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Scienza (in)esatta

Si fa presto a dare l’allarme: tanto, se il disastro non è imminente, tutti se ne dimenticheranno. Chi, per esempio, ricorda più l’allarme del principe Carlo, quando disse «Abbiamo 99 mesi prima del punto di non ritorno»?

Però stavolta ad Al Gore è andata male: da Copenaghen, con il tono grave di chi esprime una verità ineluttabile, «Al Gore ha lanciato l’allarme sulla possibilità che l’intera calotta polare artica sparisca nei prossimi 5-7 anni».

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Quando manca il sole

Troppo sole spinge al suicidio: lo ha scoperto uno staff di ricercatori che ha rilevato come «non sia l’oscurità a deprimere le persone, ma l’eccessiva esposizione alla luce solare».

La ricerca è partita dai dati relativi «ai crimini violenti avvenuti in Groenlandia dal 1968 al 2002: in quel periodo ci sono stati 1.351 suicidi e 308 omicidi», ma mentre gli omicidi hanno una distribuzione omogenea nel corso dell’anno, «i suicidi mostrano un marcato picco a giugno e un drastico calo in inverno», e la percentuale aumenta con il crescere della latitudine: ci si suicida di più a nord, «dove per sei mesi non fa mai buio».

L’equipe si è accorta che il discorso non vale solo per un paese anomalo come la Groenlandia, ma anche nel resto del mondo e in entrambi gli emisferi.

Che delusione per chi crede che il sole cambi le cose. Naturalmente nessuno nega che una bella giornata metta di buonumore, ma riesce a farlo solamente se, di fondo, la disposizione d’animo è positiva. O, per dirla in termini più spirituali, se il nostro animo è sereno e ben disposto.

La gioia, se prescinde dalla serenità, resta un effimero barlume di felicità. E non possiamo essere sereni se siamo sommersi da stress, depressione, problemi familiari.

Le condizioni critiche potrebbero essere state causate da situazioni oggettive come il superlavoro o un familiare difficile, o dal nostro approccio sbagliato alla questione: non possiamo dare la priorità al lavoro, alla famiglia, a un vizio – la Bibbia, meno benevola, parla di “idoli” e “falsi dei” – e pretendere di vivere bene comunque.

Come per la conversione e le dipendenze, ammettere il problema e riconoscerne le cause è il primo passo per risolverlo. Impegnarsi a cambiare le condizioni che ci hanno portato in quella situazione è il passo successivo.

È il caso di non sottovalutare le situazioni critiche, ma di affrontarle sul serio e subito: perché le cose, si sa, tendono a complicarsi con il passare del tempo.

Se aspettiamo che sia una bella giornata a risolverci la vita, siamo fuori strada: non sarà il sole a cambiare le cose.

Per vivere un’esistenza migliore, il sole bisogna averlo dentro.

Nord dimenticato

«Il popolo dei ghiacci sente che la sua storia rischia di finire e si perde tra alcol e droga», scrive il Corriere raccontando la storia degli inuit e di un alpinista italiano che si è trasferito in Groenlandia per recuperarli.

A scuola li chiamavamo “eschimesi”: nel nostro immaginario di bambini che vivevano in un’Italia provinciale, senza Internet a disposizione, vedevamo le popolazioni della Groenlandia (e del Circolo polare artico in generale) in maniera un po’ pittoresca, persone dai tratti orientali sempre sorridenti che abitavano in igloo e giravano con i cani da slitta salutandosi con uno sfregamento di nasi.

La vita degli inuit negli ultimi decenni è cambiata rispetto a quella che leggevamo e sognavamo sui libri: sono diventati prevalentemente stanziali – a parte alcuni nomadi dell’estremo nord – e hanno i loro villaggi costieri che ricordano quelli dei paesi nordici, con le casette basse e colorate in stile Ikea.

Sembrerebbe un quadretto glaciale ma idilliaco, eppure «per i 56 mila uomini dagli occhi a mandorla che abitano la più grande isola del mondo la vita oggi non è facile». Lo racconta al Corriere Robert Peroni, alpinista ed esploratore che nel 1992 a Tasiilaq, il centro principale della Groenlandia orientale, ha creato la Fondazione Progetto Casa Rossa, «un centro di assistenza per giovani inuit sbandati o dipendenti da droga e alcol».

«Avvertono che la loro civiltà è giunta al capolinea – spiega Robert Peroni – e reagiscono abbandonandosi alla pulsione autodistruttiva. L’alcolismo è la piaga più grave. E può accadere che in un villaggio di 100 abitanti, si contino 6-7 suicidi all’anno, quasi tutti giovani tra i 18 e i 20 anni, che si impiccano in bagno o alla trave di casa. Se le stesse percentuali interessassero le grandi città europee o americane, sarebbe allarme rosso. Qui invece tutto continua nell’indifferenza generale».

Peroni si è impegnato nel recupero delle dipendenze e nel reinserimento lavorativo: creando occasioni nel settore turistico, ma anche riportando i giovani alle attività tradizionali, la caccia e la pesca.

Un impegno ammirevole, quello di Peroni, che però non basta: «È un popolo che sta morendo, nel silenzio e nell’indifferenza», ammette amaramente.

Una popolazione intera ha perso la sua ragione di vita, vede la propria cultura giunta al capolinea, e si autodistrugge con alcol e droga. Ce n’è per sollevare l’interesse mondiale, eppure non abbiamo mai sentito parlare di missionari che si addentrano nel profondo nord. Forse, anche qui, è una questione di immaginario: il “missionario” per definizione è quello che va a sud, in Indocina, in Africa, in Sudamerica. Quasi nessuno considera le popolazioni del nord come bisognose di un aiuto a tutto tondo: umano, pratico, spirituale.

Peroni è ammirevole, nel suo tentativo di stare vicino agli inuit: che hanno bisogno di aiuto, ma soprattutto di speranza. Chissà se qualcuno gliela porterà.