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Vivere di rendita
Sono passati quindici giorni, e già non si sente più parlare di Win for life, la nuova lotteria istantanea che promette non un premio milionario, ma una rendita di 4000 euro mensili per vent’anni.
Una prospettiva interessante che però ha delle controindicazioni. Tecniche, innanzitutto: come segnala in un articolo l’agenzia Zeusnews, le probabilità di vincere non sono affatto elevate, e poi la ripetizione delle estrazioni a ritmo orario rischia di provocare dipendenza.
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Il fattore costanza
“Dimagrire senza fatica? Ecco perché non serve”. Il Corriere fa strage di illusioni: «Oggi – scrive il quotidiano – vengono proposte molte soluzioni per dimagrire in fretta: pastiglie, preparati vari o diete che farebbero ritrovare la linea con poca (talvolta nessuna) fatica. Ma funzionano davvero? “Se si vuole dimagrire senza far nulla si è sulla strada sbagliata“, spiega Andrea Ghiselli, nutrizionista dell’Inran (Istituto Nazionale Ricerca Alimenti e Nutrizione) di Roma».
D’accordo, è solo una conferma di cose che sapevamo già tutti, anche se ancora in molti si illudono che una pillola, una panciera, una dieta “a zona” possano dare al fisico la tonicità di un olimpionico. Invece per la fisica – e per il fisico – dal nulla non nasce nulla, e ogni risultato richiede uno sforzo.
Quando il "meno male" non basta
Uno sciopero della fame per sensibilizzare i fedeli alla vita di chiesa: è stata l’idea di un parroco del trevigiano, che da domenica a mercoledì è rimasto nella sua chiesa senza mangiare, per dare una scossa a una situazione che probabilmente aveva raggiunto il livello di guardia.
Don Pellizzari ha passato le 72 ore di digiuno in compagnia di 150 fedeli che si sono alternati a fargli compagnia; ha dormito poco (in tutto otto ore) e il resto del tempo lo ha passato leggendo, pregando (era pur sempre in chiesa…) e preparando una lettera personalizzata per i giovani single 20-40enni della sua parrocchia: un messaggio appassionato, che si concludeva con l’esortazione «Vedi tu se è giunto il momento di ritornare in chiesa».
Risultato: ieri alla funzione domenicale i banchi erano gremiti, anche se – minimizza don Pellizzari – «la chiesa è così piccola che è facile riempirla». Il suo progetto, infatti, va oltre alla presenza domenicale: come riferiva al Corriere del Veneto nei giorni precedenti, “non mi aspetto grossi risultati immediati”.
E in effetti sarebbe ben triste se l’obiettivo del gesto fosse stato solo quello di richiamare in chiesa qualche persona in più per un paio di domeniche, fino a quando il clamore mediatico non si fosse spento.
Il suo scopo, invece, va più in là: i veneti, dice, «si sono impigriti, anche perché a differenza del passato la funzione domenicale non è più una scelta di massa ma personale, che induce ad andare controcorrente. E in un paese di 1500 anime differenziarsi non è facile per un giovane».
Don Pellizzari prende atto di come la partecipazione sia non sia più “una scelta di massa ma personale”. È una tendenza che va avanti ormai da cinquant’anni: se una volta si contavano e additavano i “senzadio” che alla domenica disertavano le funzioni, oggi è il contrario. Un bene? Un male?
La verità, inevitabilmente, sta nel mezzo. Proprio come quando qualcuno, forse dopo un ragionamento un po’ superficiale, di fronte all’esclamazione “Non c’è più religione” risponde “Meno male”.
La religione non è il male assoluto. Anzi, per certi versi le deve venir riconosciuta una funzione positiva anche da parte di chi la contrappone al rapporto personale con Dio.
È infatti vero che siamo chiamati a un impegno cristiano personale e coerente, ma è altrettanto vero che per chi non intende seguire questa strada, la “religione” – intesa come insieme di regole, indicazioni, principi di ispirazione biblica – è stata per generazioni un punto di riferimento.
Volenti o nolenti proprio quella religione, rappresentata anche dalla partecipazione formale – certamente un po’ ipocrita – a una riunione domenicale, ha favorito la conoscenza, se non il rispetto, di una moralità che invece oggi, in tempi di relativismo e di superficiali “meno male”, abbiamo definitivamente perso di vista: non c’è più religione, né sembra siamo in grado di comunicare quei principi in altre forme con altrettanta efficacia.
E allora sì, ben venga la “scelta personale” e non più “di massa”, che evita inutili formalismi e false illusioni e riscopre il cuore del messaggio evangelico. Nella speranza, però, che questa rinnovata consapevolezza personale possa allargarsi, se non alla massa, comunque a un numero sempre maggiore di persone, attraverso la testimonianza cristiana coerente e costante di chi crede davvero.
Solo quando i cristiani – i veri cristiani – si saranno fatti rispettare come un punto di riferimento credibile per la società, la religione non servirà davvero più. E potremo esclamare tutti insieme con sollievo “meno male”.
