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Ai primi sintomi

«I medici ti sottopongono a una serie di esami perché sospettano che tu abbia il cancro alla prostata. La biopsia conferma la diagnosi maligna. E che cosa ti succede il giorno dopo aver ritirato il referto? Che nella buca delle lettere di ritrovi la pubblicità di un’agenzia funebre».

È successo a un cinquantenne torinese, «In un primo momento ha pensato si trattasse di un’informazione pubblicitaria destinata a tutti i condòmini. E invece no».

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Pieni di vuoto

«Hanno tutto, perché rubano?», si chiedevano disperate le mamme di quindici ragazzi della Milano e della Brescia bene, sorpresi ad alleggerire i turisti a Gardaland. Erano tutti figli di imprenditori, professionisti, commercianti, tutti vestiti alla moda, senza problemi di liquidità, con in tasca il cellulare all’ultimo grido.

Eppure nelle noiose – per loro – mattinate primaverili marinavano la scuola destinazione Gardaland per provare il brivido del furto. La direzione, dopo un’impennata di denunce da parte dei visitatori, ha interessato i Carabinieri di Peschiera, che in una giornata hanno fermato i ragazzi. Non si aspettavano di trovarsi di fronte la meglio gioventù, e non si aspettavano una banda così numerosa, tanto che per portarli in caserma hanno dovuto usare il pulmino del parco giochi.

«Dopo la denuncia ridevano e scherzavano tra loro», hanno raccontato i militari, «come se l’accusa di furto riguardasse altri».

E allora non si può non tornare all’interrogativo di partenza: «Hanno tutto, perché rubano?». I genitori hanno soddisfatto ogni loro capriccio dando loro tutto. A quanto pare, non abbastanza.

D’altronde, come tutti i genitori di questo mondo, non hanno potuto regalare ai figli ciò che non avevano: la felicità. Quella felicità che nasce dalla serenità di una vita che ha uno scopo. Probabilmente i poveri genitori hanno passato la vita ad arrivare, a guadagnare, ad accumulare, convinti che la quantità fosse la risposta al loro vuoto interiore.

Eppure, da buoni frequentatori delle boutique più note, avrebbero dovuto sapere che un falso resta un falso anche se è costruito con materiali pregiati. La qualità non si imita. La felicità non si raggiunge accumulando beni, emozioni, esperienze.

No, la felicità di una vita piena non potevano trasmetterla ai figli. E, quando alla vita manca un significato convincente, anche i valori rischiano di non bastare.

Non è sufficiente, ora, interrogarsi, disperarsi, rimproverarsi e rimproverarli. Forse addirittura non c’è stato niente di formalmente sbagliato, nell’educazione che hanno impartito ai loro ragazzi: niente, tranne l’obiettivo. Quando la morale diventa una convenzione ipocrita, quando gli assoluti diventano relativi, quando la fede diventa religione, allora la coscienza si addormenta, il divertimento si fa eccesso e il senso di tutte le cose – la vita in primis – si appanna inevitabilmente.

Sì, hanno avuto tutto, quei ragazzi; forse troppo. La felicità, però, è un’altra cosa.

Una presenza eterea

«Non credo che accettino di vendere Kakà perché devono fare cassa, ma perché quando un giocatore chiede per due o tre volte di andarsene, alla quarta non lo puoi tenere». Lo dice oggi alla Stampa Demetrio Albertini, “senatore” del Milan con un’esperienza internazionale alle spalle.

Abbiamo parlato più volte del fuoriclasse milanista per la sua fede e la sua testimonianza cristiana, che l’ambiente calcistico, pur sorridendo a mezza bocca, ha dovuto rispettare  in ossequio alla qualità tecnica del personaggio. Da sempre il talento è una credenziale che giustifica ciò che suona anomalo o che non si sopporta: la fede di Kakà, il carattere difficile di Mourinho, l’atteggiamento irriverente di Gascogne.

Però la vicenda Kakà è ormai una telenovela dal finale annunciato. Se è questione economica, non si può che concludere con la cessione: il Milan potrà resistere alla prima offerta esorbitante, potrà declinare la seconda, ma prima o poi dovrà cedere.

Resta qualche dubbio sul problema di fondo che spinge il calciatore ad accettare di andarsene altrove. Difficile credere che riguardi i soldi: quando uno guadagna decine di milioni di euro all’anno può permettersi di dire no perfino a offerte da capogiro, e può farci addirittura una bella figura. È successo allo stesso Kakà l’estate scorsa, quando a offrire una cifra da capogiro è stato il presidente (musulmano) del Manchester City: dire di no è stato (oppure è sembrato?) un gesto di coerenza con il proprio credo.

Se il problema non è di natura economica, potrebbe riguardare l’ambiente: ma il calciatore vive a Milano dal 2003, e a quanto pare regge bene la metropoli, né pare abbia avuto il bisogno di trovare una villa fuori dal caos urbano, come altri suoi colleghi.

Che sia un problema di maglia? Anche in questo caso, la tesi è difficile da sostenere: fino a poche settimane fa il fuoriclasse ringraziava i tifosi e prometteva fedeltà, difficile che sia cambiato qualcosa.

Nemmeno il fattore-nostalgia ha qualche chance: ha con sé la famiglia, sua moglie e di recente perfino la sua chiesa brasiliana – non bastassero le decine di comunità evangeliche già presenti a Milano – ha aperto una filiale in centro città.

Forse il problema non esiste, e Kakà sente solo il bisogno di cambiare. Non sappiamo se lo farà: in caso avvenga, però, è probabile che la Milano non calcistica non ne risenta.

Sarà che si tratta di un personaggio globale e – di conseguenza – poco legato al locale, ma in questi sei anni in rossonero, fuori dal campo, la sua presenza è rimasta eterea.

Nonostante le sue forti convinzioni religiose, non si sono registrate da parte sua apparizioni a iniziative di carattere evangelico: mentre i suoi colleghi Atleti di Cristo girano l’Italia, partecipano a trasmissioni radiofoniche e televisive, visitano teatri e chiese, sponsorizzano missioni e iniziative di evangelizzazione, scrivono libri e incontrano la gente, lui è rimasto sempre in disparte.

Un altro stile, forse; sapere della sua fede ha incoraggiato molti, ma la Milano evangelica – quei credenti che sono stati fieri di poterlo annoverare come un “fratello”, e che dalla sua fede magari hanno tratto spunto per parlare di Dio ad amici e colleghi – lo avrebbe voluto abbracciare, ringraziare, salutare, una volta o l’altra. Con la scusa che l’avrebbero voluto tutti (e come dargli torto?), non lo ha visto nessuno. Una presenza incoraggiante, ma del tutto virtuale.

Da questo punto di vista Kakà possiamo dire che è già partito. O, forse, non c’è mai stato.

Chissà, forse Madrid gli sarà più congeniale. Speriamo. Dios te bendiga, Ricardo.