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La Luce guida dei Sentieri

Chiude “Sentieri”, la telenovela più longeva nella storia della tv: così longeva che è nata, 72 anni fa, in versione radiofonica (correva l’anno 1937) e solo nel 1952 si è trasferita in video.

Dopo 16 mila puntate, innumerevoli personaggi, storie, parole, il prossimo 18 settembre “Sentieri” scrive definitivamente la parola fine alle vicende ambientate nella cittadina di Springfield (no, non quella dei Simpson); gli appassionati italiani, però, hanno un vantaggio: la distanza dalla stella che si spegne garantirà altri quattro anni di intrattenimento, prima che cali l’ultimo sipario anche nella versione italiana.

Perché ne parliamo? Perché leggendo qualche articolo commemorativo si scopre che Sentieri, nella sua versione originale, si intitola “Guiding light”, luce guida (e non, come qualcuno segnala su wikipedia, “spirito guida”). Un nome quantomeno sospetto, specie nel contesto statunitense.

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Se anche Bill dice basta

Se si è stufato lui, figurarsi noi. Bill Gates, fondatore dell’informatica di consumo, autore dei programmi e dei problemi dei nostri computer, annuncia la sua decisione di lasciare Facebook: il suo profilo sul social network più diffuso al mondo, infatti, era diventato ingestibile, con le diecimila richieste di amicizia che lo hanno raggiunto.

«Mi sono reso conto che si trattava di un’enorme perdita di tempo… Era diventato ingestibile, alla fine ho dovuto rinunciare» ha spiegato.

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Parole a vuoto

Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.

Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».

Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.

Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.

In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.

Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.

Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.

«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.

A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.

Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.

Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.

Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.

In mancanza di meglio

Si può essere fan di un fuorilegge? Certo che si può: l’ultimo caso, in ordine di tempo, è William Stewart, “Billy il fuggitivo”, «il ladro diventato celebre in Nuova Zelanda per le fughe spettacolari e per l’abitudine di rubare cibo da case di campagna, incidendo poi col coltello messaggi di ringraziamento sul tavolo di cucina».

Da quando si è dato alla macchia, a febbraio, «ha raggiunto una certa notorietà, ispirando una serie di magliette con la sua immagine, una canzone in suo onore e diversi siti di ammiratori su Facebook». È stato preso oggi nell’ennesima fattoria, dove cercava di prelevare una moto. Dopo un’ultima fuga, Billy «non ha opposto resistenza e sembra aver accettato la sconfitta».

Raccontata così, sembra quasi la storia di un ladro gentiluomo, nato dalla penna di qualche autore ottocentesco. Quel che viene da chiedersi è come mai abbia attirato l’attenzione e la stima di così tante persone, che probabilmente non avrebbero apprezzato il personaggio se avesse sottratto viveri o altri beni da casa loro. Facile parteggiare per un ladro, fino a quando esercita dall’altra parte del mondo.

Ma non è solo una questione di distanza. L’essere umano è attirato dal bene: lo testimonia il suo desiderio di migliorare la propria condizione e la continua ricerca di qualcosa che lo soddisfi. Allo stesso tempo, però, è anche affascinato dal male. Che, a valori invertiti, è comunque un’eccellenza di cui ci si può infatuare in assenza di un progetto di vita convincente.

William Steward è l’antieroe ideale per una società a modo: ladro ma non troppo, fuorilegge ma educato, fuori dalle regole ma senza raggiungere gli eccessi di un assassino.

Tutto sommato ci piace pensare che sia uno di noi, e ci piace proiettare su di lui i nostri sogni mai realizzati: è uno che ha avuto il coraggio di osare una vita diversa, libera da quelle comodità e da quelle convenzioni che noi abbiamo accettato – e a cui, naturalmente, non rinunceremmo mai – ma che non perdiamo occasione di criticare.

E allora sì, un personaggio catartico come Steward diventa una utile valvola di sfogo, in mancanza di meglio.

Il mondo in un telefilm

Si chiamava Stephanie Parker, e non ha retto alla fine di un telefilm. Del suo telefilm: era la protagonista di un serial televisivo mandato in onda per sette anni dalla BBC, dove si raccontava la vita di una famiglia gallese che affronta la difficile sfida con la modernità.

Belonging, insomma, era una sorta di Cesaroni in cui Stephanie Parker era cresciuta, trascorrendo l’adolescenza tra telecamere e copioni e ritrovandosi, un giorno, donna. E disoccupata: ogni serie televisiva è destinata a concludersi perché è figlia di un’epoca, e anche se tenta di riciclarsi non potrà mai adeguarsi pienamente a una realtà diversa da quella in cui è nata.

La BBC, un anno fa, decise che era ora di chiudere Belonging, con buona pace dei fan e degli attori.

Stephanie ha abbozzato, ma non ha retto. E il giorno dopo una malinconica puntata-rimpatriata, la ragazzina prodigio (così è stata definita per le sue innate doti recitative) ha deciso di farla finita.

In fondo la sua situazione non è lontana da quella di tanti manager, imprenditori e lavorodipendenti di varia natura. Il lavoro, come la forma fisica, il successo, un oggetto e perfino la famiglia, può diventare un idolo e assorbire tutte le nostre aspettative, speranze, ambizioni. Complice la frustrazione per una vita sbagliata, la delusione per un mondo diverso da quello che vorremmo, può diventare la sostanza che, gradualmente, ci avvolge concedendoci il calore e le soddisfazioni di cui ognuno di noi ha bisogno.

Così, senza nemmeno farci caso, il lavoro diventa idolo, punto di riferimento, scala di valori in base alla quale giudicare la nostra esistenza.
Diventa una dipendenza, una presenza di cui non possiamo fare a meno: ne sentiamo la mancanza nel fine settimana, durante le ferie, nei momenti di noia.

Quando poi capita – e, nella vita, capita – che le cose cambino, ci ritroviamo spaesati, disorientati, e ci rendiamo conto di quanto il lavoro – i soldi, la casa, l’auto, la famiglia – contasse nella nostra vita.

Stephanie Parker, in fondo, non ha saputo reagire alla fine di un mondo: una famiglia da fiction ma rassicurante, un pubblico affezionato che ti ferma per la strada, ti scrive, ti coccola; un ruolo ben definito – finto, ma definito – da recitare.

Quando la realtà ha ripreso il sopravvento, non ha sopportato l’idea di non avere più nulla di tutto questo. Di dover ricominciare a vivere.

Dispiace che nessuno sia stato in grado di dirle che la vita è qualcosa di più, e di diverso. Che va rispettata ma non temuta, e che il suo scopo non può essere così banale da evaporare con la morte. Dispiace che nessuno sia stato capace di darle dei punti di riferimento, parlarle di quei valori che rendono la vita davvero degna di essere vissuta e ci mettono in condizione di fare scelte sensate senza uno sceneggiatore alle spalle. Dispiace che la sua vita fosse così vuota, fuori dal set, da farle scegliere un’uscita di scena così solitaria e prematura.

È vero, a volte la vita fa paura. D’altronde, per quanto tentino di spacciarcela come tale, la vita non è un banale telefilm. Proprio per questo abbiamo bisogno di affidarci a un grande Regista.