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Da Bergamo a Baghdad
Fa impressione il confronto tra due notizie proposte in prima pagina su Repubblica di oggi. Da un lato il reportage di Bernardo Valli su Baghdad, dove le bombe continuano a essere un dramma quotidiano. A fianco, con toni simili, la notizia della protesta degli ultrà atalantini contro il ministro Maroni: quattrocento facinorosi hanno contestato la tessera del tifoso “con fumogeni, petardi e bombe carta”, tra auto date alle fiamme e agenti feriti.
Fa impressione pensare a dove possa arrivare l’essere umano. Da Bergamo a Baghdad, dai tifosi agli integralisti, la violenza viene ancora considerata un linguaggio adeguato a esprimere le proprie ragioni: politiche da un lato, ludiche dall’altro.
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Un messaggio frainteso
«Il punto centrale è che il cristianesimo non lo difendi brandendolo come un’ideologia, ma testimoniandolo nella vita quotidiana come risposta ai bisogni dell’uomo. La grande forza del cristianesimo, quella che colpisce e “contagia” il prossimo che incontriamo, è la possibilità per l’uomo di sperimentare una novità di vita»: la constatazione, molto evangelica, è di Giorgio Vittadini.
Nei giorni della polemica leghista contro le esortazioni espresse dal cardinale di Milano, il fondatore della Compagnia delle Opere centra meglio degli altri la questione e la sua frase, da sola, vale quanto un discorso: Cristo non può essere un’ideologia, un mezzo, un alibi per giustificare comportamenti che si scontrano con il suo insegnamento.
La Luce guida dei Sentieri
Chiude “Sentieri”, la telenovela più longeva nella storia della tv: così longeva che è nata, 72 anni fa, in versione radiofonica (correva l’anno 1937) e solo nel 1952 si è trasferita in video.
Dopo 16 mila puntate, innumerevoli personaggi, storie, parole, il prossimo 18 settembre “Sentieri” scrive definitivamente la parola fine alle vicende ambientate nella cittadina di Springfield (no, non quella dei Simpson); gli appassionati italiani, però, hanno un vantaggio: la distanza dalla stella che si spegne garantirà altri quattro anni di intrattenimento, prima che cali l’ultimo sipario anche nella versione italiana.
Perché ne parliamo? Perché leggendo qualche articolo commemorativo si scopre che Sentieri, nella sua versione originale, si intitola “Guiding light”, luce guida (e non, come qualcuno segnala su wikipedia, “spirito guida”). Un nome quantomeno sospetto, specie nel contesto statunitense.
Tutta salute
Che un divorzio non sia una passeggiata è evidente. Che rischi di provocare danni psicologici (oltre che economici) è altrettanto riconosciuto. Finora però nessuno aveva azzardato l’ipotesi che facesse anche male alla salute.
E invece pare sia così: un team dell’università di Chicago ha riscontrato che il divorzio aumenta le possibilità di ammalarsi. Presi in esame 8.652 persone tra i 51 e i 61 anni, si è verificato che «i soggetti con un matrimonio fallito alle spalle soffrono di malattie croniche (compresi cancro e problemi cardiaci) mediamente con un’incidenza del 20 per cento in più rispetto a quanti invece non si sono mai sposati».
In mezzo al dramma
«Mai come in questo momento ho sentito che il Signore esiste»: sono le parole di una donna estratta viva dalle macerie all’Aquila dopo ore di angoscia.
«Sono stata salvata dai miei vicini, di cui prima di ieri non conoscevo nemmeno il nome»: la testimonianza di una donna che, a sua volta, si è salvata grazie all’intervento di quegli illustri conosciuti che vivono a pochi metri da noi, ma cui riserviamo a malapena un saluto all’ingresso, se proprio capita di incrociarli.
Sono due tra le tante esperienze raccontate in questi giorni dagli inviati di giornali, radio, televisioni nazionali spediti nelle zone dove il terremoto ha picchiato con maggiore violenza.
