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I due fronti dell’etica
Da agosto tutte le aziende dovranno adeguarsi a una normativa che, se verrà presa sul serio, provocherà più di qualche grattacapo: il testo unico 81/2008, infatti, prevede che in ogni luogo di lavoro venga effettuata una “valutazione dello stress-lavoro correlato e gli interventi per ridurne le cause”.
Se la maggior parte delle imprese si trova probabilmente in ritardo su questo versante, ce n’è una che – segnala il Gazzettino – è in anticipo di sette anni: si tratta di un’azienda vinicola di Altavilla Vicentina, dove Matteo Cielo già nel 2003 ha deciso di «misurare il grado di soddisfazione dei propri dipendenti, una trentina in tutto, sottoponendo loro dei questionari”, per capire “come vedevano l’azienda in cui lavoravano”».
L'oasi antistress
«Una relazione riduce gli effetti negativi dello stress sulla nostra salute. Ma una relazione insoddisfacente, invece, li amplifica»: a questa conclusione è giunta Ann-Christine Andersson Arntén, ricercatrice dell’università svedese di Goteborg: a supporto della sua tesi porta una ricerca che ha preso in considerazione oltre novecento persone, studiate nel loro rapporto familiare e lavorativo.
Che una serena vita di coppia aiuti ad arginare lo stress di una vita lavorativa sempre più intensa era intuibile, come è comprensibile che un rapporto familiare critico sia un elemento destabilizzante di cui anche il lavoro, presto o tardi, risentirà.
La ricerca svedese offre lo spunto per un paio di riflessioni che travalicano l’aspetto scientifico e che potrebbero essere un utile promemoria.
Primo: la vita, nel XXI secolo, è intensa e stressante. È però importante ricordare che lo è per tutti: per noi, ma anche per il nostro partner. Per rendere la vita di coppia un momento di serenità e non una notte dei lunghi coltelli è importante l’impegno di entrambe le parti coinvolte. Ognuno deve fare la sua parte
in termini di comprensione e pazienza, esercitando ragionevolezza, buonsenso e sensibilità.
Secondo: il lavoro non è la vita. Non consacriamo la vita al lavoro. Spesso in ufficio possiamo fare meglio con meno impegno, organizzandoci in maniera più razionale, oppure possiamo dotarci di mezzi che ci permettano di lavorare più serenamente. Anche quando questo non sia possibile e il lavoro risulti una grana, non dimentichiamo che si lavora per vivere, non viceversa. Abbassata la serranda, c’è una famiglia, un gruppo, una chiesa che ci aspetta.
Ah, ci sarebbe anche una terza questione da considerare: per stare bene con la propria famiglia e con il proprio lavoro è necessario in primo luogo stare bene con se stessi.
Se viviamo una fase critica sul piano umano o professionale, forse è il caso di fermarsi e trovare il tempo per guardarsi dentro, guardare in Alto e valutare come procedere.
Non ha senso rassegnarsi a essere il problema quando si può essere la soluzione.
L’oasi antistress
«Una relazione riduce gli effetti negativi dello stress sulla nostra salute. Ma una relazione insoddisfacente, invece, li amplifica»: a questa conclusione è giunta Ann-Christine Andersson Arntén, ricercatrice dell’università svedese di Goteborg: a supporto della sua tesi porta una ricerca che ha preso in considerazione oltre novecento persone, studiate nel loro rapporto familiare e lavorativo.
Che una serena vita di coppia aiuti ad arginare lo stress di una vita lavorativa sempre più intensa era intuibile, come è comprensibile che un rapporto familiare critico sia un elemento destabilizzante di cui anche il lavoro, presto o tardi, risentirà.
La ricerca svedese offre lo spunto per un paio di riflessioni che travalicano l’aspetto scientifico e che potrebbero essere un utile promemoria.
Primo: la vita, nel XXI secolo, è intensa e stressante. È però importante ricordare che lo è per tutti: per noi, ma anche per il nostro partner. Per rendere la vita di coppia un momento di serenità e non una notte dei lunghi coltelli è importante l’impegno di entrambe le parti coinvolte. Ognuno deve fare la sua parte
in termini di comprensione e pazienza, esercitando ragionevolezza, buonsenso e sensibilità.
