibattito che diventa rissa verbale o che si trasforma in lite. Il tutto aggravato dal fatto, come evidenzia il 75% degli esperti, che questo avviene anche in fascia protetta».
Nello specifico, le categorie a maggiore rischio sono «i reality show e i talent show, dove la rissa sembra sia un vero e proprio ingrediente: in media una ogni 8 minuti di trasmissione».
A seguire, in termini di rissosità, i talk show e i programmi di informazione: «la rissa è per lo più verbale e immancabilmente scoppia ogni 10-11 minuti di trasmissione».
In questa speciale classifica si piazzano solo in terza posizione «quelle trasmissioni che un tempo erano considerate il simbolo della rissa tv: le trasmissioni sportive. In media qui scoppia ogni 12-15 minuti e per la maggior parte si tratta di sopraffazione verbale, seguita da accuse e insulti personali».
In coda «i programmi di intrattenimento, soprattutto i contenitori domenicali, dove la rissa scoppia ogni 18-20 minuti».
Sui reality, nulla quaestio: spesso il genere raccoglie appositamente personaggi invadenti, maleducati, scontrosi, e il carattere dei singoli viene selezionato in maniera da stabilire dinamiche di scontro. Naturalmente i programmi che riassumono le giornate dei nullafacenti puntano a proporre i momenti più significativi, ed è inevitabile che questo alzi la frequenza della rissosità.
In merito ai talent show si potrebbe sperare in un approccio diverso: gli sviluppi di questi ultimi mesi hanno visto prendere il largo il confronto tra allievi, insegnanti, giudici. Una tendenza troppo sospetta e improvvisa per non sospettare una scelta precisa da parte degli autori.
In fondo alla classifica, invece, troviamo due sorprese. Se qualche anno fa ci avessero detto che nel giro di poche stagioni i programmi domenicali si sarebbero conquistati la palma di trasmissioni meno rissose, probabilmente avremmo riso: sono ancora vivide (e disponibili su youtube) le patetiche scene dove protagonisti e commentatori si cimentavano in un triste “tutti contro tutti”.
Allo stesso tempo sarebbe stato difficile credere che un giorno non lontano i programmi sportivi sarebbero risultati tra i meno polemici: e in effetti ancora oggi, collegandosi a una di queste trasmissioni, l’impressione è che liti e insulti avvengano ben più spesso di quattro o cinque volte l’ora.
La categoria che sorprende di più, in questa classifica, è l’informazione. Un programma della testata giornalistica dovrebbe raccontare i fatti con obiettività, o quantomeno con equilibrio e sobrietà; i conduttori dovrebbero saper mantenere alta l’attenzione senza cavalcare le polemiche, esercitando la loro autorevolezza per impedire alle discussioni di degenerare.
E invece, eccoli a pari(de)merito con i talk show, a superare la soglia delle sei risse per ogni ora di trasmissione.
Probabilmente qualche benpensante sosterrà che anche la rissa comporta lo sviluppo di una discussione, che è semplicemente un’esposizione meno garbata e più vivace di una tesi, garantita anch’essa dal diritto all’informazione. Non può che essere così, altrimenti dovremmo chiederci come mai la tendenza all’insulto e alla sopraffazione prosegua implacabile, con il benestare degli anchorman e degli ascolti.
Che non sia solo una questione di stile e di etica, ma anche un problema concreto, lo si evince dai commenti preoccupati di molti esperti interpellati da Comunicazione perbene: la situazione è giudicata “molto rischiosa”, e «secondo il 64% potrebbe avere serie ripercussioni sui comportamenti quotidiani del pubblico, a partire da bambini e adolescenti che crescono convinti che aggredire e sopraffare gli altri sia normale».
Continuare il gioco al rilancio per accaparrarsi gli spettatori puntando sui toni forti probabilmente garantirà un futuro ai programmi, ma rischia di rubarlo a chi quei programmi, per interesse o per noia, li guarda.
Sarebbe meglio uscire dal circolo vizioso prima che le conseguenze, sul piano sociale, si facciano serie.
L'ossessione della religione
«A Gerusalemme – racconta il Corriere -, gli psichiatri hanno individuato e pubblicato su una rivista scientifica la loro ricerca sulla “sindrome da preghiera compulsiva”. Una forma d’ossessione che prende seminaristi di collegi rabbinici».
