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L’evoluzione della fedeltà

Qualche mese fa La Stampa scriveva di un sito web francese nato con l’esplicito scopo di organizzare tradimenti: le condizioni per iscriversi al servizio, infatti, comprendevano solo “essere sposati e desiderare un’esperienza extraconiugale“.

Il consueto esperto chiamato in causa per giustificare l’ingiustificabile spiega che «il sito conferma la tendenza delle coppie a essere sempre più flessibili. Si va sempre più verso la poligamia».

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Se la guerra è finita

Il Magazine di questa settimana parla del cambio di rotta che ha caratterizzato il movimento evangelico USA in questi ultimi tempi: Ennio Caretto, nel descrivere la novità, conia la definizione di cristiani obamiani, che puntano “su clima, crisi e sanità per tutti”.

Naturalmente non perdono il loro nerbo i classici conservatori – su tutti l’inflessibile decano dei tele e radiopredicatori, James Dobson -, ma si avverte una nuova sensibilità, oltre che l’esigenza di cambiare e capire una realtà sempre più complessa, che si adatta meno che mai al consunto schema manicheo del confronto tra bene e male.

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Una presenza eterea

«Non credo che accettino di vendere Kakà perché devono fare cassa, ma perché quando un giocatore chiede per due o tre volte di andarsene, alla quarta non lo puoi tenere». Lo dice oggi alla Stampa Demetrio Albertini, “senatore” del Milan con un’esperienza internazionale alle spalle.

Abbiamo parlato più volte del fuoriclasse milanista per la sua fede e la sua testimonianza cristiana, che l’ambiente calcistico, pur sorridendo a mezza bocca, ha dovuto rispettare  in ossequio alla qualità tecnica del personaggio. Da sempre il talento è una credenziale che giustifica ciò che suona anomalo o che non si sopporta: la fede di Kakà, il carattere difficile di Mourinho, l’atteggiamento irriverente di Gascogne.

Però la vicenda Kakà è ormai una telenovela dal finale annunciato. Se è questione economica, non si può che concludere con la cessione: il Milan potrà resistere alla prima offerta esorbitante, potrà declinare la seconda, ma prima o poi dovrà cedere.

Resta qualche dubbio sul problema di fondo che spinge il calciatore ad accettare di andarsene altrove. Difficile credere che riguardi i soldi: quando uno guadagna decine di milioni di euro all’anno può permettersi di dire no perfino a offerte da capogiro, e può farci addirittura una bella figura. È successo allo stesso Kakà l’estate scorsa, quando a offrire una cifra da capogiro è stato il presidente (musulmano) del Manchester City: dire di no è stato (oppure è sembrato?) un gesto di coerenza con il proprio credo.

Se il problema non è di natura economica, potrebbe riguardare l’ambiente: ma il calciatore vive a Milano dal 2003, e a quanto pare regge bene la metropoli, né pare abbia avuto il bisogno di trovare una villa fuori dal caos urbano, come altri suoi colleghi.

Che sia un problema di maglia? Anche in questo caso, la tesi è difficile da sostenere: fino a poche settimane fa il fuoriclasse ringraziava i tifosi e prometteva fedeltà, difficile che sia cambiato qualcosa.

Nemmeno il fattore-nostalgia ha qualche chance: ha con sé la famiglia, sua moglie e di recente perfino la sua chiesa brasiliana – non bastassero le decine di comunità evangeliche già presenti a Milano – ha aperto una filiale in centro città.

Forse il problema non esiste, e Kakà sente solo il bisogno di cambiare. Non sappiamo se lo farà: in caso avvenga, però, è probabile che la Milano non calcistica non ne risenta.

Sarà che si tratta di un personaggio globale e – di conseguenza – poco legato al locale, ma in questi sei anni in rossonero, fuori dal campo, la sua presenza è rimasta eterea.

Nonostante le sue forti convinzioni religiose, non si sono registrate da parte sua apparizioni a iniziative di carattere evangelico: mentre i suoi colleghi Atleti di Cristo girano l’Italia, partecipano a trasmissioni radiofoniche e televisive, visitano teatri e chiese, sponsorizzano missioni e iniziative di evangelizzazione, scrivono libri e incontrano la gente, lui è rimasto sempre in disparte.

