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… si può dire “Pasqua”?
C’è chi si pregia di non celebrare le feste, ed evita accuratamente ogni sorta di messaggio augurale, ostentando con i malcapitati interlocutori un soddisfatto “io non festeggio”.
C’è chi, invece, non si crea problemi, e passa le giornate di festa con i familiari, di fronte a decine di portate, perdendo di vista le ragioni della festa, ma senza sentirsi in colpa perché “tutto è puro per i puri”.
C’è, a dire il vero, anche chi festeggia ricordando il significato della celebrazione, magari ripercorrendo le parti dei vangeli che raccontano i fatti rievocati nel periodo e ringraziando Dio per il suo intervento: si tratta di una minoranza, ma è bello sapere che qualcuno la vede anche così.
Non siamo qui per emettere giudizi di conformità: speriamo solo che ognuno abbia valutato il proprio comportamento attraverso una lettura onesta e organica di quel che dice la Bibbia.
Non ci stupisce, dicevamo, chi festeggia o non festeggia. Ci stupisce, semmai, chi si astiene dal festeggiare cristianamente la pasqua, ma poi diffonde messaggi di auguri per il nuovo anno, per i compleanni, per altre ricorrenze. Non che sia sbagliato, beninteso: ma è una questione di coerenza.
Per quanto mi riguarda, nella libertà cristiana, estendo a tutti gli amici di biblicamente la speranza e l’augurio (nell’accezione migliore del termine, per carità) di una buona pasqua: che sia un’occasione per rinnovare la nostra gratitudine verso Dio, nell’autentico ricordo di Gesù Cristo, morto al posto nostro e risorto per donare la vita a tutti coloro che ripongono la loro speranza in lui.
La cosa giusta
Qual è la cosa giusta? Nella vita o su un campo di calcio non è facile individuarla. E quando si pensa di averla trovata, il contesto finisce per metterla in discussione.
Ne sa qualcosa Bepi Pillon, allenatore dell’Ascoli, da sabato soprannominato “mister correttezza” per un gesto senza precedenti. La sua squadra ha segnato un gol con un avversario a terra, e quindi senza rispettare il patto tra gentiluomini di solito osservato in questi casi; Pillon – dice lui “d’accordo con la squadra” – ha ordinato ai suoi di fermarsi e di lasciar segnare gli avversari per ristabilire la parità e ripartire con il gioco ad armi pari.
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Se la guerra è finita
Il Magazine di questa settimana parla del cambio di rotta che ha caratterizzato il movimento evangelico USA in questi ultimi tempi: Ennio Caretto, nel descrivere la novità, conia la definizione di cristiani obamiani, che puntano “su clima, crisi e sanità per tutti”.
Naturalmente non perdono il loro nerbo i classici conservatori – su tutti l’inflessibile decano dei tele e radiopredicatori, James Dobson -, ma si avverte una nuova sensibilità, oltre che l’esigenza di cambiare e capire una realtà sempre più complessa, che si adatta meno che mai al consunto schema manicheo del confronto tra bene e male.
Quel gran genio di Calvino
Regalo di compleanno per Calvino: il Vaticano si unisce indirettamente ai festeggiamenti per i suoi cinquecento anni (l’illustre riformatore nacque nel 1509) riabilitandolo. Non solo: da eretico quale era fino a ieri, oggi è diventato una mente straordinaria.
Lo scrive, sull’Osservatore Romano, l’accademico di Francia Alain Besançon, secondo cui «L’organizzazione calvinista è una creazione geniale, capace di adattarsi» a ogni forma di stato e di governo, pregio che manca al contesto cattolico e al luteranesimo.
Proprio a Lutero Besançon dedica parole poco lusinghiere: se Calvino ha creato una struttura la cui “superiorità storica” e la cui “efficacia sono evidenti”, Lutero «era stato incapace di fondare una vera Chiesa». Aveva pensato fosse possibile affidarne “la guida ai prìncipi” per “far nascere una cristianità più pura e più perfetta di quella con la quale rompeva”, ma questa impostazione ha mostrato presto i suoi limiti.
