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Minoranze fastidiose
Tempi duri per i pentecostali. Non passa quasi giorno senza che la denominazione – che, ormai, comprende sul piano numerico la stragrande maggioranza degli evangelici in Italia e nel mondo – subisca riferimenti e allusioni ingenerosi da parte dei media, ispirati dagli eccessi di qualche esagitato o dalla singolarità di certe pratiche.
Una strategia, quella dei media, che potrebbe anche non essere del tutto consapevole, ma che porta l’opinione pubblica ad accostare la diversità alla bizzarria, e la bizzarria al pericolo tout court. Se poi a questi elementi si aggiunge la diffidenza verso lo straniero, ci sono tutti gli elementi per fare di una onesta denominazione il capro espiatorio ideale per le paure, i fastidi, le intolleranze del nostro Paese.
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Appuntamento al centro
Che ormai al supermercato si trovi di tutto non è una novità: sono lontani i tempi delle botteghe, i negozietti sotto casa dove andare a fare due chiacchiere, informarsi sulle novità del quartiere e comperare il necessario ben consigliati dal negoziante.
Ma ormai sembra passato un sacco di tempo anche da quando il supermercato era un semplice esercizio commerciale dove acquistare beni di consumo: dopo essersi reinventato nella veste di centro commerciale, circondandosi di decine di negozi, ora ha abbattuto un’altra frontiera, passando dai prodotti ai servizi.
Segnala la Stampa che varie sedi della catena Ipercoop offrono ai clienti-soci «il consulente fiscale, l’avvocato, il cardiologo e il ginecologo… la vendita di biglietti per i concerti, gli sportelli per pagare le bollette, la consulenza previdenziale e il calcolo della pensione, l’assistenza nelle pratiche di disoccupazione e di infortuni sul lavoro… i servizi finanziari e le assicurazioni. Ma anche iniziative rivolte agli stranieri, come le pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno e di ricongiungimento familiare per chi lavora». Chi bazzica altri supermercati potrà aggiungere all’elenco il servizio a domicilio, i contratti telefonici, le carte di credito. In qualche centro commerciale, poi, sono presenti anche sale di culto.
Tra i servizi aggiuntivi dell’Ipercoop ne spicca però uno, che si distingue per la diversità rispetto agli altri e la particolarità rispetto al luogo: la presenza di uno psicoterapeuta. Il (anzi, la) professionista offre ai soci una micro-terapia in tre sedute che ovviamente non pretende di dare risposte, ma quantomeno a inquadrare se i problemi del cliente-paziente siano seri, oppure siano ipocondrie.
Il servizio ha dapprima sorpreso il pubblico, per poi venire subissato dalle richieste. La sede dei colloqui non si può definire troppo accogliente, stretta com’è in uno spazio non troppo ampio accanto al servizio clienti; nemmeno il contesto è di quelli che invita alla distensione, tra rumore di carrelli e annunci all’altoparlante. Forse, e comprensibilmente, viste le premesse la terapia offerta non sarà del tutto efficace, ma tant’è: alla gente piace parlare di sé, e ogni occasione è buona. Se poi ad ascoltare non è una persona normale ma un dottore, capace di scovare nelle nostre parole in libertà qualche accenno di malattia, tanto meglio: questo confermerà che abbiamo una ragione per non essere felici, che la nostra insoddisfazione ha una radice lontana, che sono i nostri traumi ad averci ridotto così.
Viene da pensare che se in qualche supermercato c’è posto per uno psicoterapeuta, in altri centri potrebbe esserci spazio per un consulente spirituale. Non è solo una boutade: proposto nella giusta prospettiva e seguito da persone adatte al ruolo, potrebbe dimostrarsi un servizio utile.
Forse suonerà strano, ma non dobbiamo dimenticare che Gesù incoraggiò i suoi discepoli ad andare, non ad aspettare comodamente le anime oltre la soglia della chiesa.
I discepoli, per portare a termine la loro missione nel modo migliore, proclamarono il messaggio di speranza di Cristo nelle piazze, i luoghi più frequentati dell’epoca.
