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La fede di Enzo Jannacci
Sulla fede di Enzo Jannacci avevamo già avuto modo di riflettere qualche mese fa, e già in quell’occasione eravamo rimasti piacevolmente sorpresi sulla sua sensibilità per la figura di Gesù.
Ora, in un’intervista ad Avvenire, il medico cantautore parla a tutto campo delle origini e degli sviluppi della sua ricerca spirituale: scrive Paolo Viana, che lo ha intervistato, che Jannacci «A settantaquattro anni è un uomo che parla con Cristo, che lo cerca ogni giorno, perché – ci dice – ne ha “un gran bisogno”», e se «non ha ritrovato la fede» è «semplicemente perché non l’ha mai perduta: “Credo molto in Dio, ci parlo e non sono mai stato ateo“».
Il fattore costanza
“Dimagrire senza fatica? Ecco perché non serve”. Il Corriere fa strage di illusioni: «Oggi – scrive il quotidiano – vengono proposte molte soluzioni per dimagrire in fretta: pastiglie, preparati vari o diete che farebbero ritrovare la linea con poca (talvolta nessuna) fatica. Ma funzionano davvero? “Se si vuole dimagrire senza far nulla si è sulla strada sbagliata“, spiega Andrea Ghiselli, nutrizionista dell’Inran (Istituto Nazionale Ricerca Alimenti e Nutrizione) di Roma».
D’accordo, è solo una conferma di cose che sapevamo già tutti, anche se ancora in molti si illudono che una pillola, una panciera, una dieta “a zona” possano dare al fisico la tonicità di un olimpionico. Invece per la fisica – e per il fisico – dal nulla non nasce nulla, e ogni risultato richiede uno sforzo.
La vacanza ai tempi della crisi
«Record di italiani in vacanza (15 milioni) e per un periodo più lungo (mediamente 11 giorni, 2 in più rispetto all’anno scorso)»: così scrive Nino Materi sul Giornale.
Pare infatti che, dai primi dati, anche quest’anno la villeggiatura registri un +5%: una tendenza che prosegue dal 2006. Se sono veri i dati commentati dal Giornale, c’è davvero da chiedersi dove sia la crisi.
Naturalmente, a margine delle statistiche, non mancano coloro che anche quest’anno non andranno in vacanza per problemi economici, o le famiglie che limiteranno al minimo le giornate fuori casa, magari avvalendosi della benevolenza di parenti che vivono in zone di vacanza.
Proprio qualche giorno fa una lettrice segnalava che numerose famiglie avevano deciso di non inviare i figli al campo estivo organizzato dalla loro chiesa: per nove giorni erano stati chiesti 235 euro a bambino, ma si sono tutti lamentati che la cifra era troppo alta.
Oltre e nonostante
A volte trovi tracce di fede dove meno te l’aspetti. Come in un articolo del Corriere dove si racconta il dramma di sei ex calciatori di Como affetti da Sla, e un dubbio atroce sulla possibile contaminazione del terreno dello stadio Sinigaglia su cui hanno giocato per anni.
Nel triste elenco Gaia Piccardi ricorda anche Piergiorgio Corno, da quindici anni malato di sclerosi. «Piergiorgio lotta in un letto della villetta di Albate, irrorato da una commovente spiritualità: “Nella mia vita ho capito che nulla è accaduto per caso – ha scritto proprio ieri sul suo computer -. Più volte la presenza di un’entità superiore si è manifestata e per questo vedo la Sla come un percorso che ha una sua ragione, che non capirò mai con la razionalità umana. Ma verrà un momento in cui tutto sarà chiaro“».
Parole che non lasciano indifferenti, se sono pronunciate da una persona immobilizzata da una malattia che corrode giorno dopo giorno la tua indipendenza, la tua libertà, fino a renderti un corpo alla mercé degli altri.
Talvolta, di fronte a una malattia – o una crisi di altro genere – ci impuntiamo su un imperativo categorico: noi dobbiamo guarire. “Dobbiamo” perché serviamo sani, perché Dio non può volere la nostra sofferenza, perché Dio lo ha promesso, perché Dio dice…
Contrariamente alle nostre aspettative, la guarigione non è sempre nei piani di Dio. E, quando c’è, non sempre i suoi tempi coincidono con i nostri.
Forse sorprenderà sentirlo dire, ma talvolta proprio la malattia, o la crisi, fanno parte del piano di Dio. Un piano che va oltre il nostro, perché vede oltre: oltre il nostro bene contingente, oltre il nostro interesse personale, e perfino oltre questa vita.
