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Se la truffa è l'unica speranza
Una zingara di origini slave di 28 anni è stata arrestata «per aver truffato una signora convincendola a consegnarle 50mila euro in cambio di un aiuto “ultraterreno”».
La nomade, racconta Il Giornale, «ha avvicinato la sua vittima, una brianzola di 50 anni, sul piazzale di un centro commerciale di Monza. La donna le aveva raccontato i suoi guai (un figlio trentenne gravemente malato, un matrimonio a pezzi, un fratello morto da poco per un male incurabile). Un racconto disperato, ma non così tanto da inibire le smanie della nomade, che è riuscita in più riprese a persuaderla circa un suo “intervento” e, soprattutto, a farsi quindi consegnare il denaro necessario per ottenere una “grazia”».
Se la truffa è l’unica speranza
Una zingara di origini slave di 28 anni è stata arrestata «per aver truffato una signora convincendola a consegnarle 50mila euro in cambio di un aiuto “ultraterreno”».
La nomade, racconta Il Giornale, «ha avvicinato la sua vittima, una brianzola di 50 anni, sul piazzale di un centro commerciale di Monza. La donna le aveva raccontato i suoi guai (un figlio trentenne gravemente malato, un matrimonio a pezzi, un fratello morto da poco per un male incurabile). Un racconto disperato, ma non così tanto da inibire le smanie della nomade, che è riuscita in più riprese a persuaderla circa un suo “intervento” e, soprattutto, a farsi quindi consegnare il denaro necessario per ottenere una “grazia”».
Consigli per la crescita
Se la manualistica educativa ha ampi riscontri di vendite e i decaloghi mantengono il loro fascino da migliaia di anni, si può prevedere un grande successo “Decalogo per genitori italiani”, l’ultima uscita dedicata a una categoria, quella dei genitori, sempre più confusa e incerta.
La letteratura di settore è controversa: prima ci hanno insegnato che i figli andavano educati in maniera rigida, poi ci hanno detto che no, che andavano lasciati liberi di fare quel che vogliono; qualcuno, a corollario, ha preteso di veder crescere una generazione di orfani virtuali, dove il genitore era un amico da chiamare per nome, ma i risultati deludenti hanno suggerito di rivalutare un approccio fermo: in assenza di una parola definitiva, per decenni ci si è barcamenati tra i due estremi.
Gli esperti di turno, ora, propongono un decalogo sobrio e, tutto sommato, condivisibile.
1. non pretendere da un figlio maschio meno di quanto pretendi da una figlia femmina.
Vero: a forza di servire e riverire, spesso ci ritroviamo di fronte ai classici bamboccioni che non sanno lavare i piatti o rassettare il letto.
Però, per par condicio, la norma andrebbe interpretata in maniera bidirezionale: non pretendere da una figlia femmina meno di quanto pretendi da un figlio maschio. Già oggi non sono pochi i casi di ragazze in età da marito incapaci di tenere in mano un ferro da stiro. Se poi sanno anche riparare una lampadina o montare una ruota di scorta, meglio: faranno contenti i paladini della parità. E anche i mariti.
2. non permettere che tuo figlio tenga dei comportamenti che disapprovi quando messi in atto dai figli degli altri.
Comportamento odioso, oltre che diseducativo: pretendere dagli altri bambini un comportamento adulto, e permettere al proprio di fare i capricci. I bambini non sono stupidi. Né quelli degli altri, né i nostri.
3. sii disponibile quando tuo figlio ti cerca, ma aiutalo solo quando non puà farcela senza di te.
In due parole: presenti ma discreti. Non fate i suoi compiti, e non rispondete quando le sue domande nascono dalla pigrizia di non voler aprire il dizionario.
4. allena tuo figlio a un rapporto responsabile con il denaro.
Evitiamo tre errori: dargli tutto quello che vuole, fargli credere che tutto si possa comprare, e dall’altro lato instillargli un senso del risparmio che rischi di sconfinare nell’idolatria.
5. avvicina tuo figlio ai libri e al piacere della lettura.
Fargli trovare in giro per la casa libri adatti è un’idea, ma il metodo migliore resta l’esempio. E qui, forse, prima di educare i nostri figli dovremmo educare noi stessi.
6. diventa alleato degli insegnanti nell’istruzione di tuo figlio.
È la soluzione migliore: giustificare il pargolo di fronte ai docenti lo porta a una sensazione di onnipotenza che, in seguito, non sconterà solo lui.
Certo, potrà capitare che in questa prospettiva talvolta il ragazzo si ritrovi a subire un’ingiustizia: gli insegnanti sono esseri umani. L’importante è comprendere che non si tratta di un dramma planetario: semmai lo aiuterà a formare gli anticorpi a una situazione che, nella vita, vedrà fin troppo spesso.
7. lo sport è importante per crescere, ma saper perdere è la prima cosa da imparare.