I centri commerciali sono le piazze del nostro tempo: il luogo migliore per incontrare le persone, le loro frustrazioni, i loro problemi, e venire incontro alla loro fame di spiritualità.
L’appuntamento con la gente, oggi, è proprio lì. Non sarebbe carino deludere chi ci aspetta, e tanto meno chi ci manda.
Abbastanza grandi per capire
Mirko Locatelli, giovane regista milanese, è stato invitato da una scuola elementare e media di Milano a realizzare un documentario didattico raccontando – spiega il Corriere – “le idee dei giovanissimi, da 6 a 14 anni, a proposito di legalità”.
Tra le venti ore di interviste ai ragazzi su temi come la vita, la morte, l’immigrazione, la diversità, i valori, sono emerse differenze di analisi in base all’età («Alle medie… i maschi cominciano a riproporre concetti presi dagli adulti, sono più influenzabili») e al genere («le ragazzine… hanno più capacità di analisi, vogliono vivere bene, tutelare se stesse e gli altri…»).
Parlando di famiglia, Locatelli racconta: «Ho notato un fatto curioso. I figli che sono stati e sono “spettatori” dei litigi fra padre e madre, una volta intervistati mettevano l’accento sul fatto che i genitori “si dicono anche le parolacce”. Per loro era sconvolgente individuare nella propria famiglia il “trasgressore” delle regole, quelle stesse che abitualmente i genitori insegnano loro. Molti mi hanno detto “A volte dobbiamo fare noi i grandi…”».
Non so voi, ma personalmente rabbrividisco di fronte a certe situazioni di ordinario paradosso.
Figli presi in ostaggio tra due litiganti ma che non godono affatto, e restano disorientati da genitori che si comportano in maniera opposta rispetto a quel che insegnano.
Bambini che, quando non vengono tirati in mezzo alle dispute di una coppia in crisi, si ritrovano nel ruolo innaturale di pacieri in erba, angosciati da una vicenda più grande di loro, che non possono controllare né risolvere.
Bambini troppo adulti che devono badare ad adulti troppo bambini, incapaci di scrollarsi di dosso la superficialità di una vita catodica nemmeno di fronte alla responsabilità di una famiglia.
Ma gli adulti irresponsabili non si concentrano tutti nella categoria dei genitori, anche se in quel contesto si notano di più. L’esempio sbagliato può venire – e spesso viene – anche da chi, forse, leggendo di questi drammi familiari ha tirato un sospiro di sollievo.
Se i bambini sono la società del futuro, non stiamo investendo abbastanza per dare loro il futuro che si meritano. Siamo troppo impegnati a fare i nostri interessi, presi da quell’egoismo che ormai non risparmia nessun versante del tempo in cui viviamo, per ricordarci di quei piccoli, semplici gesti e parole che cambiano la giornata (e, talvolta, la vita).
Gesti e parole che aiutano adulti e bambini: dare una mano a chi ne ha bisogno, stare vicino a chi soffre, offrire un sorriso a chi ha il buio dentro, spendere una parola di speranza con chi prova la disperazione di veder crollare tutto attorno a sé.
Sono gesti e parole che non hanno età, e di cui si sente il bisogno a tutte le età: non è solo l’adulto ad aver bisogno di sapere che c’è sempre qualcuno pronto a starci vicino, su cui contare e da cui correre nei momenti più tristi.
Anzi: forse i primi a capirlo e a sentire l’esigenza di questo Qualcuno, in una società come la nostra, sono proprio i più piccoli.
Scomodo, ma a me piace
Non è il numero dei partecipanti. E forse nemmeno il posto. Quello che mi piace di Christian Artists, e che mi ha riportato ancora una volta in quel di Acquasparta, è il clima.
Quel clima di allegria che risuona nelle risate fin dal mattino; quel clima di creatività che si percepisce nei rapporti con gli artisti, tra dialoghi e spunti di riflessione; quel clima di serenità che si respira fino a notte fonda, tra seminari e spettacoli.
È una ricchezza intellettuale che distingue Christian Artists da ogni altro “campo biblico” – sia detto con tutto il rispetto possibile, naturalmente -, che permette a persone completamente diverse per provenienza culturale, preparazione, talento, percorso di fede, appartenenza denominazionale di trovare un comune denominatore in Cristo.