Sta a noi metterci nella prospettiva di Dio. Una volta sbollita la rabbia verso un Padre apparentemente meno amoroso del solito, forse potremo vedere dietro alla nostra malattia una opportunità inaspettata per consolidare la nostra fede, intensificare il nostro rapporto con Dio, incoraggiare altre persone che altrimenti non avremmo incontrato o che, in altre condizioni di salute, non avremmo potuto avvicinare con la stessa efficacia.
Spesso, come cristiani, dimentichiamo la nostra scelta di vivere per Cristo. Vorremmo farlo solo quando le condizioni risultano umanamente vantaggiose. O almeno, se proprio dobbiamo accettare un disagio, vorremmo comprenderne preventivamente il motivo.
Se fosse così, la fede non sarebbe necessaria. E ci perderemmo l’opportunità di credere senza preoccuparci delle conseguenze, senza lo stress di dover mantenere uno sguardo d’insieme, senza l’angoscia di un progetto chiaro ma così immane da schiacciarci.
Volenti o nolenti, il nostro percorso di vita non lo tracciamo noi.
Proprio per questo, come cristiani, dovremmo sentirci rasserenati: rasserenati di fronte a un’esistenza che non sempre comprendiamo ma che per noi, possiamo starne certi, è comunque la migliore possibile. Anche quando proprio non sembra tale.
Il mondo in un telefilm
Si chiamava Stephanie Parker, e non ha retto alla fine di un telefilm. Del suo telefilm: era la protagonista di un serial televisivo mandato in onda per sette anni dalla BBC, dove si raccontava la vita di una famiglia gallese che affronta la difficile sfida con la modernità.
Belonging, insomma, era una sorta di Cesaroni in cui Stephanie Parker era cresciuta, trascorrendo l’adolescenza tra telecamere e copioni e ritrovandosi, un giorno, donna. E disoccupata: ogni serie televisiva è destinata a concludersi perché è figlia di un’epoca, e anche se tenta di riciclarsi non potrà mai adeguarsi pienamente a una realtà diversa da quella in cui è nata.
La BBC, un anno fa, decise che era ora di chiudere Belonging, con buona pace dei fan e degli attori.
Stephanie ha abbozzato, ma non ha retto. E il giorno dopo una malinconica puntata-rimpatriata, la ragazzina prodigio (così è stata definita per le sue innate doti recitative) ha deciso di farla finita.
In fondo la sua situazione non è lontana da quella di tanti manager, imprenditori e lavorodipendenti di varia natura. Il lavoro, come la forma fisica, il successo, un oggetto e perfino la famiglia, può diventare un idolo e assorbire tutte le nostre aspettative, speranze, ambizioni. Complice la frustrazione per una vita sbagliata, la delusione per un mondo diverso da quello che vorremmo, può diventare la sostanza che, gradualmente, ci avvolge concedendoci il calore e le soddisfazioni di cui ognuno di noi ha bisogno.
Così, senza nemmeno farci caso, il lavoro diventa idolo, punto di riferimento, scala di valori in base alla quale giudicare la nostra esistenza.
Diventa una dipendenza, una presenza di cui non possiamo fare a meno: ne sentiamo la mancanza nel fine settimana, durante le ferie, nei momenti di noia.
Quando poi capita – e, nella vita, capita – che le cose cambino, ci ritroviamo spaesati, disorientati, e ci rendiamo conto di quanto il lavoro – i soldi, la casa, l’auto, la famiglia – contasse nella nostra vita.
Stephanie Parker, in fondo, non ha saputo reagire alla fine di un mondo: una famiglia da fiction ma rassicurante, un pubblico affezionato che ti ferma per la strada, ti scrive, ti coccola; un ruolo ben definito – finto, ma definito – da recitare.
Quando la realtà ha ripreso il sopravvento, non ha sopportato l’idea di non avere più nulla di tutto questo. Di dover ricominciare a vivere.
Dispiace che nessuno sia stato in grado di dirle che la vita è qualcosa di più, e di diverso. Che va rispettata ma non temuta, e che il suo scopo non può essere così banale da evaporare con la morte. Dispiace che nessuno sia stato capace di darle dei punti di riferimento, parlarle di quei valori che rendono la vita davvero degna di essere vissuta e ci mettono in condizione di fare scelte sensate senza uno sceneggiatore alle spalle. Dispiace che la sua vita fosse così vuota, fuori dal set, da farle scegliere un’uscita di scena così solitaria e prematura.
È vero, a volte la vita fa paura. D’altronde, per quanto tentino di spacciarcela come tale, la vita non è un banale telefilm. Proprio per questo abbiamo bisogno di affidarci a un grande Regista.