Ditelo ai genitori che, dagli spalti dei campetti di provincia, urlano insulti all’arbitro, dando una lezione desolante ai giovanissimi che, in campo, vorrebbero solo divertirsi.
8. tratta tuo figlio maggiorenne da adulto.
Bisogna rassegnarsi: crescono, prima o poi. Rallentare il percorso non giova a loro, e nemmeno a noi.
9. non idealizzare il destino di tuo figlio e credi nel suo futuro.
Non dargli false illusioni: non hanno mai fatto bene, e sono ancora meno salutari in tempi di recessione.
Non caricarlo di aspettative esagerate: il futuro è il suo, e solo marginalmente il tuo. Sii sobrio per insegnargli a essere sobrio.
10. dai un fratello, se possibile, al tuo figlio “unico”.
Naturalmente qui entrano in gioco variabili che non sempre si possono prevedere. Però se possibile, quando possibile, per molti versi un fratello cambia l’approccio alla vita.
Soprattutto, come chiosa Deborah Compagnoni, «i bambini sono persone; non sono una tua copia, né quel qualcosa che tu non sei». E forse, a ben guardare, è proprio questa la chiave per cimentarsi al meglio nell’impegnativo ruolo di genitori.
Una presenza eterea
«Non credo che accettino di vendere Kakà perché devono fare cassa, ma perché quando un giocatore chiede per due o tre volte di andarsene, alla quarta non lo puoi tenere». Lo dice oggi alla Stampa Demetrio Albertini, “senatore” del Milan con un’esperienza internazionale alle spalle.
Abbiamo parlato più volte del fuoriclasse milanista per la sua fede e la sua testimonianza cristiana, che l’ambiente calcistico, pur sorridendo a mezza bocca, ha dovuto rispettare in ossequio alla qualità tecnica del personaggio. Da sempre il talento è una credenziale che giustifica ciò che suona anomalo o che non si sopporta: la fede di Kakà, il carattere difficile di Mourinho, l’atteggiamento irriverente di Gascogne.
Però la vicenda Kakà è ormai una telenovela dal finale annunciato. Se è questione economica, non si può che concludere con la cessione: il Milan potrà resistere alla prima offerta esorbitante, potrà declinare la seconda, ma prima o poi dovrà cedere.
Resta qualche dubbio sul problema di fondo che spinge il calciatore ad accettare di andarsene altrove. Difficile credere che riguardi i soldi: quando uno guadagna decine di milioni di euro all’anno può permettersi di dire no perfino a offerte da capogiro, e può farci addirittura una bella figura. È successo allo stesso Kakà l’estate scorsa, quando a offrire una cifra da capogiro è stato il presidente (musulmano) del Manchester City: dire di no è stato (oppure è sembrato?) un gesto di coerenza con il proprio credo.
Se il problema non è di natura economica, potrebbe riguardare l’ambiente: ma il calciatore vive a Milano dal 2003, e a quanto pare regge bene la metropoli, né pare abbia avuto il bisogno di trovare una villa fuori dal caos urbano, come altri suoi colleghi.
Che sia un problema di maglia? Anche in questo caso, la tesi è difficile da sostenere: fino a poche settimane fa il fuoriclasse ringraziava i tifosi e prometteva fedeltà, difficile che sia cambiato qualcosa.
Nemmeno il fattore-nostalgia ha qualche chance: ha con sé la famiglia, sua moglie e di recente perfino la sua chiesa brasiliana – non bastassero le decine di comunità evangeliche già presenti a Milano – ha aperto una filiale in centro città.
Forse il problema non esiste, e Kakà sente solo il bisogno di cambiare. Non sappiamo se lo farà: in caso avvenga, però, è probabile che la Milano non calcistica non ne risenta.
Sarà che si tratta di un personaggio globale e – di conseguenza – poco legato al locale, ma in questi sei anni in rossonero, fuori dal campo, la sua presenza è rimasta eterea.
Nonostante le sue forti convinzioni religiose, non si sono registrate da parte sua apparizioni a iniziative di carattere evangelico: mentre i suoi colleghi Atleti di Cristo girano l’Italia, partecipano a trasmissioni radiofoniche e televisive, visitano teatri e chiese, sponsorizzano missioni e iniziative di evangelizzazione, scrivono libri e incontrano la gente, lui è rimasto sempre in disparte.
Un altro stile, forse; sapere della sua fede ha incoraggiato molti, ma la Milano evangelica – quei credenti che sono stati fieri di poterlo annoverare come un “fratello”, e che dalla sua fede magari hanno tratto spunto per parlare di Dio ad amici e colleghi – lo avrebbe voluto abbracciare, ringraziare, salutare, una volta o l’altra. Con la scusa che l’avrebbero voluto tutti (e come dargli torto?), non lo ha visto nessuno. Una presenza incoraggiante, ma del tutto virtuale.
