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Il senso del limite

Abbiamo perso il senso del limite? Se lo chiede, in un interessante intervento su Panorama, Giulio Meotti, che rileva come «nella stagione delle nonne che diventano mamme, dei trans, delle discussioni infinite su aborto, eugenetica ed eutanasia, i confini non contano più… siamo così confusi da fare sempre più fatica a distinguere la vita dalla morte, il padre dalla madre, il maschio dalla femmina».

Un articolo lungo per lanciare un allarme e una speranza: «che dai casi che più hanno diviso l’opinione pubblica recentemente si possa trarre una lezione. Abbiamo perso il senso del limite».

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Parole a vuoto

Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.

Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».

Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.

Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.

In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.

Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.

Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.

«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.

A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.

Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.

Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.

Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.

Quando la vita sfugge

Esperienza da brividi per un giovane operaio turco: sul posto di lavoro è stato investito da un autoarticolato, a sua volta travolto da un treno in corsa.

L’uomo è sopravvissuto all’esperienza, facendo gridare al miracolo la laica Turchia.

«La vita veramente bella – ha dichiarato l’operaio -. Il valore che ha non lo sai finché non provi qualcosa di simile».

A volte ci lamentiamo per le nostre disgrazie e le sventure quotidiane. Ci infastidiamo di fronte alle fatalità che ci complicano la vita, liquidiamo le vicende sgradevoli alla voce “sfortuna”. Nel nostro ostinato desiderio di chiudere il capitolo per aprirne uno più sereno ci dimentichiamo di riflettere, e di dare al nostro vissuto un significato, trovando un perché a quello che influisce sulla nostra vita in maniera non sempre piacevole.

Più di qualcuno, probabilmente, di fronte a una storia come questa si sarebbe affrettato a sfruttare l’onda lunga della popolarità, accettando di buon grado di entrare nel serraglio di fenomeni da baraccone che la televisione ammannisce quotidianamente a piene mani.

L’operaio turco, invece, ha raggiunto una consapevolezza poco trendy e per niente in linea con la superficialità dei nostri giorni: ha riscoperto una verità che richiede troppo impegno, e che per questo preferiamo dimenticare. Il valore positivo della vita, il semplice fatto di esserci ancora, va riscoperto quotidianamente e annaffiato con la gratitudine per Colui che ci ha concesso il privilegio di un altro giorno.

Tra i progetti per il futuro dell’operaio turco c’è quello di sposare la sua fidanzata. «Non voglio perdere altro tempo», ha dichiarato.

Probabilmente qualcuno la considererà un’altra banalità. Il valore del tempo assume un significato pregnante quando ci rendiamo conto di avere un obiettivo da raggiungere. Oppure dopo aver scoperto quanto sia facile vedersi sottrarre il proprio futuro.
Fino a quel momento è solo un annoiato giro di lancette.

Spesso ci stupiamo per il destino di chi, sopravvissuto a morte certa, viene a mancare dopo breve tempo per un secondo incidente. Ci angoscia l’anomalia di una statistica non rispettata, che – implicitamente – fa sentire anche noi meno sicuri del nostro futuro.

Forse per rasserenarci dovremmo fare come quell’operaio turco: fermarci a ripensare alla nostra vita riscoprendo il suo significato più profondo. E, una volta raggiunta una conclusione onesta e convincente, ripartire.

Ripartire in fretta e con intensità: non c’è tempo per annoiarsi, malignare, recriminare. Il tempo da perdere è davvero poco.