Racconti toccanti e immagini che, senza commento, parlano ancora più forte: gli sguardi attoniti di chi ha perso tutto e non riesce a capacitarsene, i pianti sommessi degli anziani che hanno perso la loro appartenenza, le parole angosciate di chi, coperto da una coperta e relegato in un campo di fortuna, implora “non ci abbandonate“.
Un dramma come un terremoto non si riassorbe in tempi brevi e, di fronte a un simile dolore, sarebbe mera speculazione e mancanza di rispetto banalizzare la vicenda cercandovi per forza un lato positivo.
Eppure, in mezzo al dramma, qualcosa di positivo c’è stato.
Nel dramma improvviso di un pericolo mortale, il bene di una solidarietà che avevamo dimenticato.
Nel dramma angosciante di un futuro quantomai incerto, l’abbraccio concreto di milioni di italiani (e non solo).
Nel dramma disperato di un lutto inspiegabile, la consolazione di una fede quasi dimenticata, che emerge dal profondo, passando attraverso le spaccature di una vita finora troppo granitica e intensa per concedere spazio alla spiritualità.
Non sarà facile, certo, riprendere a vivere dopo tutto questo. Sarà lento e faticoso, talvolta perfino doloroso. Né esiste un percorso più breve per superare il trauma.
Solo quei valori, piccoli barbagli di luce riscoperti in mezzo al dramma, potranno dare la speranza, la serenità, la forza capaci di rendere tutto un po’ più facile a chi saprà farne tesoro.
Nella mente del credente
«Non c’è nulla di mistico in una preghiera, rivela Repubblica -. Per il nostro cervello rivolgersi a dio [l’iniziale minuscola è del giornale progressista, ndr] è come parlare a un amico in carne e ossa».
La scoperta arriva da scienziati danesi, che hanno esaminato «le reazioni cerebrali di un gruppo di fedeli impegnati nella ricerca di un conforto spirituale attraverso un dialogo con dio [come sopra, ndr], scoprendo che si attivano le stesse aree di una normalissima conversazione. Cosa che non capita quando ci si rivolge a Babbo Natale. Mentre quando si recita una preghiera a memoria si attivano esclusivamente le zone adibite alla ripetizione».
Ai venti credenti presi in esame è stato chiesto dapprima di recitare una preghiera o una filastrocca; poi di pregare liberamente, relazionandosi con Dio con parole proprie; infine di esprimere un desiderio sui doni che avrebbero voluto ricevere da Babbo Natale.
Quando si parla con Dio, «la risonanza mostra che si accendono le aree della conversazione e che, in particolare, quando ci si rivolge a Dio sono attive anche aree della corteccia prefrontale che servono a capire intenzioni ed emozioni altrui, cosa che succede sempre di fronte a un interlocutore in carne ed ossa. Ciò però non avviene quando si parla con Babbo Natale».
Le conclusioni dello staff di ricercatori è stato che «rivolgersi a Dio è come parlare con una persona, mentre Babbo Natale non sprigiona gli stessi effetti perché si è consapevoli dell’aspetto simbolico e lo si considera più un “oggetto”, il protagonista di una leggenda».
Le menti più avanzate e aperte contestano ai credenti la loro fede, liquidandola come una (pia) illusione. Secondo le ricerche danesi, a quanto pare, se si tratta di un’illusione è quantomeno ben fondata: difficile infatti credere nell’esistenza di una persona in maniera così ferma, decisa e convinta da ingannare perfino il proprio cervello. Se non altro, con Babbo Natale non è riuscito altrettanto bene.
Se questa ricerca può essere motivo di riflessione per chi non crede, a chi crede può offrire qualche indicazione che conferma il tipo di rapporto che Dio vuole avere con noi.
Non vuole che lo consideriamo un personaggio di fantasia. Non vuole nemmeno che lo consideriamo reale, ma lontano e distante – in tutti i sensi – dalle nostre vicende. Desidera che maturiamo la consapevolezza della sua presenza, quotidiana e pratica, accanto a noi.