Secondo: il lavoro non è la vita. Non consacriamo la vita al lavoro. Spesso in ufficio possiamo fare meglio con meno impegno, organizzandoci in maniera più razionale, oppure possiamo dotarci di mezzi che ci permettano di lavorare più serenamente. Anche quando questo non sia possibile e il lavoro risulti una grana, non dimentichiamo che si lavora per vivere, non viceversa. Abbassata la serranda, c’è una famiglia, un gruppo, una chiesa che ci aspetta.
Ah, ci sarebbe anche una terza questione da considerare: per stare bene con la propria famiglia e con il proprio lavoro è necessario in primo luogo stare bene con se stessi.
Se viviamo una fase critica sul piano umano o professionale, forse è il caso di fermarsi e trovare il tempo per guardarsi dentro, guardare in Alto e valutare come procedere.
Non ha senso rassegnarsi a essere il problema quando si può essere la soluzione.
Nella mente del credente
«Non c’è nulla di mistico in una preghiera, rivela Repubblica -. Per il nostro cervello rivolgersi a dio [l’iniziale minuscola è del giornale progressista, ndr] è come parlare a un amico in carne e ossa».
La scoperta arriva da scienziati danesi, che hanno esaminato «le reazioni cerebrali di un gruppo di fedeli impegnati nella ricerca di un conforto spirituale attraverso un dialogo con dio [come sopra, ndr], scoprendo che si attivano le stesse aree di una normalissima conversazione. Cosa che non capita quando ci si rivolge a Babbo Natale. Mentre quando si recita una preghiera a memoria si attivano esclusivamente le zone adibite alla ripetizione».
Ai venti credenti presi in esame è stato chiesto dapprima di recitare una preghiera o una filastrocca; poi di pregare liberamente, relazionandosi con Dio con parole proprie; infine di esprimere un desiderio sui doni che avrebbero voluto ricevere da Babbo Natale.
Quando si parla con Dio, «la risonanza mostra che si accendono le aree della conversazione e che, in particolare, quando ci si rivolge a Dio sono attive anche aree della corteccia prefrontale che servono a capire intenzioni ed emozioni altrui, cosa che succede sempre di fronte a un interlocutore in carne ed ossa. Ciò però non avviene quando si parla con Babbo Natale».
Le conclusioni dello staff di ricercatori è stato che «rivolgersi a Dio è come parlare con una persona, mentre Babbo Natale non sprigiona gli stessi effetti perché si è consapevoli dell’aspetto simbolico e lo si considera più un “oggetto”, il protagonista di una leggenda».
Le menti più avanzate e aperte contestano ai credenti la loro fede, liquidandola come una (pia) illusione. Secondo le ricerche danesi, a quanto pare, se si tratta di un’illusione è quantomeno ben fondata: difficile infatti credere nell’esistenza di una persona in maniera così ferma, decisa e convinta da ingannare perfino il proprio cervello. Se non altro, con Babbo Natale non è riuscito altrettanto bene.
Se questa ricerca può essere motivo di riflessione per chi non crede, a chi crede può offrire qualche indicazione che conferma il tipo di rapporto che Dio vuole avere con noi.
Non vuole che lo consideriamo un personaggio di fantasia. Non vuole nemmeno che lo consideriamo reale, ma lontano e distante – in tutti i sensi – dalle nostre vicende. Desidera che maturiamo la consapevolezza della sua presenza, quotidiana e pratica, accanto a noi.
Non vuole che la nostra relazione con lui sia un recitato di preghiere scritte da altri, e ripetute come una litania che tiene impegnata la bocca e il cervello, ma lascia libero il cuore. Vuole sentire la nostra voce, non quella di altri.
Non vuole una lista di richieste di preghiera – guarigioni, promozioni, benedizioni – proposte con maggiore o minore convinzione: vuole un colloquio vero, diretto, perfino interattivo.
Non vuole, insomma, un rapporto parziale, ma totalizzante: non è un caso se il primo comandamento ci chiede di amare Dio con tutta la forza e con tutta l’anima, ma anche con tutta la mente.
L'ultimo dei problemi
«In aumento le richieste di abortire per difficoltà economiche. L’allarme arriva dalla clinica Mangiagalli di Milano». Secondo il direttore sanitario, Basilio Tiso, «è uno degli effetti della crisi finanziaria».
«Li definiscono gli aborti senza alternative. Quelli di single co.co.co., coppie con un lavoro precario, giovani in cassa integrazione», secondo un dossier di due anni fa «il 12% delle donne che chiedono di abortire sono disoccupate, il 3% in cerca di lavoro, il 10% studentesse, il 12% casalinghe».