Mica come Calvino, sembra esclamare Besançon, che «non condivide questa illusione e fonda un sistema ecclesiale compenetrato nella società civile ma indipendente, sottoposto al magistrato legittimo, però in grado di tenerlo a distanza e di influenzarlo».
E non solo: il ginevrino «fece profonda pulizia nei templi, tagliò nel folto delle tradizioni dogmatiche» ed «espulse il vasto magma delle devozioni popolari», aspetti che – viene da rilevare – fino a ieri non venivano visti Oltretevere con particolare favore.
Evidentemente il vento è cambiato, e di Calvino si possono evidenziare gli aspetti più brillanti: “aderisce pienamente ai simboli di Nicea e di Costantinopoli”, “professa di credere nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”, “crede nella Trinità, nel peccato originale, nella salvezza attraverso Gesù Cristo”. Perfino onora Maria, oltre a credere nella presenza reale di Cristo nella Cena (pur non ammettendo, ovviamente, la transustanziazione).
E ancora “aderisce ai due principi della giustificazione per fede e della sovranità della Bibbia”, addirittura in anticipo sul Concilio di Trento.
Sì, come rileva Giacomo Galeazzi sulla Stampa, sicuramente si tratta di “una coraggiosa rilettura di Calvino“, che viene interpretata come un’apertura verso il mondo evangelico: o almeno quella parte del mondo protestante che non si sarà offesa per la descrizione di Lutero.
Quali potranno essere le conseguenze di questo nuovo corso non è facile dirlo. Una cosa è certa: a prescindere dallo scopo e dagli sviluppi, certamente non si è trattato di una mossa casuale.
La falsa novella
«No, bisogna sfatare gli stereotipi della black music: il significato originale di gospel è “buona novella”, e le buone notizie non sono per forza legate a un credo preciso…. credo fermamente che l’hip hop sia una vibrazione positiva che rende il “messaggio” del gospel meno settario da un punto di vista religioso e più universale”.
Sono le ispirate parole di Kenneth Ce Ce Rogers, artista americano in questi giorni a Milano, intervistato dal Corriere.
Un tentativo di sdoganare l’ossimoro del gospel laico che fa riflettere su quanto sia pericoloso smarrire il senso delle parole. Una buona notizia potebbe essere qualsiasi novità positiva, sicuramente. Ma anche “positivo” ha un significato molto relativo, e per niente universale. È positivo vivere o morire? Le discussioni di questi giorni sull’eutanasia insegnano che è difficile dare una risposta netta. È positiva la sicurezza o la riservatezza?
Il problema è che spesso i guru dei nostri anni dicono “positivo” e pensano, in ultima analisi, semplicemente “libero”.
Libero da tutto e da tutti, senza limiti e confini – per dirla con Battisti -, senza obblighi. Liberi malgrado tutto, e a prescindere da chiunque: va da sé che si tratta di una libertà che non contempla la sensibilità, l’amore, e il rispetto per gli altri. Insomma, una religione dell’ego.
Forse allora la soluzione “meno settaria” di cui parla Rogers non è altro che una non-fede universale, dove ognuno è libero di vivere la propria cattiva coscienza senza sentirsi dire alcunché da chi gli sta vicino.
Non c’è che dire: nel passare dal messaggio di speranza e di amore di Gesù Cristo all’anarchia disorientata e confusa dei guru odierni c’è proprio da guadagnarci.
Bibbia a colori
«La natura attraversa la Bibbia come una vite. Ci sono il giardino dell’Eden e il ramoscello d’olivo di Noè. Le querce presso cui Abramo si è incontrato con gli angeli e l’albero piantato presso i rivi d’acqua citato nei Salmi».
Adesso questa presenza verde ha avuto un suo riconoscimento con una nuova versione della Bibbia che verrà lanciata negli USA il prossimo 7 ottobre da Harper Collins. A caratterizzarla non è solo la carta riciclata e l’inchiostro ecologico (a base di soia), ma il testo stesso: «una versione della Scrittura – scrive Time – che richiama l’attenzione su più di mille versetti relativi alla natura e li sottolinea stampandoli in un piacevole colore verde foresta, come la “red letter edition” della Bibbia enfatizza le parole di Gesù».
