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Quel mistero chiamato vita
Sul delicato tema si era cimentato, di recente, anche il dr House: il celebre medico televisivo, per un giorno ricoverato fuori dal suo reparto, si trovava a contestare le opinioni del primario secondo il quale uno dei ricoverati era ormai irrecuperabile e destinato al trapianto.
Per una volta la realtà ha, se non superato, quantomeno raggiunto le iperboli della sceneggiatura: un uomo, Rom Houben, reduce da un incidente automobilistico nel 1983 e ritenuto irrecuperabile, è tornato a vivere. O, come dice lui ora, “sono nato un’altra volta”.
Obiezione, vostro onore
Scrive La Stampa che «Vendere on-line semi di cannabis e materiale per la coltivazione della canapa indiana non istiga all’uso illecito delle droghe, anzi è un’attività protetta dall’articolo 21 della Costituzione per il quale “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. E così la Corte d’Appello di Firenze, rende noto l’associazione dei consumatori Aduc, ha annullato la sentenza di primo grado con cui era stato condannato il gestore di un negozio on-line di semi di cannabis e materiale per la coltivazione come fertilizzanti e bilancini».
Il ragionamento della Corte d’Appello di Firenze è chiaro: vendere semi di canapa è come vendere un coltello da cucina. Peccato che le opportunità di uso pacifico di un coltello da cucina siano numerose, mentre i semi di canapa riportino alla mente – noi, maliziosi – sempre a un uso specifico, che non è propriamente quello terapeutico.
Il sottosegretario Giovanardi si dice “allibito” per la sentenza, che peraltro vanifica un ampio impegno sul fronte della prevenzione e della lotta alle sostanze stupefacenti messo in atto in questi ultimi mesi.
I giudici sono un’autorità, e alle autorità il cristiano è chiamato a sottomettersi; di conseguenza le sentenze vanno rispettate anche quando non piacciono.
Con tutto il rispetto dovuto, quindi, ci permettiamo solo tre innocue obiezioni, lo facciamo perché siamo preoccupati.
L’interpretazione letterale, farisaica (absit iniuria verbis) di una legge comporta l’allontanamento da quello “spirito della norma” il cui rispetto viene indicato dai libri di legge come lo scopo ultimo del giudice.
Perdere di vista questa concezione ed elevare a idolo un singolo articolo non può non turbare l’ingenuo cittadino che, da una corte, si aspetta giustizia, non giurisprudenza.
In secondo luogo è una questione di coerenza: il lunedì ci troviamo a piangere i ragazzi morti in seguito a un incidente causato dall’uso di sostanze stupefacenti; il martedì sentiamo annunciare campagne contro l’uso delle droghe; il mercoledì leggiamo sentenze che, indirettamente, danno alla società un segnale diametralmente opposto, giungendo a usare la Carta costituzionale per giustificare la vendita di prodotti quantomeno sospetti.
A non voler essere malevoli, ci viene da pensare che sia un problema di comunicazione. Per questo sembrerebbe il caso che i poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario e chi ha il compito di dare loro applicazione – instaurassero tra loro un sano dialogo.
D’accordo, scherzavamo: probabilmente è un’utopia, stretta tra interessi di parte e chi agiterà lo spettro del pensiero unico; eppure non possiamo fare a meno di pensare che un dialogo aiuterebbe a evitare contraddizioni, equivoci e magari anche sprechi di risorse.
D’altronde non è un mistero per nessuno il fatto che a colpi di leggi non condivise, o di sentenze creative, non si va da nessuna parte.
E forse è davvero il momento di comprendere in quale direzione vogliamo indirizzare questo malandato Paese.
Preghiere pericolose
«Un’infermiera del Somerset (Inghilterra) rischia il licenziamento per essersi offerta di pregare per una paziente. Caroline Petrie è stata sospesa dal servizio per aver offerto sostegno cristiano durante una visita a casa ad una donna anziana».
Le notizie che arrivano dalla Gran Bretagna, sono sempre istruttive.
Riassunto delle puntate precedenti: nella patria del diritto e della libertà non è possibile festeggiare una ricorrenza che abbia un sentore religioso; è vietato indossare un oggetto configurabile come cristiano; è proibito pregare per chi ci sta vicino.
Come se non bastasse, ora è censurabile addirittura chiedere a un proprio paziente se apprezzerebbe la nostra preghiera nei suoi confronti.
