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Dietro la facciata

La Gran Bretagna si inchina davanti alla sua nuova diva, una anonima disoccupata quarantottenne che ha dapprima fatto sorridere, poi stupito e infine entusiasmato il pubblico televisivo.

Doveva essere una banale serata di nuove proposte per il programma “Britain’s Got Talent”, una sorta di “X factor” in salsa inglese dove aspiranti artisti di successo si esibiscono davanti a un pubblico in sala – e milioni di spettatori a casa – e a una giuria composta da tre esperti che, a differenza del programma nostrano, sono così giovani e fotogenici da sembrare finti.

Sabato sera, a un certo punto, sale sul palco Susan Boyle: 48 anni, goffa, vestitino a fiori e viso dai tratti ruspanti, poco consoni alla televisione di oggi: una sorta di Arisa più in età (e meno truccata).

Il suo ingresso solleva le risatine del pubblico e la perplessità dei patinati in giuria, un po’ come succede alla Corrida di fronte ai personaggi più improbabili: la signora Boyle è evidentemente fuori target, fuori età, fuori forma, fuori format, fuori tutto.

Dalle battute che scambia con i bellocci che ne dovranno valutare le capacità artistiche si dimostra spiritosa e, tutto sommato, a suo agio in un contesto dove sembra capitata per caso.

Lo scetticismo del pubblico e della giuria si spegne appena Susan attacca il brano: in barba a chi si aspettava una macchietta, la donna sfodera una voce limpida, intonata, potente, posata ma non artefatta. Che lascia letteralmente a bocca aperta i giurati, mentre il pubblico scatta in piedi a metà esibizione per una imprevedibile standing ovation.

Il successo della performance viene confermato nei giorni successivi, quando cinque milioni di navigatori si godranno la sua interpretazione da Youtube, tanto che i bookmaker ne prevedono la vittoria. Un vero tripudio che Susan ha accolto con sorpresa e, forse, un po’ di sollievo.

Chissà quanti le avranno sbattuto la porta in faccia, di fronte alle sue aspirazioni musicali accompagnate, ahilei, da una faccia un po’ così. Chissà quante delusioni. Chissà quanti agenti discografici, che magari fino a ieri avranno riso di fronte a quella donnona sgraziata e ai suoi demo, oggi si mangeranno le mani per non essersene accaparrati l’esclusiva.

Eppure sarebbe bastato ascoltarla. Sarebbe bastato non fermarsi all’apparenza, a quell’apparenza che è la chiave di lettura e il leit motiv di quest’epoca. Quell’apparenza che fa emergere i belli, a prescindere dalle loro capacità, e non offre alcuna opzione a chi – per scelta o per ventura – non rientra nei canoni.

Susan Boyle è una piccola, parziale, insignificante rivincita di chi si ritrova escluso, pur meritando un’occasione.

Ma è anche una lezione, per tutti noi. Perché, nonostante la storia e l’esperienza, ancora oggi tendiamo troppo spesso a giudicare dall’apparenza, e finiamo per non dare alla sostanza nemmeno il tempo di convincerci a cambiare idea.

Ci crediamo di larghe vedute, ma non lasciamo concludere un concetto. Ci consideriamo progressisti, ma non siamo in grado di ascoltare per intero un consiglio. Ci spacciamo per validi interlocutori, ma non siamo capaci di leggere con attenzione le ragioni altrui. Ci illudiamo di essere democratici, ma non garantiamo un’opportunità a chi ci sta di fronte.

E, quel che è peggio, spesso ci pregiamo di essere cristiani, ma non abbiamo ancora superato i pregiudizi più elementari.

Sì, di fronte al caso di Susan Boyle possiamo solo fare silenzio e ascoltare. La sua splendida voce e la sua lezione.

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L'ultimo dei problemi

«In aumento le richieste di abortire per difficoltà economiche. L’allarme arriva dalla clinica Mangiagalli di Milano». Secondo il direttore sanitario, Basilio Tiso,  «è uno degli effetti della crisi finanziaria».

«Li definiscono gli aborti senza alternative. Quelli di single co.co.co., coppie con un lavoro precario, giovani in cassa integrazione», secondo un dossier di due anni fa «il 12% delle donne che chiedono di abortire sono disoccupate, il 3% in cerca di lavoro, il 10% studentesse, il 12% casalinghe».