Una versione che coglie la sensibilità sempre maggiore degli evangelici USA nei confronti della salvaguardia del creato, ma che probabilmente incontrerà qualche resistenza. E non perché usa la New Revised Standard Version, traduzione non amata dai conservatori: è il senso stesso del progetto a lasciare perplessi i battisti del sud, la corrente più conservatrice nel contesto evangelico. Rileva infatti Richard Land che l’ecologia «certo è importante, ma quando è stato chiesto a Gesù quale sia la cosa più importante, lui ha risposto “Ama il tuo Dio, e ama il tuo prossimo come te stesso”. Non ha detto nulla riguardo la creazione”».
Iniziativa interessante sotto vari punti di vista.
Intanto, ben venga una nuova versione della Bibbia che sia in grado di allargarne ulteriormente la diffusione e la lettura, purché la traduzione sia leggibile, fedele, accurata.
Tanto meglio se, come pare, la versione di cui parliamo potrà riuscire raggiungere un target appassionato ai temi sociali più che alla lettura delle Sacre Scritture.
In merito all’interesse dei cristiani per la salvaguardia del creato, va ricordato che non è una moda né un concetto nuovo. Apprezzare ciò che Dio ha creato, scoprire la perfezione di ciò che ci circonda, sorprenderci di fronte alle meraviglie della natura spinge il cristiano ad amare e a ringraziare con maggiore intensità il suo Salvatore.
Nello specifico, la salvaguardia del creato è un tema affascinante. E dei temi affascinanti non bisogna avere paura, anche se bisogna riconoscerne la pericolosità. Bene, quindi, l’attenzione alla tutela della natura, all’aiuto del prossimo, all’impegno sociale e magari anche all’azione politica.
Ma l’ecologia, come gli altri temi, non deve diventare una nuova ragione di vita, una nuova denominazione o un tema prevalente nella predicazione. Non va persa di vista la prospettiva: il centro della Bibbia è il rapporto di Dio con l’uomo, il suo scopo è raccontare che esiste per ogni essere umano la possibilità di ottenere la salvezza – quella salvezza che sfugge ai tentativi di raggiungerla con le nostre forze – attraverso l’azione di Gesù Cristo. Il resto è corollario.
Non comprendere la centralità di Cristo porta a considerare sullo stesso piano la “red letter edition”, che pone enfasi posta sulle parole di Cristo, con la nuova “green letter edition”, che sottolinea i temi ecologici contenuti nella Bibbia. E, magari, domani porterà a una nuova edizione che proclamerà con altri colori l’importanza di una dieta alimentare specifica, o dell’impegno sociale, politico, e chissà cos’altro ancora.
Insomma: mentre la Bibbia diventa multicolore, giorno dopo giorno rischiamo di leggerla guardando sempre più alle nostre mode, ai nostri interessi, alle nostre passioni, e smarrendo così il senso più profondo del messaggio di Cristo.
Natura e scelte
Nei mesi scorsi avevamo letto sui giornali titoli su titoli dedicati all’uomo incinto: si trattava di un americano, tale Thomas Beatie, 34 anni, che dalle foto mostrava fattezze tipicamente maschili e che i giornali descrivevano come “ex donna”.
Ora giunge la notizia che il gentile signore ha partorito: con parto naturale, per giunta.
Sul momento vacillano le certezze anatomiche, tanto più quando si legge sul Corriere che «nato donna, Beatie, 34 anni, si è sottoposto a un’operazione e da anni assume ormoni per avere un aspetto maschile».
Salvo precisare, quasi come un inciso, che l’uomo «ha scelto di conservare l’apparato genitale femminile per poter avere un figlio».
E qui a vacillare sono altre certezze. Potremmo discutere a lungo su cosa significhi essere uomo o donna, sui casi limite e sulle eccezioni.