Non vuole che la nostra relazione con lui sia un recitato di preghiere scritte da altri, e ripetute come una litania che tiene impegnata la bocca e il cervello, ma lascia libero il cuore. Vuole sentire la nostra voce, non quella di altri.
Non vuole una lista di richieste di preghiera – guarigioni, promozioni, benedizioni – proposte con maggiore o minore convinzione: vuole un colloquio vero, diretto, perfino interattivo.
Non vuole, insomma, un rapporto parziale, ma totalizzante: non è un caso se il primo comandamento ci chiede di amare Dio con tutta la forza e con tutta l’anima, ma anche con tutta la mente.
Quel messaggio che germoglia
«Ho bisogno di Dio e credo nell’amore»: è il titolo di un articolo del Corriere che ieri ha intervistato il cantante Nek.
Nel pezzo si parla anche di fede: lo spunto è il videoclip del suo nuovo singolo, “Se non ami”, brano che, spiega l’autore, ha «scritto dopo aver letto l’Inno alla carità di San Paolo, testo che va alla radice dell’amore, descrivendo come la forza di questo sentimento possa trasformare le persone. Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo squillante, dice San Paolo. Come dargli torto?»
Già, come dargli torto. Certo, questa dichiarazione metterà a disagio i tanti che distinguono la musica cristiana dalla musica secolare, i cantanti cristiani dai cantanti secolari, i talenti cristiani dai talenti secolari.
Se non è credente, come ha potuto comprendere e cantare un passo della Bibbia?
Dio, a volte, lavora con ironia. Illumina con rivelazioni sorprendenti una persona che probabilmente, per i nostri canoni, non considereremmo “credente”. Gli fa capire l’importanza del messaggio divino, la bellezza di un passo biblico, il valore della fede.
Forse non ha ancora fatto una scelta consapevole in questa direzione, ma sta aprendo gli occhi. Troppo poco? Forse per qualcuno di noi, sì; per la Bibbia no.
Il seme ha bisogno di tempo per germogliare, e questo può essere frustrante per chi aspetta. Ma se il terreno è buono, ci sono tutte le premesse per un buon raccolto, a tempo debito.
Troppo facile
“C’è crisi, dilagano le psico-sette: le prime vittime sono i manager”, titolava mercoledì Il Giornale.
Si scopre che, al Centro Studi Abusi Psicologici sono pervenute oltre quattromila richieste di aiuto da parte di persone cadute nella rete delle psicosette, o di parenti e amici che vedono una persona cara cambiare il proprio atteggiamento verso gli altri e scontrarsi con i familiari.
Il dato più interessante riguarda l’identikit di chi cade nel tranello: “uomo, giovane (29 anni), laureato, professionista (architetto, avvocato, ingegnere)”. Non è quindi persone di scarsa preparazione culturale o disadattate, ma la cosiddetta “società civile” a rischiare di restare ammaliata da queste realtà che “promettono benessere psicofisico e rendimento massimo nel lavoro”, insieme a una spruzzata di metafisico.
Ce li possiamo immaginare, questi soggetti a rischio.
Forti fuori ma deboli dentro, dopo anni di sacrifici e qualche utile mezzuccio per raggiungere il fine (che, si sa, giustifica i mezzi), ostentano il successo raggiunto con un’apparenza che inganna l’osservatore, facendo credere che siano davvero felici.
E invece felici non sono proprio, se sentono il bisogno di rendere di più, presumibilmente per avere di più e mostrare di più, sfoderando tutto l’orgoglio possibile per marcare la distanza tra ciò che vogliono dimostrare e ciò che, invece, sono.
Se a questo aggiungiamo l’insoddisfazione di chi ha confuso l’essere con l’avere, e l’esigenza – celata in ognuno di noi – di dare un senso vero alla propria vita, diventa più chiaro il motivo per cui persone rispettabili e insospettabili possono diventare adepti di psicosette poco raccomandabili, infilandosi in un tunnel di privazioni affettive, umane, sociali per aderire a una ricerca filosofico-spirituale dalle credenziali più che dubbie.