Un altro stile, forse; sapere della sua fede ha incoraggiato molti, ma la Milano evangelica – quei credenti che sono stati fieri di poterlo annoverare come un “fratello”, e che dalla sua fede magari hanno tratto spunto per parlare di Dio ad amici e colleghi – lo avrebbe voluto abbracciare, ringraziare, salutare, una volta o l’altra. Con la scusa che l’avrebbero voluto tutti (e come dargli torto?), non lo ha visto nessuno. Una presenza incoraggiante, ma del tutto virtuale.

Da questo punto di vista Kakà possiamo dire che è già partito. O, forse, non c’è mai stato.

Chissà, forse Madrid gli sarà più congeniale. Speriamo. Dios te bendiga, Ricardo.

Tradimenti sdoganati

Per carità: ogni giornale è libero di esprimere il proprio pensiero, e di connotare le notizie come meglio crede. Il lettore, da parte sua, è libero di riconoscere queste inclinazioni e di scegliere se avvalersi o no di quello strumento per la sua informazione quotidiana.

Insomma: se un giornale non mi piace, non sono obbligato a leggerlo.

La premessa è doverosa di fronte a un articolo uscito oggi su Repubblica, dove si parla di adulterio. Fino a oggi abbiamo sentito definire il tradimento come un dramma che rischia di compromettere la relazione di coppia e far crollare una famiglia, con ripercussioni psicologiche e sociali sia per i coniugi, sia per gli eventuali figli.

E invece, guarda un po’, Repubblica scopre che l’adulterio non è poi così tetro come lo si dipinge. Anzi: può essere perfino terapeutico. Chiaro fin dal titolo: “La scappatella? È anti-stress”.

Si comincia con una presunta consolazione per i fedifraghi: «Solo tre coppie su dieci sarebbero fedeli, secondo le ultime statistiche». Ah be’, viene da pensare: allora in fondo non sono così crudele se per caso mi capita. La società non si crea problemi di fronte a una relazione extramatrimoniale, e poi i colleghi parlano solo di quello; se ci mettiamo anche le statistiche accondiscendenti, il gioco è fatto.

D’altronde «Siamo un popolo di fedifraghi e l’adulterio appare ormai come una pratica igienica, spogliata di ogni senso di colpa». Ecco sdoganato il tabù.

E poi è «Un’abitudine accettata. In Italia l’adulterio non è più la ragione principale per cui ci si lascia». In fondo ci sono cose più gravi, come “le incompatibilità caratteriali”. E poi ci chiediamo come mai i matrimoni oggi non reggono più.

Non manca qualche istruzione per l’uso: «Gli italiani tradiscono soprattutto in pausa pranzo. Almeno un adulterio su tre, infatti, viene consumato fra mezzogiorno e mezzo e le due e mezzo del pomeriggio».

Se siete nella categoria degli irriducibili e tentennate perché vi assale ancora qualche senso di colpa, c’è una soluzione anche per voi: «Il nuovo adulterio ai tempi di Facebook è quello che potremmo definire light». Viene citata Maria Rita Parsi che afferma «Sono tradimenti mordi e fuggi, leggeri, poco impegnativi. C’è una presa d’atto che tanto nel matrimonio tutti tradiscono tutti. E così ci si imbarca in piccole storie collaterali vissute per autogratificarsi, che in genere non mettono in discussione e in vera crisi la famiglia». Come dire, niente di grave: una piccola divagazione sul tema.

Se poi non siete ancora convinti, sembra dire Repubblica, fatelo per la salute: veniamo informati che “sempre più sessuologi” disquisiscono di «”adulterio terapeutico che fa bene all’armonia della coppia”. Da scandalo a motivo di vanto, una trasgressione veniale, sdoganata, derubricata. Quasi un diritto, un’opportunità per esprimersi, in certi casi per risarcirsi, basta scorrere le varie poste del cuore».

Non vi fermi l’idea che, con i tempi che corrono, sia meglio la stabilità: Repubblica precisa che «Crisi e recessione non sembrano influire nel ritmo dei tradimenti. Una pratica sempre più capillare».

Magari abbiamo capito male. Magari la collega voleva mettere in luce una tendenza lanciando un allarme. Eppure non riusciamo davvero a cogliere toni di condanna, né sul piano sociale, né su quello familiare. Tanto che di valori nemmeno si parla: ci si limita ad affastellare commenti, pareri, statistiche più o meno compiacenti, con qualche venatura moraleggiante qua e là, ma incapaci di creare un vero contraddittorio rispetto al tema.

E allora talvolta viene da chiedersi se i media si limitino a raccontare la società, o se la società venga condizionata dai media.