Quando il “meno male” non basta
Uno sciopero della fame per sensibilizzare i fedeli alla vita di chiesa: è stata l’idea di un parroco del trevigiano, che da domenica a mercoledì è rimasto nella sua chiesa senza mangiare, per dare una scossa a una situazione che probabilmente aveva raggiunto il livello di guardia.
Don Pellizzari ha passato le 72 ore di digiuno in compagnia di 150 fedeli che si sono alternati a fargli compagnia; ha dormito poco (in tutto otto ore) e il resto del tempo lo ha passato leggendo, pregando (era pur sempre in chiesa…) e preparando una lettera personalizzata per i giovani single 20-40enni della sua parrocchia: un messaggio appassionato, che si concludeva con l’esortazione «Vedi tu se è giunto il momento di ritornare in chiesa».
Risultato: ieri alla funzione domenicale i banchi erano gremiti, anche se – minimizza don Pellizzari – «la chiesa è così piccola che è facile riempirla». Il suo progetto, infatti, va oltre alla presenza domenicale: come riferiva al Corriere del Veneto nei giorni precedenti, “non mi aspetto grossi risultati immediati”.
E in effetti sarebbe ben triste se l’obiettivo del gesto fosse stato solo quello di richiamare in chiesa qualche persona in più per un paio di domeniche, fino a quando il clamore mediatico non si fosse spento.
Il suo scopo, invece, va più in là: i veneti, dice, «si sono impigriti, anche perché a differenza del passato la funzione domenicale non è più una scelta di massa ma personale, che induce ad andare controcorrente. E in un paese di 1500 anime differenziarsi non è facile per un giovane».
Don Pellizzari prende atto di come la partecipazione sia non sia più “una scelta di massa ma personale”. È una tendenza che va avanti ormai da cinquant’anni: se una volta si contavano e additavano i “senzadio” che alla domenica disertavano le funzioni, oggi è il contrario. Un bene? Un male?
La verità, inevitabilmente, sta nel mezzo. Proprio come quando qualcuno, forse dopo un ragionamento un po’ superficiale, di fronte all’esclamazione “Non c’è più religione” risponde “Meno male”.
La religione non è il male assoluto. Anzi, per certi versi le deve venir riconosciuta una funzione positiva anche da parte di chi la contrappone al rapporto personale con Dio.
È infatti vero che siamo chiamati a un impegno cristiano personale e coerente, ma è altrettanto vero che per chi non intende seguire questa strada, la “religione” – intesa come insieme di regole, indicazioni, principi di ispirazione biblica – è stata per generazioni un punto di riferimento.
Volenti o nolenti proprio quella religione, rappresentata anche dalla partecipazione formale – certamente un po’ ipocrita – a una riunione domenicale, ha favorito la conoscenza, se non il rispetto, di una moralità che invece oggi, in tempi di relativismo e di superficiali “meno male”, abbiamo definitivamente perso di vista: non c’è più religione, né sembra siamo in grado di comunicare quei principi in altre forme con altrettanta efficacia.
E allora sì, ben venga la “scelta personale” e non più “di massa”, che evita inutili formalismi e false illusioni e riscopre il cuore del messaggio evangelico. Nella speranza, però, che questa rinnovata consapevolezza personale possa allargarsi, se non alla massa, comunque a un numero sempre maggiore di persone, attraverso la testimonianza cristiana coerente e costante di chi crede davvero.
Solo quando i cristiani – i veri cristiani – si saranno fatti rispettare come un punto di riferimento credibile per la società, la religione non servirà davvero più. E potremo esclamare tutti insieme con sollievo “meno male”.
Dietro la facciata
La Gran Bretagna si inchina davanti alla sua nuova diva, una anonima disoccupata quarantottenne che ha dapprima fatto sorridere, poi stupito e infine entusiasmato il pubblico televisivo.
Doveva essere una banale serata di nuove proposte per il programma “Britain’s Got Talent”, una sorta di “X factor” in salsa inglese dove aspiranti artisti di successo si esibiscono davanti a un pubblico in sala – e milioni di spettatori a casa – e a una giuria composta da tre esperti che, a differenza del programma nostrano, sono così giovani e fotogenici da sembrare finti.
Sabato sera, a un certo punto, sale sul palco Susan Boyle: 48 anni, goffa, vestitino a fiori e viso dai tratti ruspanti, poco consoni alla televisione di oggi: una sorta di Arisa più in età (e meno truccata).
Il suo ingresso solleva le risatine del pubblico e la perplessità dei patinati in giuria, un po’ come succede alla Corrida di fronte ai personaggi più improbabili: la signora Boyle è evidentemente fuori target, fuori età, fuori forma, fuori format, fuori tutto.
Dalle battute che scambia con i bellocci che ne dovranno valutare le capacità artistiche si dimostra spiritosa e, tutto sommato, a suo agio in un contesto dove sembra capitata per caso.
Lo scetticismo del pubblico e della giuria si spegne appena Susan attacca il brano: in barba a chi si aspettava una macchietta, la donna sfodera una voce limpida, intonata, potente, posata ma non artefatta. Che lascia letteralmente a bocca aperta i giurati, mentre il pubblico scatta in piedi a metà esibizione per una imprevedibile standing ovation.