D’altronde, si sa: l’essere umano ama le soluzioni complicate. Basterebbe rispolverare la Bibbia (che tutti, nel nostro Paese, possiedono) per scoprire un tesoro di risposte, di spiritualità profonda, di consigli preziosi per la vita quotidiana e per l’esistenza. Troppo facile, troppo economico, troppo vicino, troppo trasparente: le strade tortuose, costose, esotiche e ammantate di mistero sono decisamente più affascinanti.
Tanti, ma felici
Cinquecento persone, lo scorso fine settimana, hanno partecipato alla festa dell’associazione nazionale famiglie numerose: si è svolta per la seconda volta in Veneto, in provincia di Vicenza, e ha dato ai presenti modo non solo di incontrarsi, ma anche di confrontarsi su temi di interesse comune.
Deve essere una bella sfida, quella di una famiglia numerosa. La giornalista del Gazzettino che ne parlava in questi giorni segnala appartamenti dove c’è “più disciplina che in una caserma”. Grazie al racconto di altri diretti ineressati sappiamo di famiglie di sei, sette, nove, anche quattordici persone dove il menage quotidiano non si riduce all’anarchia più totale, ma dove tutti aiutano tutti, in una economia di scala che vede tutti responsabili e nessuno escluso dalle scelte della famiglia.
Probabilmente i ragazzi non avranno tutti il cellulare, né vestiti firmati, e forse nemmeno abiti alla moda, e si dovranno accontentare della felpa già portata dal fratello maggiore (e magari anche più di uno). Eppure difficilmente si sentiranno questi ragazzi diffondersi in lamenti.
Colpisce che alla festa di Montecchio Prealcino si trovavano “bambini molto educati… senza un grido né un pianto”. Torna subito in mente, per contrasto, un qualsiasi intervallo scolastico tra due ore di lezione. O gli appartamenti dove i nostri vicini allevano figli assenti, pigri, insoddisfatti, senza uno stimolo capace di smuoverli, eccezion fatta per la suoneria del cellulare o l’ultimo modello di playstation.
Al contrario di loro, le famiglie numerose non possono offrire un doppione a ogni figlio: le bici saranno limitate, i pattini pure, e per potersi esercitare bisognerà – come accadeva prima degli anni Ottanta – imparare ad aspettare con pazienza il proprio turno, senza puntare i piedi o scadere in isterismi da tutto e subito.
Eppure parliamo di famiglie con un ampio numero di figli: forse questi genitori coraggiosi avrebbero qualche ragione per considerarsi giustificati nel vedere la prole crescere trascurata. Invece no. Educati, silenziosi, altruisti.
Allora viene da pensare che la famiglia numerosa sia una scuola di vita. Che non largheggia nel lusso, ma forma in maniera efficace. Forse i genitori non tornano a casa stanchi sentendo il diritto di estraniarsi per riprendersi dalle fatiche del lavoro, e si mettono invece a disposizione delle esigenze familiari. Forse i figli sanno che non possono aspettare la cena con l’indolenza della generazione youtube, ma devono collaborare, per quanto possibile, alla preparazione del pasto. Forse, rendendosi conto che la situazione non permette di tirare avanti da soli, tutti sono più disponibili ad aiutare l’altro. Sapendo che gli spazi sono limitati, tutti sono più sensibili nell’agevolare le esigenze altrui. Sapendo che i soldi non bastano davvero mai – e non solo come luogo comune di un’Italia che non sa più dove spendere – si impara ad amministrarsi in maniera ragionevole e ad accontentarsi.
In una famiglia numerosa la vita è un’avventura quotidiana: si vive stretti, ma felici.
Una famiglia numerosa è un limite o un punto di forza? Il gioco vale la candela? Lasciamo a voi le conclusioni.
Probabilmente però se la nostra società somigliasse a una famiglia numerosa vivremmo tutti meglio.