Cambiamenti e ravvedimenti
Le cattive ragazze cambiano aria: un articolo della Stampa riferisce che personaggi come Amy Winehouse, Lindsey Lohan, Britney Spears, Paris Hilton hanno abbandonato gli eccessi che avevano fatto la gioia dei giornali scandalistici, e stanno cambiando (faticosamente) strada.
Amy Winehouse alla fine ha accettato di entrare in una clinica per disintossicarsi: ora si apre a un repertorio più romantico e vagheggia l’idea di trovarsi il classico “lavoro serio” aprendo un centro estetico, qualora decidesse di lasciare la musica.
La Lohan, dopo due arresti per guida in stato di ebbrezza (ma la definizione ufficiale, a quanto raccontano le cronache, è eufemistica: era proprio ubriaca fradicia), ha deciso di dire basta ai baccanali e alle nottate in giro per locali; cerca un lavoro “per pagare l’affitto”, dimostrazione che anche i ricchi vivono nel nostro mondo (anche se raramente piangono).
Di Britney Spears si è detto ampiamente: fatta di stupefacenti e cattive compagnie, spendacciona e seminuda (oltreché volgare, ma questo non è un reato), è stata tirata a lucido in una clinica di riabilitazione e ora porta avanti il suo tour mondiale controllata a vista dal padre, che le ha imposto un’ora di lettura biblica al giorno: e chissà se, nella migliore tradizione della scuola domenicale, dopo la lettura ne verifica anche l’apprendimento.
Paris Hilton ha trovato l’amore, ricambiata, e ha quindi smesso i panni della nullafacente metropolitana tutta capricci e leziosità per dedicarsi al suo lui: pensa al matrimonio, e per il personaggio è già tutto dire.
I bimbi crescono, e anche le bad girls, raggiunto un punto di rottura, devono decidere cosa fare. Un cambiamento radicale talvolta è l’unico modo per sopravvivere, specie quando lo stile di vita è più pericoloso di una passeggiata in autostrada.
Ciò che viene da chiedersi se si tratti di un vero cambiamento, o di una pausa tra due eccessi: rinsavire per non morire, prima di rituffarsi nelle vecchie abitudini ritrovando le vecchie compagnie.
Esperienze passate dimostrano che spesso è solo una questione di tempo. Senza una base solida anche il cambiamento più radicale non è destinato a durare. Senza la consapevolezza dei propri limiti, della sporcizia morale, del proprio fallimento interiore, è difficile ricominciare davvero da capo.
Dietro molti di questi cambiamenti sbandierati di fronte ai media non sembra esserci vera motivazione, ma solo una questione di sopravvivenza: cambiare vita per non morire, adottare una condotta salutista senza però toccare l’interiorità di una vita spirituale disastrata, ossia la principale causa di disagio.
Uno stile di vita più sano può aiutare a stare meglio, ma è il cambiamento interiore a portare felicità, serenità, pace.
C’è una bella differenza. La differenza che passa tra sopravvivere e vivere.
Certezze illogiche
I greci la chiamavano “ubris”: era la tracotanza di chi si voleva elevare al livello della divinità (e per questo veniva punito).
La ubris torna in mente di fronte alle parole granitiche, senza la scalfitura del benché minimo dubbio, dello psicoterapeuta Fulvio Scaparro. Intervistato dal Corriere per commentare la vicenda di Stella, bambina nata in questi giorni dal seme paterno congelato 22 anni fa, Scaparro non lascia spazio a obiezioni: «La storia di Stella? Una notizia splendida. Un successo della scienza che non avrà conseguenze psicologiche negative sulla bambina».
Ne è sicuro, nonostante si tratti del primo caso di questo genere, perché «Stella è nata da due genitori che la desideravano. Ed è questo a contare».
La scienza è una materia in continua evoluzione: sviluppa conoscenze, testa risultati, sperimenta soluzioni. Supera ogni giorno i suoi limiti, e questa continua marcia all’avanguardia dell’umanità porta a esplorare campi ancora sconosciuti, a sondare reazioni incognite, in un incrocio continuo tra scienza, società, fede.
Per questo lascia perplessi, e forse un po’ angosciati, sentire uno scienziato esprimersi con tanta certezza. Le certezze ce le aspettiamo da valori sociali consolidati nel tempo, e le cerchiamo nella fede.
Suona piuttosto preoccupante leggere baldanti rassicurazioni da parte di chi può solo sperimentare e verificare le reazioni dei test, né rasserena sentire risposte che vendono certezze assolute in base a schemi che solo in parte si possono applicare al caso specifico.
Non rasserena, anzi: porta a chiedersi se davvero possiamo fidarci di una scienza che non sa ammettere i suoi limiti, e pretende all’occorrenza di farsi anche fede.