Il successo della performance viene confermato nei giorni successivi, quando cinque milioni di navigatori si godranno la sua interpretazione da Youtube, tanto che i bookmaker ne prevedono la vittoria. Un vero tripudio che Susan ha accolto con sorpresa e, forse, un po’ di sollievo.
Chissà quanti le avranno sbattuto la porta in faccia, di fronte alle sue aspirazioni musicali accompagnate, ahilei, da una faccia un po’ così. Chissà quante delusioni. Chissà quanti agenti discografici, che magari fino a ieri avranno riso di fronte a quella donnona sgraziata e ai suoi demo, oggi si mangeranno le mani per non essersene accaparrati l’esclusiva.
Eppure sarebbe bastato ascoltarla. Sarebbe bastato non fermarsi all’apparenza, a quell’apparenza che è la chiave di lettura e il leit motiv di quest’epoca. Quell’apparenza che fa emergere i belli, a prescindere dalle loro capacità, e non offre alcuna opzione a chi – per scelta o per ventura – non rientra nei canoni.
Susan Boyle è una piccola, parziale, insignificante rivincita di chi si ritrova escluso, pur meritando un’occasione.
Ma è anche una lezione, per tutti noi. Perché, nonostante la storia e l’esperienza, ancora oggi tendiamo troppo spesso a giudicare dall’apparenza, e finiamo per non dare alla sostanza nemmeno il tempo di convincerci a cambiare idea.
Ci crediamo di larghe vedute, ma non lasciamo concludere un concetto. Ci consideriamo progressisti, ma non siamo in grado di ascoltare per intero un consiglio. Ci spacciamo per validi interlocutori, ma non siamo capaci di leggere con attenzione le ragioni altrui. Ci illudiamo di essere democratici, ma non garantiamo un’opportunità a chi ci sta di fronte.
E, quel che è peggio, spesso ci pregiamo di essere cristiani, ma non abbiamo ancora superato i pregiudizi più elementari.
Sì, di fronte al caso di Susan Boyle possiamo solo fare silenzio e ascoltare. La sua splendida voce e la sua lezione.
Chi è stato?
“Chi è stato il primo ad aver tracciato un confine?” ci si chiedeva, con una certa dose di retorica, in tempi più ideologicizzati dei nostri.
Oggi, in un giorno qualsiasi dell’epoca più “post” della storia, vorremmo limitarci a chiedere chi ha cominciato a infierire su Denise.
La Denise di cui parliamo fa di cognome Pipitone, ed è una bambina di quattro anni scomparsa da casa nel 2004: una tra le sparizioni più eclatanti, almeno per eco mediatica, degli ultimi anni.
Vediamo i fatti. Nei giorni scorsi i giornali ci informavano di una clamorosa novità: una turista italiana in vacanza in Grecia ha incontrato una bambina molto simile a Denise. La bambina, raccontano le cronache, parla perfettamente l’italiano nonostante la madre – una trentenne albanese – non spiccichi parola nella nostra lingua.
Il giorno dopo le testate rilanciano: il dna di madre e figlia non corrispondono, si passerà quindi a confrontare le evidenze genetiche della bambina albanese con quelle della famiglia di Denise per verificare un’eventuale compatibilità.
Ieri un doppio contrordine: la polizia greca informa che il dna della presunta Denise corrisponde con quello della donna albanese che sostiene di esserne la madre. Non solo: la bambina biascia solo poche parole in italiano, quelle che servono per chiedere la carità ai turisti.
Probabilmente archivieremo amaramente questo ennesimo falso allarme senza farci domande, ma personalmente mi sento offeso. Offeso come lettore dei quotidiani, che hanno riportato una notizia basandosi su elementi manifestamente errati. Offeso come cittadino per una notizia data male e sviluppata peggio, che ha illuso e poi deluso sul volto della signora Pipitone.
Prima di dimenticare, in attesa della prossima bufala, sarebbe interessante capire chi abbia superato, stavolta, il confine della stupidità. Le ipotesi non sono molte.
Potrebbe essere stata la signora italiana turista in terra greca, reduce da un’overdose di serial polizieschi e tv del dolore. Certo, non è facile confondere una persona che “parla perfettamente” la nostra lingua con una che mette insieme due parole alla bisogna: in questo caso, evidentemente, la proprietà linguistica della signora è ai minimi termini (forse non ci sarebbe da stupirsi, visto il livello culturale medio nel nostro paese).
L’ipotesi alternativa? Sono stati i media a inventarsi quel “perfettamente” e perfino quella differenza di codice genetico che, a quanto pare, nessuno ha mai certificato.
Sia come sia, in ultima analisi è anche colpa nostra: non risulta che nessuno, sui principali giornali, si sia posto il benché minimo dubbio sui motivi di questa cantonata, segno che viene considerato normale sparare notizie inesistenti e che domani, al prossimo avvistamento, sarà la stessa cosa. Significa che ci troviamo di fronte a un giornalismo che diventa pour parler, un’informazione di terz’ordine che si allinea bellamente nei modi ai dibattiti inconcludenti del dopo partita.
Con una differenza: nei talk show sportivi non c’è di mezzo il dolore di una madre.