Archivi Blog

Rapporti alla pari

Per un cristiano c’è sempre da imparare dalla realtà ebraica. Sul piano culturale, certo, ma anche relazionale.

La visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma è stata definita storica. Al di là dei contenuti, da parte della comunità ebraica spiccava un approccio da cui, forse, anche la realtà evangelica dovrebbe prendere esempio.

Leggi il resto di questa voce

Albergare angeli

Forse la signora Antonietta Curcio non lo sa, ma dietro al suo gesto – raccontato dal Corrierec’è qualcosa di biblico.

60 anni, salernitana di origine ma da quarant’anni albergatrice a Rimini, da quattro anni, nella settimana più fredda dell’anno, la signora riserva il suo hotel ai bisognosi: barboni, senzatetto, ragazze madri. Trentatré camere tutte per loro, colazione a buffet e personale inclusi.

Leggi il resto di questa voce

Bulimia spirituale

Scrive Repubblica che, in base a una ricerca di Visual Networking Index realizzata da CiscoSystems, «La giornata online dura 36 ore»: infatti “calcolando le operazioni compiute simultaneamente, il tempo della Rete risulta più lungo di quello reale”.

Eccoci qua: i nostri genitori si lamentavano che una giornata avesse solo 24 ore, i loro figli hanno ovviato all’inconveniente (anche se un giorno dovranno spiegarci perché la natura debba essere vista sempre come una inevitabile limitazione, anziché come un contesto adeguato in cui vivere).

La tecnologia moltiplica le opportunità, dilata la giornata, aggiunge tempo al tempo. Tempo virtuale, beninteso, non reale: ma sarà sorprendente, per chi ha vissuto qualche anno della sua vita nell’era pre-computer, fermarsi a riflettere su quanto sia cambiato il nostro modo di vivere.

Leggi il resto di questa voce

Uscite a rischio

Ha fatto discutere, giovedì scorso, il commento di Nicola Legrottaglie sul conflitto mediorientale: il calciatore – evangelico – della Juventus ha dichiarato «Sapevo già che sarebbe successo, è una profezia della Bibbia. Il popolo di Israele era quello prediletto da Dio. Ma non l’ha riconosciuto e ora ne sta pagando le conseguenze».

Immancabile il vespaio di polemiche che ne è seguito, tanto da richiedere una precisazione da parte dell’atleta in una lettera pubblicata sullo stesso giornale il giorno dopo: «non era mia intenzione utilizzare la Bibbia per giustificare il conflitto in corso», ha spiegato Legrottaglie, precisando che «Lo Stato di Israele è un Paese che rispetto e che mi auguro possa trovare la pace».

Come ha affermato un giornalista di Radio24, “mettendola così, si giustifica tutto”: Israele non ha “riconosciuto Dio”, e quindi si è addossato tutti i mali di cui ha sofferto in questi ultimi due millenni.

Non ci addentriamo nella contesa: sulla questione si sono affrontati generazioni di storici e teologi ebrei, cristiani e laici, e non sarà certo un post di poche righe a dirimere la questione, con tutti i rischi che si corrono a generalizzare o a trarre conclusioni affrettate.

Ecco, appunto: ci sono temi di cui dovrebbero parlare gli esperti. Non i calciatori, e nemmeno i credenti, se non hanno competenze specifiche in materia. Naturalmente esiste la libertà di espressione, ma è necessario essere consapevoli che, avvalendosene, si corre il rischio di vedere il proprio pensiero frainteso, equivocato, distorto.

Con un pericolo ulteriore: le parole espresse nel momento, nel posto o nel modo sbagliato rischiano di compromettere quel che di buono si è detto, fatto, dimostrato fino a quel momento.

In questi mesi i giornali hanno testimoniato interesse e restituito una buona impressione per il cambiamento di Legrottaglie sul piano umano, morale, spirituale; la sua conversione ha fatto notizia, e il suo messaggio sull’importanza di rivolgersi a Gesù facendone il proprio salvatore ha avuto una risonanza notevole.

Nonostante questi risvolti positivi, non ci stupiremmo se da oggi Legrottaglie venisse ricordato per questa infelice uscita – che, alle orecchie di un pubblico distratto, può suonare addirittura antiebraica – più che per le belle dichiarazioni di fede date in precedenza. E non ci stupiremmo nemmeno se qualche malevolo (non sono pochi) cogliesse l’occasione per generalizzare: “gli evangelici, quelli che…”.

Sarebbe triste se una frase detta a cuor leggero si trasformasse in un pesante autogol.

