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La fatica di sentirsi vivi

Stando a una ricerca riportata dalla Stampa e basata sulle risposte di 1500 ragazzi, l’alcol è l’ultima frontiera dei giovanissimi. Cominciano a bere presto, già a undici anni, e a quindici sono esperti di intrugli ad alta gradazione.

Lo fanno «per non pensare alle cose brutte», «per sentirsi invincibile», «sciolto, libero, felice», addirittura «più bello», perché «è una cosa da duri», «si ha l’impressione che niente può andare storto». Ma anche «per una botta di vita», «per divertimento», «per fare colpo», «per essere figo».

Paola Nicolini, l’esperta che ha curato la ricerca, l’ha chiamata “sbronza preventiva”: «non ci si ubriaca più per dimenticare ma per vivere». Capovolgendo, di fatto, la prospettiva dei bevitori delle precedenti generazioni.

Spiega l’esperta che tra i teenager «nessuno associa l’ubriachezza al timore di essere scoperto, al senso del proibito, alla trasgressione. La birra, il vino, la vodka, il rum, il limoncello sono la stampella di un Io fragile che cerca conferme nel gruppo. Tutti vogliono essere simpatici, spiritosi, brillanti. E bere aiuta».

Di fronte ad abitudini così poco raccomandabili le famiglie sono in difficoltà: la ricerca rivela «il disorientamento e il senso d’impotenza delle famiglie» che sanno del vizio dei figli, vogliono capirne i motivi e si ripromettono anche decisioni di polso, ma poi scaricano la responsabilità sulle autorità, facendo appello a “leggi” e “controlli” e ammettendo, così, la loro sostanziale incapacità.

A quanto pare, quindi, il problema non è solo dei figli. Se il massimo che i genitori sanno fare è minacciare provvedimenti o rivolgersi a “chi di competenza”, evidentemente non hanno argomenti migliori. Argomenti che dovrebbero passare per termini come educazione e disciplina, e che presuppongono concetti come valori e morale.

Trovarsi di fronte a un figlio adolescente brillo dovrebbe portare un moto d’orgoglio e di responsabilità. Dovrebbe risvegliare nei genitori il buonsenso sopito, riattivare l’attenzione verso i punti di riferimento di cui, negli ultimi decenni, si è fatto strame a beneficio di una malintesa libertà. Una libertà che, se non ha limiti e obiettivi, è solo un’autostrada per l’autodistruzione.

È curioso notare che genitori si appellano alle leggi e ai controlli, senza ricordare che sono stati loro, quando avevano l’età dei loro figli, a chiedere a gran voce l’abolizione di ogni limitazione.

In parte avevano ragione: non sono le leggi esteriori a poter offrire una vita degna di essere vissuta, ma quella legge interiore che si fonda sulla fede, sulla coscienza, sull’esperienza. Una legge che decade quando perde i suoi presupposti, quando non le si riconosce più un valore intrinseco. Le conseguenze sono più ampie di quanto si potrebbe pensare: la fede cristiana, che porta con sé un comportamento e un’etica degni di questo nome, comporta anche un obiettivo, uno scopo, una speranza nella vita.

Come in un effetto domino, perdere di vista i valori porta a perdere anche il senso della vita, e i risultati sono sotto i nostri occhi: figli disorientati, famiglie che non sanno da che parte guardare, paura generalizzata di guardare al futuro.

Se, per i giovanissimi, perdere il senso della realtà è l’unico modo per sentirsi vivi, non possiamo non dirci preoccupati.

Esiste una soluzione? Sì, ma non si può limitare a un nuovo passatempo, a una moda più salutista delle precedenti, a una campagna di sensibilizzazione, a un buon proposito di capodanno.

Una soluzione efficace non può limitarsi a increspare la superficie, deve andare in profondità. Deve partire dalla consapevolezza di un bisogno, ma ancora non basta: funziona solo se siamo disponibili a un cambiamento radicale sul piano personale, capace di riportarci – riportare ognuno di noi – nella direzione della Speranza.

Perché non possiamo pretendere di cambiare la società, i giovani, il futuro, se prima non siamo disposti a cambiare noi stessi.

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Quel bisogno d'amore

“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.

Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.

Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.

Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.

Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.

Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.

Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.

Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.

Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.

In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.

Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.

Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.

Quel bisogno d’amore

“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.

Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.

Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.

Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.

Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.

Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.

Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.

Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.

Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.

In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.

Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.

Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.