Insomma, conclude Tiso, «L’impressione è che ci sia un disagio crescente dovuto alla precarietà lavorativa».

Che la vita per i giovani non sia facile è sicuramente vero; proprio oggi il Corriere dedica il suo focus quotidiano alla “Gerontocrazia Italia”: prima dei quarant’anni è difficile raggiungere una posizione lavorativa rispettabile. Tirare su un figlio in questo contesto, con un paio di contratti precari e qualche lavoretto al volo, è proibitivo.

Eppure viene da pensare che il problema non sia solo questo, ma l’assenza di un progetto di vita. La domanda è poco politicamente corretta, ma sarebbe interessante sapere qual è la percentuale di donne sposate che ha richiesto l’interruzione di gravidanza. Perché il dato, va da sé, non è irrilevante.

Allevare un figlio con un co. co. co. e prospettive professionali risicate è certamente un rischio. Ma allevarlo senza una famiglia, senza sapere chi domani si sveglierà accanto a te (perché si sa, al giorno d’oggi l’amore è eterno finché dura), è un’incognita ancora più pesante.

Non è questione di matrimonio, ma di responsabilità nei confronti del partner, del nascituro, della società, e – in fondo – di noi stessi. Oggi non siamo in grado di prendere una decisione definitiva, tentati come siamo dalle mille opzioni di una vita globale e dalla chimera del rapporto ideale.

Appena il mondo non gira attorno a noi e la relazione perde qualche colpo, siamo pronti a sostituirla. Non c’è periodo di garanzia, nell’epoca del tutto e subito: il diritto al ripensamento prevale su qualsiasi altra valutazione.

Difficile, in un quadro simile, costruire qualcosa di stabile: sul piano umano, familiare, sociale, spirituale. Forse, in molti casi, le difficoltà economiche sono solo l’ultimo dei problemi.

L’ultimo dei problemi

«In aumento le richieste di abortire per difficoltà economiche. L’allarme arriva dalla clinica Mangiagalli di Milano». Secondo il direttore sanitario, Basilio Tiso,  «è uno degli effetti della crisi finanziaria».

«Li definiscono gli aborti senza alternative. Quelli di single co.co.co., coppie con un lavoro precario, giovani in cassa integrazione», secondo un dossier di due anni fa «il 12% delle donne che chiedono di abortire sono disoccupate, il 3% in cerca di lavoro, il 10% studentesse, il 12% casalinghe».

Insomma, conclude Tiso, «L’impressione è che ci sia un disagio crescente dovuto alla precarietà lavorativa».

Che la vita per i giovani non sia facile è sicuramente vero; proprio oggi il Corriere dedica il suo focus quotidiano alla “Gerontocrazia Italia”: prima dei quarant’anni è difficile raggiungere una posizione lavorativa rispettabile. Tirare su un figlio in questo contesto, con un paio di contratti precari e qualche lavoretto al volo, è proibitivo.

Eppure viene da pensare che il problema non sia solo questo, ma l’assenza di un progetto di vita. La domanda è poco politicamente corretta, ma sarebbe interessante sapere qual è la percentuale di donne sposate che ha richiesto l’interruzione di gravidanza. Perché il dato, va da sé, non è irrilevante.

Allevare un figlio con un co. co. co. e prospettive professionali risicate è certamente un rischio. Ma allevarlo senza una famiglia, senza sapere chi domani si sveglierà accanto a te (perché si sa, al giorno d’oggi l’amore è eterno finché dura), è un’incognita ancora più pesante.

Non è questione di matrimonio, ma di responsabilità nei confronti del partner, del nascituro, della società, e – in fondo – di noi stessi. Oggi non siamo in grado di prendere una decisione definitiva, tentati come siamo dalle mille opzioni di una vita globale e dalla chimera del rapporto ideale.

Appena il mondo non gira attorno a noi e la relazione perde qualche colpo, siamo pronti a sostituirla. Non c’è periodo di garanzia, nell’epoca del tutto e subito: il diritto al ripensamento prevale su qualsiasi altra valutazione.

Difficile, in un quadro simile, costruire qualcosa di stabile: sul piano umano, familiare, sociale, spirituale. Forse, in molti casi, le difficoltà economiche sono solo l’ultimo dei problemi.