Figurine mancanti

Un sito Internet, Reporter.it, parla delle comunità religiose presenti a Firenze: un bel numero di realtà innervano il capoluogo toscano, tanto che, scrivono in un’inchiesta Francesca Puliti e Roberta Salvucci,

L’area fiorentina è un po’ una “Babele delle religioni”: ospita la comunità ebraica, quella musulmana, quella valdese, la Chiesa Ortodossa Russa e quella Rumena. Poi ci sono i Metodisti e i Battisti, ma anche i Testimoni di Geova e gli Hare Krishna. La comunità musulmana è talmente cresciuta che per entrare in moschea si fanno i turni.

Va premesso che Firenze non è la città che conta il maggior numero di realtà religiose: anche lasciando perdere Roma, in testa per intuibili motivi, c’è quantomeno Trieste – imbattibile nel rapporto tra numero di abitanti e numero di denominazioni -, e anche Torino non scherza.

La cosa che stupisce, nell’articolo del Reporter, è un’assenza quantomeno sorprendente: nessun accenno alle chiese evangeliche di area non storica. E dire che in pieno centro, in via della Vigna Vecchia, ha la sua sede una chiesa “dei fratelli” presente in città già nell’Ottocento, storico luogo di incontro dei pionieri del movimento.

Non ci saremmo stupiti se avessimo trovato un elenco sommario in qualche articolo che cita en passant la varietà di gruppi religiosi in quel di Firenze. Ma qui l’articolo è incentrato proprio sul tema.

Sovviene il commento Umberto Eco, che nello spiegare “Come si fa una tesi di laurea”, raccomandava di fare un “lavoro serio”:

Si può fare in modo serio anche una raccolta di figurine: basta fissare l’argomento della raccolta, i criteri di catalogazione, i limiti storici della raccolta. Se si decide di non risalire indietro oltre il 1960, benissimo, purché dal ’60 a oggi le figurine ci siano tutte.

Qui, a quanto pare, qualche figurina decisamente manca, e la catalogazione non è delle più lineari: non ci sono varie chiese di Firenze, ma compare la comunità Hare Krishna della Val di Pesa; mentre, sempre in Val di Pesa, non viene segnalato il comprensorio di Poggio Ubertini.

E dire che sarebbe bastato consultare un banale elenco

Mete etiche

Già pensare a un football americano femminile suona male: uno sport rude, per maschiacci dalle spalle robuste e senza paura. Pensare che lo possano praticare delle posate ebree ortodosse suona quasi surreale. Eppure succede.

Tutto è cominciato nel 2001, quando il responsabile dell’American Football Association ha invitato mogli e sorelle dei giocatori, sempre presenti sugli spalti per seguire i loro familiari, a provare a loro volta.

In pochi anni la disciplina si è affermata, tanto da permettere di organizzare un campionato, e perfino di allestire una nazionale. Che ha ottenuto ottimi risultati alle ultime competizioni internazionali.

Delle 160 iscritte alla lega, il 70% è composto da ebree ortodosse praticanti: quelle che, per capirci, di solito non scoprono i capelli in presenza di estranei. Molte di loro sono mamme, con nidiate di quattro, o anche sette figli, che lasciano a casa con i papà nelle lunghe ore di allenamento.

L’abbigliamento in campo è comodo ma castigato: lascia libere, ma non scopre il fisico (né il capo), in barba a quegli sport dove la tenuta è diventata un costume da bagno.
Al sabato non si gioca: questo costringe le organizzazioni dei tornei internazionali a fare i salti mortali, e spesso la nazionale deve sorbirsi due partite al venerdì e alla domenica per compensare.
Non solo, un buon ebreo ha le sue pratiche religiose: tra allenamenti e sedute tattiche si deve ricavare uno spazio per la preghiera.
Per non parlare del cibo: niente maiale, coniglio, molluschi e crostacei e tutto ciò che la Legge vieta. Facile quando si gioca in casa, meno quando si gira per gli alberghi del mondo, e chi ha qualche allergia alimentare può capire l’imbarazzo.

Eppure giocano. Giocano senza rinunciare alle loro convinzioni.  E, stando ai risultati, giocano abbastanza bene.

Forse il loro esempio è una buona lezione per tutti noi. Noi che spesso, per molto meno, siamo disposti a derogare ai nostri impegni, ai nostri principi, alla nostra etica, convinti che non si possa fare diversamente.

Leggendo di queste ragazze israeliane, infatti, viene davvero da chiedersi se è davvero così difficile mantenere la coerenza in ogni aspetto della nostra vita, o se i nostri “non si può fare altrimenti” sono solo comode scuse per non rinunciare a nulla.

