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Sessantatré anni fa

Dopo mesi di incertezze e dubbi, il 2 giugno del 1946 il voto popolare sanciva la nascita della Repubblica italiana. Quasi tutti principali partiti, rinati dopo il ventennio fascista, caldeggiavano la scelta di una forma di stato repubblicana; sull’altro fronte la monarchia, uscita compromessa dai drammi della guerra e dall’onta dell’otto settembre, aveva tentato – invano – di recuperare credibilità presentandosi con un’immagine nuova attraverso il passaggio di consegne tra Vittorio Emanuele III e il giovane Umberto II.

Il risultato finale, contestato per l’assenza dei soldati che non erano ancora tornati in patria e di intere aree del paese (non poterono votare la provincia di Bolzano, la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia), finì con la vittoria della Repubblica per 12 milioni di voti contro 10, il 54,3%.

A sessant’anni abbondanti di distanza da quelle vicende viene spontaneo chiedersi perché dovremmo festeggiare una repubblica che, in particolare negli ultimi decenni, non ha dato il meglio di sé, facendoci a volte sentire l’imbarazzo di farne parte.

Eppure qualche motivo per essere grati c’è. Cominciando dal fatto che siamo stati probabilmente l’unico paese al mondo dove il passaggio dalla monarchia alla repubblica si è svolto senza spargimento di sangue.

Non era così scontato. E non è così scontato nemmeno essere nati in un paese libero, ricco, in una democrazia che tutela i diritti delle minoranze, dove l’espressione della propria fede è stata sostanzialmente garantita costituzionalmente.

Certo, a dirla tutta per i cristiani minoritari si sarebbe potuto – e, forse, dovuto – fare di più. Però non possiamo dimenticare che viviamo in un mondo dove i cristiani negli ultimi sessant’anni hanno visto peggiorare la propria condizione di vita dall’Africa all’Asia, dalle repubbliche ex sovietiche al Sudamerica.

E allora non possiamo non essere riconoscenti: questa Repubblica così malandata e maltrattata, in fondo, è stata – e continua a essere – una benedizione.

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Fuoco di valori

Ridurre in fin di vita un uomo per divertimento, e vantarsene: non stiamo parlando di vecchi sicari rotti alle esperienze malavitose, ma di quattro ventenni riminesi di buona famiglia, che in una serata di noia non hanno trovato di meglio da fare che dare fuoco a un ignaro barbone.

Una vicenda raggelante, dove il cinismo e la mancanza di riferimenti morali si mescola all’ingenuità, dando vita a una Second life in salsa horror dagli sviluppi incontrollabili.

La frequenza di drammi simili, seguiti da giustificazioni spiazzanti e da un candore sconvolgente («Dottore, ora che le ho detto tutto posso tornare a casa?», chiese un giovanissimo dopo aver confessato di aver massacrato una coetanea) non possono non farci riflettere sul messaggio che questi giovani devono aver ricevuto, e sul quale hanno costruito le loro (in)certezze e la loro scala valoriale (rovesciata). Ci siamo dentro tutti: i media sciacalli, una società compiacente e compiaciuta dalla morbosità, il sistema giudiziario permissivo e inefficace, i vicini di casa indifferenti, i genitori assenti o acquiescenti.

«Succede», hanno detto. «Succede», diranno ancora.
Si, succede. Succede se l’unico amore che si insegna è il sentimento usa e getta, se l’unico valore è apparire, se l’unica morale è arrivare; succede se tutta l’attenzione si concentra su se stessi, se l’unico obiettivo è riuscire a tutti i costi, se l’altro vale solo in funzione del nostro piacere, del nostro divertimento, della nostra utilità; succede se tutto è consentito, se concetti come umanità e rispetto sono relegati a un tempo passato come anticaglie inutili in una modernità che vive un egotismo di inconsapevolezza e inanità.

Nelle nebbie della nostra indifferenza dovremmo far entrare un barlume di indignazione che superi la distanza della giornata, e che fecondi una volta buona il nostro desiderio di cambiamento. Che faccia cambiare noi per primi, scrollandoci di dosso la religiosità e il moralismo di maniera per applicare alla nostra vita – prima che al giudizio verso gli altri – quell’amore che non è solo carezze, ma anche carattere. Quell’amore che è impegno alla coerenza in ciò che facciamo, diciamo, guardiamo, ascoltiamo, pensiamo.

Altrimenti succede e succederà. E, se è vero che chi tace acconsente, succederà perché lo vogliamo.