Al momento all’ospedale ci sono «tre casi che definiscono “interessanti”. Uno riguarda un ragazzo di 18 anni: “Questi pazienti sono ossessionati da domande che ripetono: Ho avuto pensieri eretici?, oppure Dio è soddisfatto di come prego?”».
La cura scelta per questi casi è “omeopatica”, legata al problema: «Organizziamo colloqui sulla fede e cerchiamo di cambiare la loro prospettiva, per esempio rimuovendo la paura d’una punizione divina se non s’è pregato come si deve».
«Il problema per i medici, però, è che serve una preparazione teologica profonda, per affrontare discussioni con studiosi dell’ebraismo. “In effetti, dobbiamo essere pronti un po’ su tutto. Quando non ci arriviamo noi, ci facciamo aiutare da alcuni rabbini”».
Quando la fede diventa religione, la spiritualità può diventare psicosi o mania. Faremmo bene a ricordarlo sempre. Non a caso la Bibbia non ci chiama al rispetto di una serie di regole divine, ma a un rapporto personale con Dio: rapporto agevolato da un approccio sano e consapevole alla vita e a un rispetto dei sui suoi principi, ma che non deve mai diventare lo scopo della nostra esistenza.
Confondere fede e religione è come invertire causa ed effetto: amo Dio, e per questo lo seguo, mi adattando alla sua volontà – per il mio bene, oltretutto – facendola sempre più mia. Ma al centro della mia vita non c’è un insieme di norme: c’è Dio.
L’ossessione della religione
«A Gerusalemme – racconta il Corriere -, gli psichiatri hanno individuato e pubblicato su una rivista scientifica la loro ricerca sulla “sindrome da preghiera compulsiva”. Una forma d’ossessione che prende seminaristi di collegi rabbinici».
Al momento all’ospedale ci sono «tre casi che definiscono “interessanti”. Uno riguarda un ragazzo di 18 anni: “Questi pazienti sono ossessionati da domande che ripetono: Ho avuto pensieri eretici?, oppure Dio è soddisfatto di come prego?”».
La cura scelta per questi casi è “omeopatica”, legata al problema: «Organizziamo colloqui sulla fede e cerchiamo di cambiare la loro prospettiva, per esempio rimuovendo la paura d’una punizione divina se non s’è pregato come si deve».
«Il problema per i medici, però, è che serve una preparazione teologica profonda, per affrontare discussioni con studiosi dell’ebraismo. “In effetti, dobbiamo essere pronti un po’ su tutto. Quando non ci arriviamo noi, ci facciamo aiutare da alcuni rabbini”».
Quando la fede diventa religione, la spiritualità può diventare psicosi o mania. Faremmo bene a ricordarlo sempre. Non a caso la Bibbia non ci chiama al rispetto di una serie di regole divine, ma a un rapporto personale con Dio: rapporto agevolato da un approccio sano e consapevole alla vita e a un rispetto dei sui suoi principi, ma che non deve mai diventare lo scopo della nostra esistenza.
Confondere fede e religione è come invertire causa ed effetto: amo Dio, e per questo lo seguo, mi adattando alla sua volontà – per il mio bene, oltretutto – facendola sempre più mia. Ma al centro della mia vita non c’è un insieme di norme: c’è Dio.
Bulimia spirituale
Lug 13
Pubblicato da pj
Scrive Repubblica che, in base a una ricerca di Visual Networking Index realizzata da CiscoSystems, «La giornata online dura 36 ore»: infatti “calcolando le operazioni compiute simultaneamente, il tempo della Rete risulta più lungo di quello reale”.
Eccoci qua: i nostri genitori si lamentavano che una giornata avesse solo 24 ore, i loro figli hanno ovviato all’inconveniente (anche se un giorno dovranno spiegarci perché la natura debba essere vista sempre come una inevitabile limitazione, anziché come un contesto adeguato in cui vivere).
La tecnologia moltiplica le opportunità, dilata la giornata, aggiunge tempo al tempo. Tempo virtuale, beninteso, non reale: ma sarà sorprendente, per chi ha vissuto qualche anno della sua vita nell’era pre-computer, fermarsi a riflettere su quanto sia cambiato il nostro modo di vivere.
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4 commenti
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