Potremmo discettare con altrettanta profondità su un quesito filosofico rilevante, per capire se la nostra identità è legata alla nostra realtà o a ciò che ci sentiamo.
Sul piano formale, probabilmente anche un bambino potrebbe arrivare a una conclusione cui i giornali, evidentemente, non sono giunti: una donna che voglia di diventare uomo ma decida di mantenere le prerogative femminili è, evidentemente, ancora una donna: anche se si veste e si acconcia da uomo, e se una bomba ormonale le permette di lasciarsi il pizzetto.
Non ha molto senso parlare di “uomo incinto” se gli organi genitali sono femminili, mantenuti nonostante tutto proprio con lo scopo di poter, un giorno, procreare.
Ha senso in un caso: quando si vuole porre un paletto per sancire una conquista.
L’uomo che partorisce è un controsenso, parlando in termini ordinari, naturali, “normali”. Poter dire “ce l’abbiamo fatta” significa allargare gli orizzonti delle possibilità umane, sconfiggere una natura matrigna e un ordine costituito che stanno stretti.
Forse l’identità sessuale non è solo questione di natura, ma non può nemmeno essere solamente una questione di scelta: non siamo solo quello che vediamo, ma non possiamo essere solo quello che vogliamo.
Certo, i progressi scientifici hanno dato all’uomo l’illusione non solo di poter dominare la natura, ma anche di piegarla al suo desiderio, capovolgendo il corso ordinario. L’uomo del XXI secolo deve essere libero di scegliere il proprio sesso, cambiarlo, ricambiarlo, o restare sospeso a metà; deve potersi sposare come uomo, potersi risposare come donna, indifferentemente con una donna o con un uomo: perché – pare di capire – la natura va dominata a tutti i costi, ma gli istinti assolutamente no.
D’altronde l’uomo del XXI secolo deve poter esercitare la sua sessualità liberamente, senza obbligo o rischio di procreazione; ma, non appena lo desideri, deve poter procreare senza limiti, senza interazioni, senza controindicazioni né conseguenze. E, qualora qualcosa frustri i suoi piani, deve essere libero di forzare la natura che non gli permette di fare i suoi comodi.
Comprenderete lo smarrimento di fronte un uomo che ha come unico punto di riferimento morale il proprio egoismo, e come unico programma di vita la propria soddisfazione personale.
E capirete la sorpresa nel vedere lo stesso uomo che, a giorni alterni, spende accorate parole contro gli ogm e lo scempio ambientale, o a favore dei cibi genuini e della raccolta differenziata.
Un uomo che si schiera volentieri a difesa della natura. Almeno fino a quando la natura non pretende di dire la sua.
Fede riflessa
La storia di Katy Perry è interessante.
Si tratta di una giovane cantante USA, che oggi il Corriere definisce (un po’ pomposamente) “L’erede di Madonna”, dedicandole una intera pagina di spettacoli. Ventisei anni, “è la numero 1 e viene lodata dalla popstar più famosa”, probabilmente non tanto per meriti artistici, che anche in Madonna non abbondavano, ma per l’immagine ambigua e pruriginosa – questa sì, settore di competenza di Madonna – che si sta ricavando grazie al suo look “da ragazzina impertinente degli anni Cinquanta” e ai testi delle sue canzoni.
Al momento infatti Katy Perry è in testa alle hit parade con “I kissed a girl” (ho baciato una ragazza), dove esprime amenità del tipo: Ho baciato una ragazza e mi è piaciuto… tanto per provarci… spero che al mio ragazzo non importi… mi è sembrato così sbagliato… mi è sembrato così giusto.
Il Corriere segnala fin nella titolazione che Katy è «figlia di due pastori protestanti», che ha «un tatuaggio “Jesus” sul polso e un esordio discografico nel settore christian music».
Vero: nel 2001, sedicenne, Katy Hudson (questo il suo vero nome) ha esordito nel campo musicale cristiano. D’altronde non poteva che cominciare così la figlia di due predicatori evangelici conservatori, seguendo un percorso che ricorda quello di Elvis Presley, Whytney Houston e molti altri.