Da questo punto di vista Kakà possiamo dire che è già partito. O, forse, non c’è mai stato.
Chissà, forse Madrid gli sarà più congeniale. Speriamo. Dios te bendiga, Ricardo.
Un mondo senza vergogna
Chi ci salverà da un mondo senza vergogna? Ce lo chiediamo anche noi, insieme a Marco Belpoliti.
La vergogna è un sentimento ormai superato, di cui si ritiene di poter fare a meno e di cui – semmai – vergognarsi. E invece è sempre stata un ottimo filtro per i comportamenti individuali.
Il problema tocca tutti noi. La generazione di mezzo ha abolito la vergogna insieme ai limiti e alle inibizioni: per tentare di raggiungere un senso di libertà abbiamo sperimentato la trasgressione estrema; abbiamo trasformato le regole in suggerimenti e abbiamo abolito ogni punto di riferimento.
Abbiamo creato un’epoca “post” tutto, e abbiamo tirato su in questo contesto la nuova generazione. Una generazione che i limiti non li ha mai visti, le regole non le ha mai rispettate, e la vergogna non sa nemmeno cosa sia. Eravamo convinti di averle fatto un favore, sgombrando il campo da ogni confine; ci sentivamo come l’adolescente che riesce a conquistare mezz’ora al coprifuoco serale imposto dai genitori, spianando la strada al fratello minore.
Non è andata secondo i piani. Evidentemente quei limiti avevano un senso, quelle norme non erano così inutili. Quella vita, di cui coscienza e vergogna erano parte integrante, aveva un significato. Quelle difficoltà, quelle regole che ci andavano così strette ci motivavano a coltivare interessi, passioni, obiettivi, speranze.
Speranze che mancano a chi, oggi, vive un mondo dove tutto è relativo, dai valori alle azioni quotidiane.
Provate a esclamare “vergognati!” davanti a un adolescente. Vi guarderà perplessi. Vergognarsi di cosa? E perché?
E in fondo ha ragione: senza valori non esiste il giusto o lo sbagliato, il bene o il male. E, senza di questi, la vergogna non ha senso.
Ce lo siamo costruiti noi, questo mondo, a forza di irridere chi invocava un po’ di buona creanza. Che sarà mai, dicevamo, una pancia nuda o una risposta sopra le righe: i giovani devono essere lasciati liberi di esprimere se stessi. Senza vergogna, naturalmente.
E così, passo dopo passo, abbiamo demolito tutto: dalla buona creanza all’educazione, dall’educazione al rispetto, dal rispetto alla convivenza civile.
Non abbiamo costruito un bel mondo: né per noi, né per loro. Dovremmo correre ai ripari, se siamo ancora in tempo. E dovremmo vergognarci, se sappiamo ancora farlo.
Diete salutari
Un anno vissuto spendendo una sterlina al giorno: è la sfida che si è imposta una insegnante inglese quarantasettenne. Un po’ per scommessa, un po’ per necessità: doveva fare un regalo di matrimonio a suo fratello, e per questo ha deciso di risparmiare per un anno.
Tolte le spese vive per l’alloggio (affitto, luce, gas) ha stabilito un ruolino di marcia capace di farle risparmiare fino all’estremo, ottimizzando al massimo quel che aveva: pranzi e cene ai buffet gratuiti, acquisti nei mercati all’orario di chiusura (quando i prodotti vengono svenduti) e così via. Ed è riuscita, con un po’ di fantasia, a farsi anche una vacanza.
Alla fine ha raggiunto il suo obiettivo, vivendo per un anno con meno di un euro e mezzo al giorno. Ora, a sfida conclusa, non è tornata alle vecchie abitudini: «Questa esperienza ha completamente cambiato la mia mentalità – ha spiegato – ora non riesco più a provare piacere nello spendere denaro e il mio budget giornaliero continua ad essere molto basso».
A volte dobbiamo privarci di quel che abbiamo, per capire quanto superfluo ci sia nella nostra vita. Certe volte lo facciamo volontariamente, altre volte ci viene imposto dalla vita. In ogni caso può essere istruttivo, se riusciamo ad avere la giusta prospettiva sulle cose.
Tutto sta nell’accettare la situazione: cosa, ovviamente, difficile. Spesso infatti, di fronte alle ristrettezze, tendiamo a dibatterci nel nostro disagio, ostinandoci a carpire i perché e ignorando invece le opportunità che ci si aprono davanti.
Eppure è proprio così: le difficoltà hanno il vantaggio di aprirci gli occhi. Dopo, vediamo tutto in una luce diversa: più realistica, più concreta, più ragionevole.
Forse ogni tanto un digiuno, non solo alimentare, ci farebbe proprio bene: per apprezzare di più quello che abbiamo, per capire gli altri, per crederci meno invincibili, per andare in contro alle necessità del nostro prossimo.