Panorama immoto

Panorama dedica il suo servizio di primo piano a “Come cambia l’Italia che prega”: Paola Ciccioli analizza i nuovi culti con una panoramica che parte dai musulmani, passa per gli ebrei, i copti, gli indù, gli ortodossi e gli evangelici. O meglio, i “pentecostali evangelici”, come vengono definiti: «… in un altro punto della città gli evangelici distribuiscono ai fedeli più indigenti sacchetti bianchi con le provviste raccolte nei supermercati dal Banco alimentare. La loro funzione, con musica, cori, «Gesù, nome al di sopra di ogni altro nome», abbracci e lacrime da trasporto mistico, è guidata dal pastore Roselen Boerner Faccio, brasiliana che dai tre seguaci del 1994 ha portato la Chiesa pentecostale evangelica milanese a 400 convinti praticanti».

È sicuramente apprezzabile che un settimanale di rilievo come Panorama dedichi spazio anche alla realtà evangelica, e di questo bisogna ringraziare l’impegno del Ministero Sabaoth, che è stato capace di guadagnarsi (e guadagnare all’ambiente) una ampia visibilità.

Viene però da chiedersi come mai i principali media, dal Corriere a Panorama, non riescano a scrollarsi di dosso la pigrizia intellettuale di un equivoco, e continuino a confondere una comunità con un intero movimento. Che può essere rappresentativo della realtà evangelica, ma non la inaugura né la conclude.

Gli evangelici – pentecostali e non – sono presenti a Milano da più di un secolo: decine di chiese, missioni, oltre a coordinamenti, strutture formative e umanitarie, case discografiche e studi di registrazione, professionisti noti e meno noti, mass media.

Per scoprirlo basterebbe aprire un elenco telefonico. O anche solo un semplice click.

Luci senza la Luce

Si comincia già a parlare di natale, e le prime notizie, che arrivano da Oxford, non sono rassicuranti.  Segnalano le testate che il consiglio comunale della cittadina inglese ha deciso di cancellare la parola “Christmas”, Natale, dalle celebrazioni di fine anno per rendere i festeggiamenti “più inclusivi”.

Al posto del tradizionale Christmas verrà proposto un “Winter light festival”, festa della luce d’inverno. Che suona anche suggestiva, come definizione, ma è un’altra cosa.

La trovata non è piaciuta a nessuno, creando un inedito asse trasversale che passa per i cristiani e arriva agli islamici e agli ebrei.

Il vicesindaco di Oxford minimizza: «Ci sarà un albero di Natale in città, anche se lo chiameremo diversamente»; e, senza rendersene conto, ha toccato il cuore del problema.

Il natale, come festa di ispirazione cristiana, è il ricordo di un evento molto preciso: la nascita di Gesù. Va da sé che eliminare Gesù dal natale è come organizzare una festa di compleanno senza invitare il festeggiato.

D’accordo: contrariamente a ogni logica, bisogna ammettere che il natale non è una festa propriamente cristiana, che non è stata istituita da Gesù né se ne trova traccia nella Bibbia, che buona parte dell’immaginario natalizio (alberi, buoi, asinelli, luminarie e via festeggiando) non ha attinenza con il racconto della natività contenuto nei vangeli (verificare per credere), che il periodo natalizio molto probabilmente non c’entra per nulla con quello in cui Gesù effettivamente nacque, e che la scelta del 25 dicembre affonda le sue radici in una religiosità pagana.

Tutto vero. Eppure l’idea di ricordare la nascita di Cristo, per quanto non strettamente biblica, non è sbagliata in partenza: il problema è il “come”, non il “cosa”.

Il diavoletto Berlicche avrebbe consigliato al suo interlocutore: «se vuoi far dimenticare la fede, non convincerli ad abolire le feste: svuotale del loro significato».

Una linea vincente ieri come oggi: fino a ieri il pericolo era la tradizione, che faceva perdere di vista i caratteri genuini della natività e quindi copriva il ricordo vero di Cristo – il significato della sua venuta al mondo – con mille falsi miti capaci di distogliere l’attenzione dei credenti; oggi, invece, per togliere significato alla festa è sufficiente sbandierare un malinteso senso di rispetto, secondo il quale la maggioranza non deve imporre, anteporre, e nemmeno proporre alcunché di caratterizzante.

La strategia funziona, a giudicare dalle cronache, anche se qualche volta il legislatore – qui è un sindaco, ma talvolta si tratta di un preside, un caporeparto e così via – finisce per essere più realista del re, tanto da far prendere le distanze perfino a coloro che vorrebbe tutelare.

Con un paradosso: mentre i musulmani e gli ebrei si dicono “delusi e offesi” da un’iniziativa che considerano fuori luogo (e, forse, controproducente sul piano dell’immagine), probabilmente il sindaco si troverà invece difeso da quei cristiani che, travolti dalla furia iconoclasta, non riescono a distinguere il ricordo dalla tradizione, il simbolo dall’immagine, la commemorazione dal rito.