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Distributori di illusioni

Ha ragione chi dice che il distributore automatico di profilattici non è la soluzione ai problemi dei giovani. Semmai una pezza che però, come spesso capita in questi casi, rischia di venir vista come un incoraggiamento verso una condotta che, si vuole far credere, è comune alla stragrande maggioranza dei giovani e quindi – per un sillogismo bacato – è automaticamente “giusta” per i tempi in cui viviamo.

Sbaglia, dunque, chi incoraggia la libertà di costumi: basterebbe uno sguardo responsabile sulle statistiche per farsene un’idea. O, magari, basterebbe guardare in faccia questi giovani che crescono troppo in fretta perdendosi il meglio dell’infanzia, dell’adolescenza e – temiamo – dell’età adulta.

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L'ultimo spettacolo di Jacko

«Il re del pop deve ora piegare le ginocchia davanti al Re dei re»: così il pastore Lucius Smith ha concluso ieri sera a Los Angeles il memorial dedicato a Michael Jackson.

Niente da dire: in fatto di show gli americani sono maestri, e la cerimonia di commiato dedicata a Jacko è stata sobria, ma allo stesso tempo coinvolgente e a tratti perfino commovente, come si conviene a un addio.

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L’ultimo spettacolo di Jacko

«Il re del pop deve ora piegare le ginocchia davanti al Re dei re»: così il pastore Lucius Smith ha concluso ieri sera a Los Angeles il memorial dedicato a Michael Jackson.

Niente da dire: in fatto di show gli americani sono maestri, e la cerimonia di commiato dedicata a Jacko è stata sobria, ma allo stesso tempo coinvolgente e a tratti perfino commovente, come si conviene a un addio.

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Fuori bersaglio

A Milano si è aperto il processo a Google: il noto motore di ricerca è finito alla sbarra per la nota vicenda della pubblicazione su Youtube (di cui Google è proprietario) del video in cui quattro ragazzotti torinesi vessavano un compagno di classe disabile. Il filmato ha fatto il giro del mondo, provocando indignazione nell’opinione pubblica e infinite discussioni tra gli addetti ai lavori, concludendo la sua corsa con l’odierno strascico legale.

In aula si discuterà sulla responsabilità oggettiva di chi offre un servizio online, come Google: fino a dove può spingersi l’obbligo di controllo preventivo o di filtraggio dei contenuti? Quali sono i margini ragionevoli entro i quali si può stemperare la responsabilità grazie alla buona volontà di una rimozione solerte, anche se non immediata?

È intuibile però che la portata del processo è più ampia, e giunge a toccare un cardine del diritto come il rapporto tra responsabilità e libertà, tutela della sfera privata e diritti della sfera pubblica, con tutto ciò che ne segue. Per questo motivo al tribunale di Milano sono giunte cinque testate straniere, tra cui il New York Times.

Il Corriere stesso dedica mezza pagina alla notizia, ripercorrendo la vicenda e dando conto della prima udienza (per la cronaca è slittata per assenza dell’interprete).

La causa in corso sarà utile. Utile a stabilire alcuni punti fermi, utile a dare indicazioni concrete a chi opera nel settore.

In questa baraonda, però, si rischia di spostare l’attenzione dal vero problema. Che non è Google – anche se farebbe più notizia – e non è nemmeno l’impossibile gestione umana dei ponderosi archivi video di Youtube.

Il problema non è il servizio offerto, ma il modo in cui è stato usato. Perché tutto  nato da quattro giovani.

Giovani bullotti che un giorno hanno deciso di maltrattare un loro coetaneo.

Giovani imbecilli che, per il loro ignobile gesto, hanno preso di mira un disabile.

Giovani bacati che hanno deciso di filmare la scena, dimostrando la premeditazione, tradendo un atteggiamento esibizionista, oltre che delinquenziale.

Giovani meschini che hanno provato un tale compiacimento dalla loro azione da pensare di condividerla con il mondo intero attraverso un servizio nato per scopi ben diversi.

Nella disgustosa sequenza si avverte una percezione distorta dei valori, dove bene e male si scambiano i ruoli. Qualcuno parlerà della solita infanzia difficile, ma probabilmente sarebbe più corretto chiamare in causa un’educazione latitante.

E allora, riflettiamoci su: la colpa, alla fine, è davvero di Youtube?

Sul filo del disagio

«Si chiama Cerrie Burnell, ha 29 anni e, con in tasca il diploma di una celebre scuola per aspiranti attori, ha tutte le credenziali in ordine per sfondare nel mondo televisione».

È stata assunta dalla BBC per condurre un seguitissimo programma per bambini sotto i sei anni. Perché si parla di lei? Perché «Cerrie è nata con un braccio solo. Un handicap che a lei non fa alcun effetto, tanto che ha scelto sin da piccola di non utilizzare una protesi… ma che ha provocato l’indignazione di diversi genitori».

Varie le lettere di protesta giunte alla BBC, dove si parla di bambini turbati: genitori preoccupati perché «Mia figlia ha solo due anni… è preoccupatissima, mi chiede di continuo se le fa male»… «Mio figlio adesso ha gli incubi».

Cerrie ci è rimasta male, e replica che «l’handicap non può essere un tabù e che non è mai troppo presto per insegnare ai figli ad accettare chi è diverso».

Se da un lato è necessario tutelare la spiccata sensibilità della prima infanzia, dall’altro non si può non riconoscere l’opportunità di presentare ai bambini il tema della differenza, e questo per il bene stesso di bambini (non è mistero quanto sappiano essere decisamente crudeli con chi è diverso).

Cerrie, insomma, non ha tutti i torti: insegnare ad accettare la vita, con tutti i suoi limiti, è qualcosa che prima si impara e meglio è. Non viviamo in un mondo omologato, e la diversità – culturale, umana, religiosa e anche fisica – fa ormai parte della nostra quotidianità: oggi più di ieri la tolleranza e la delicatezza nei confronti degli altri sono indispensabili a una convivenza civile e serena.

C’è un solo elemento, in questa vicenda, che stona: il fatto che tutte le foto di Cerrie Burnell disponibili in rete enfatizzino la sua diversità.

E allora viene il dubbio che l’handicap non sia solo una situazione da accettare, ma venga usato come un’arma per ottenere un vantaggio, o almeno una rivalsa, giocando sull’imbarazzo di chi non può dire di no per non venir accusato di nutrire pregiudizi verso i diversamente abili.

Una differenza esibita in maniera quasi ostentata potrebbe far pensare che, in fondo, quella differenza non sia stata accettata come si vorrebbe far credere e invece, al di là delle dichiarazioni, venga vissuta dalla persona come un disagio.

Forse si tratta solo di un equivoco. O forse no.