Insomma, conclude Tiso, «L’impressione è che ci sia un disagio crescente dovuto alla precarietà lavorativa».
Che la vita per i giovani non sia facile è sicuramente vero; proprio oggi il Corriere dedica il suo focus quotidiano alla “Gerontocrazia Italia”: prima dei quarant’anni è difficile raggiungere una posizione lavorativa rispettabile. Tirare su un figlio in questo contesto, con un paio di contratti precari e qualche lavoretto al volo, è proibitivo.
Eppure viene da pensare che il problema non sia solo questo, ma l’assenza di un progetto di vita. La domanda è poco politicamente corretta, ma sarebbe interessante sapere qual è la percentuale di donne sposate che ha richiesto l’interruzione di gravidanza. Perché il dato, va da sé, non è irrilevante.
Allevare un figlio con un co. co. co. e prospettive professionali risicate è certamente un rischio. Ma allevarlo senza una famiglia, senza sapere chi domani si sveglierà accanto a te (perché si sa, al giorno d’oggi l’amore è eterno finché dura), è un’incognita ancora più pesante.
Non è questione di matrimonio, ma di responsabilità nei confronti del partner, del nascituro, della società, e – in fondo – di noi stessi. Oggi non siamo in grado di prendere una decisione definitiva, tentati come siamo dalle mille opzioni di una vita globale e dalla chimera del rapporto ideale.
Appena il mondo non gira attorno a noi e la relazione perde qualche colpo, siamo pronti a sostituirla. Non c’è periodo di garanzia, nell’epoca del tutto e subito: il diritto al ripensamento prevale su qualsiasi altra valutazione.
Difficile, in un quadro simile, costruire qualcosa di stabile: sul piano umano, familiare, sociale, spirituale. Forse, in molti casi, le difficoltà economiche sono solo l’ultimo dei problemi.
L’ultimo dei problemi
«In aumento le richieste di abortire per difficoltà economiche. L’allarme arriva dalla clinica Mangiagalli di Milano». Secondo il direttore sanitario, Basilio Tiso, «è uno degli effetti della crisi finanziaria».
«Li definiscono gli aborti senza alternative. Quelli di single co.co.co., coppie con un lavoro precario, giovani in cassa integrazione», secondo un dossier di due anni fa «il 12% delle donne che chiedono di abortire sono disoccupate, il 3% in cerca di lavoro, il 10% studentesse, il 12% casalinghe».
Insomma, conclude Tiso, «L’impressione è che ci sia un disagio crescente dovuto alla precarietà lavorativa».
Che la vita per i giovani non sia facile è sicuramente vero; proprio oggi il Corriere dedica il suo focus quotidiano alla “Gerontocrazia Italia”: prima dei quarant’anni è difficile raggiungere una posizione lavorativa rispettabile. Tirare su un figlio in questo contesto, con un paio di contratti precari e qualche lavoretto al volo, è proibitivo.
Eppure viene da pensare che il problema non sia solo questo, ma l’assenza di un progetto di vita. La domanda è poco politicamente corretta, ma sarebbe interessante sapere qual è la percentuale di donne sposate che ha richiesto l’interruzione di gravidanza. Perché il dato, va da sé, non è irrilevante.
Allevare un figlio con un co. co. co. e prospettive professionali risicate è certamente un rischio. Ma allevarlo senza una famiglia, senza sapere chi domani si sveglierà accanto a te (perché si sa, al giorno d’oggi l’amore è eterno finché dura), è un’incognita ancora più pesante.
Non è questione di matrimonio, ma di responsabilità nei confronti del partner, del nascituro, della società, e – in fondo – di noi stessi. Oggi non siamo in grado di prendere una decisione definitiva, tentati come siamo dalle mille opzioni di una vita globale e dalla chimera del rapporto ideale.
Appena il mondo non gira attorno a noi e la relazione perde qualche colpo, siamo pronti a sostituirla. Non c’è periodo di garanzia, nell’epoca del tutto e subito: il diritto al ripensamento prevale su qualsiasi altra valutazione.
Difficile, in un quadro simile, costruire qualcosa di stabile: sul piano umano, familiare, sociale, spirituale. Forse, in molti casi, le difficoltà economiche sono solo l’ultimo dei problemi.