Cosa sia cambiato, dal 2001 a oggi, non si sa. Forse niente, ed è questo il punto. Per chi cresce in un contesto cristiano, con genitori impegnati nel settore e un ambiente dove le priorità sono legate alla fede, è facile venire influenzati e credere di voler fare la stessa cosa. Credere di credere. E poi l’ambiente, almeno negli USA, è un buon trampolino di lancio per farsi conoscere, oltreoceano la musica cristiana “tira” anche come business.
Ma non si può vivere una fede di riflesso, specie in ambienti esposti e non facili come il mondo dello spettacolo (o della comunicazione). Sapere che la propria chiesa crede, che i propri genitori credono può essere un incoraggiamento, ma non è sufficiente. Il rapporto del cristiano con Dio è personale e diretto, nasce con una scelta e va alimentato ogni giorno per evitare che si spenga. E i momenti difficili, in fondo, servono anche a dimostrare a noi stessi se crediamo in quel che affermiamo, o se è solo un riflesso condizionato.
Quello di Katy Perry non è il primo caso né sarà l’ultimo: alle prime avvisaglie di successo, ecco che le certezze (altrui) si sgretolano, e un tatuaggio – che in qualche modo inizialmente voleva riprendere il significato del braccialetto WWJD – resta solo un tocco eccentrico a una personalità che non ha valori, né – ormai – limiti.
La vita giusta
“Bambini preoccupati per i genitori online”, perché i genitori non sono più in grado di badare a loro stessi: qualche giorno fa il Corriere accennava al caso della Svezia, dove sempre più spesso i bambini sono “in ansia per i comportamenti online di mamma e papà” e chiedono consiglio all’associazione per il rispetto dei diritti dei minori su come aiutare i propri genitori, troppo presi da Internet e da amicizie pericolose per la stabilità della famiglia.
Un caso ancora estremo ma emblematico della società che, attraverso la pubblicità, i film, la musica, i libri ci insegna che tutto sommato non è necessario crescere, che a ogni età è possibile ricominciare inseguendo sogni, desideri, ideali, utopie, chimere.
All’apparenza si tratta di un messaggio di speranza: i nostri padri, nonni, bisnonni si sono rammaricati per tutta la vita di una scelta lavorativa, di un legame familiare forse anche di qualche passo azzardato in campo sentimentale che li ha condizionati per tutta la vita. Il fatto di poter lasciare in qualsiasi momento il lavoro, la casa, la famiglia, gli amici, la città, inseguendo il mito di una esistenza più intensa, emozionante, soddisfacente dovrebbe garantire maggiori margini alla ricerca di quella felicità che, in fondo, tutti desideriamo. E invece no: dopo aver cancellato con un colpo di spugna la vita precedente, anche la “second life”, reale o virtuale che sia, ben presto mostra i suoi limiti, e l’impatto con la routine di quella che fino a ieri era una trasgressione rischia di rivelarsi fatale.
E così si riparte di nuovo per una terza, quarta, quinta vita. Con risultati simili, o – più spesso – di volta in volta peggiori, che rubano tempo e dignità, mentre la nostra mancanza di responsabilità ci porta a danneggiare anche gli altri, quegli “altri” che hanno fatto la nostra stessa scelta, o che semplicemente hanno la sventura di incappare nel nostro percorso.
E allora viene da chiedersi se le precedenti generazioni, nella loro velata malinconia per le scelte mancate, fossero davvero più infelici di noi, figli del XXI secolo: noi, che siamo cresciuti con la cultura del diritto a tutti i costi e viviamo smarriti in una confusa dimensione persa tra reale e virtuale; noi che ci sentiamo autorizzati a cambiare ogni giorno il volto alla nostra esistenza ma che, tentativo dopo tentativo, vediamo crescere la disperazione per il fatto di non riuscire mai a individuare la vita giusta, ideale, quella che ci renderà finalmente felici.