L’infermiera faceva proprio questo: si limitava a chiedere ai suoi pazienti se volessero ricevere una preghiera. Si tratta di un gesto che, in un paese civile, verrebbe considerato pietoso e gentile, se non addirittura umano.
Chi soffre, di solito, sente il bisogno di dare un senso al suo dolore, cerca di comprendere la sua condizione, si interroga sulla vita e – talvolta – sulla morte. Una parola gentile che scaturisce da una fede serena può dare più sollievo di un farmaco.
Interessante notare anche che – stando al Corriere – l’infermiera correttamente non imponeva la preghiera, e si asteneva perfino dal proporla a coloro che riteneva potessero venir turbati da una simile offerta: e infatti a segnalare il caso è stata una anziana signora che, ironia della sorte, si definisce cristiana, e che ha riferito il fatto a un’altra infermiera, a quanto pare pronta a riferire alla direzione l’increscioso incidente.
Tant’è: l’infermiera è stata sospesa per aver voluto andare oltre, aiutare in ogni modo a lei possibile i malati che le erano stati affidati, certa che la malattia non sia solo un accidente fisico, ma (difficilmente si potrà sostenere il contrario) rattristi anche lo spirito.
Apprendiamo quindi che, in un paese laico e libero, l’infermiera deve limitarsi a fasciare le piaghe e tacere. Curioso, decisamente. Ci avevano raccontato che per certe professioni è necessaria una vocazione, specialmente quando si tratta di sopportare il peso di un contatto quotidiano con la sofferenza del prossimo: per questo ci eravamo illusi che la solidità spirituale potesse essere un valore aggiunto per chi opera in settori delicati come la sanità.
E invece no. Scopriamo che il medico, asettico nel suo camice bianco, deve limitarsi a guardarci come guarderebbe una cavia da laboratorio, considerando la nostra patologia come una semplice sfida e la nostra persona come un banale ammasso di reazioni fisiochimiche. Non dovrebbe proferire parola, perché potrebbe urtare la sensibilità del paziente; non dovrebbe accennare un sorriso, perché potrebbe offendere il credo di chi vede la malattia come un dono; non dovrebbe elargire rassicurazioni, perché potrebbe turbare la fede del paziente fatalista.
Un paese con un sistema sanitario come questo sarà sicuramente un paese laico. Ma, francamente, non lo definiremmo un paese libero.
Valigie a metà
Chissà se è morto felice. Nei giorni scorsi si è sparsa la voce che Dave Freeman è mancato per un banale incidente domestico.
Chi sia Dave ce lo hanno raccontato le cronache degli ultimi anni, quando era diventato noto per un giorno (come tanti, da quando i giornali hanno troppe pagine da riempire e i lettori troppo stress da scaricare) per un suo progetto: una lista di cento cose da fare prima di morire.
Aveva messo in fila, come facevamo tutti da bambini, un elenco di esperienze che avrebbe voluto far sue prima di lasciare questo mondo: perché, questa era la sua tesi, non si può mai dire di essersela spassata abbastanza, in questa breve vita.
Per questo ha deciso di scappare dai tori per le vie di Pamplona alla fiera di San Firmino, buttarsi da una torre legato per le caviglie in un tipico rito di iniziazione indigeno delle isole Vanuatu, immergersi nel fiume Gange, e così via.
La sorte l’ha colto impreparato, verrebbe da dire, o quantomeno a metà del suo percorso di vita ideale: aveva realizzato metà dei suoi cento desideri. «La vita è un viaggio breve. Come puoi essere sicuro di riempierla con quanto di più divertente ci sia, visitando i più bei posti che esistono sulla Terra, prima di fare la valigia per l’ultimo viaggio?», diceva.
Non sappiamo se negli ultimi istanti di vita, quelle frazioni di secondo in cui ti passa davanti l’intera esistenza, Dave abbia potuto tirare un bilancio sulla qualità del suo “breve viaggio”, chiudendolo con un sospiro di sollievo, o se fosse rammaricato per non aver vissuto abbastanza.
Non lo sappiamo né potremo mai saperlo: ma, a ben guardare, non ci preoccupa. Quel che invece ci interesserebbe sapere, semmai, è se al momento della dipartita la valigia di Dave fosse pronta.