Proprio come dovrebbero fare sempre i cristiani, direte voi. Esatto. Proprio come dovrebbero, e come raramente fanno. Non sono molte, purtroppo, le occasioni di incontro tra cristiani di realtà diverse che si sentono uniti da uno scopo comune; sono rare le riunioni, talvolta anche di grande impatto, che non siano mere celebrazioni di una unità ancora solo teorica, e siano invece mirate alla concretezza di una comunione spicciola e quotidiana.
Christian Artists è così: dialoghi con il performer battista, chiacchieri con il tecnico pentecostale, scherzi con l’oratore “dei fratelli”, in un clima di sintonia che potrebbe suonare quasi irreale, o forse falso, a leggere le cronache evangeliche del nostro tempo.
Non solo. Da quando si è trasferito in Umbria, ospite di un borgo medievale che i bravi presentatori definirebbero “splendida cornice”, Christian Artists ha una marcia e un impegno in più: dimostrare concretamente quell’amore, quella nuova vita, quella gioia che – almeno a parole – caratterizzano il cristiano “nato di nuovo”, quel cristiano che – per intenderci – ha vissuto un’esperienza di fede e in seguito a questa ha fatto una scelta di vita cristiana.
Perché è facile parlare di fede tra noi, in una autoreferenzialità che si autoalimenta e che, giorno dopo giorno, ci chiude al “mondo”, impedendoci di comprendere le necessità e le speranze di chi ci sta attorno. È facile autocompatirsi su quanto poco siamo compresi o su come sia difficile il terreno di casa nostra (fateci caso: avete mai sentito una chiesa dire che nella sua città la gente è sensibile e ben disposta verso il messaggio di speranza della fede?).
Il difficile è sforzarsi per farsi capire. Perché, per farsi capire, è necessario prima capire. Capire gli altri, quegli “altri” da cui ci astraiamo per immergerci nelle oasi dei ritiri spirituali o dei campi biblici.
A volte, con il nostro modo di fare, ricordiamo da vicino la pubblicità di quella coppia che, tornata dalla crociera, vive con disperazione la banale quotidianità ritrovata a casa propria. Anche noi cristiani torniamo a casa dai ritiri spirituali e ci sentiamo “ristorati”, ma ben presto il ristoro si trasforma in frustrazione per il contesto ostile con cui dobbiamo fare nuovamente i conti ogni giorno. La quotidianità è un contesto troppo diverso dall’atmosfera delle giornate felici passate lontane dal “mondo”, specie se il ritiro spirituale non ci ha arricchito di elementi nuovi, capaci di cambiare la nostra prospettiva sulle cose e quindi la nostra capacità di intervenire sul contesto in cui viviamo.
Christian Artists, al contrario di molti ritiri, non è una vacanza: forse per questo non è così popolare. A Christian Artists ci si riposa, ma è un riposo attivo, dove gli stimoli sono continui. Scomodo? Certo, un ritiro spirituale è più comodo: ad Acquasparta siamo chiamati a rendere conto della nostra fede – per dirla con San Paolo – ogni giorno. Al bar del paese, in lavanderia, in piazza. La gente ci guarda, sa chi siamo, e aspetta di vedere se quella fede di cui parliamo è proprio qualcosa che vale la pena vivere, o se è solo un’altra forma di religiosità, magari un po’ più intensa, ma che non cambia davvero la vita.
Sta a noi dimostrare che la nostra vita è differente. Ma non a parole: con i fatti. Aiutati certamente da un contesto di seminari, corsi, incontri, ma da applicare poi alla vita di tutti i giorni. E subito. A Christian Artists la vita non viene sospesa artificiosamente per una settimana, ma continua giorno per giorno in un contesto umano fatto di incontri, di contatti, di sorrisi, di parole.
Per questo Christian Artists mi piace. Mi dispiace solo che pochi abbiano compreso il valore del progetto, perdendo l’occasione per un ritiro spirituale diverso dal solito, ma non per questo meno intenso. Anzi.