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Giochi pericolosi
24 milioni di italiani, il 43% della popolazione dai 4 anni in su, si diletta con i videogiochi. O meglio, con l’evoluzione di quelli che una volta erano i videogames, e che oggi – potenza della tecnologia – costituiscono un’esperienza di un’intensità molto diversa da quella che si poteva provare, appena vent’anni fa, quando ci si sfidava tra i pixel sgranati di un Atari, un Commodore 64 o un Ibm.
Giocare, oggi, significa vivere un’esistenza virtuale interagendo in contemporanea con decine di persone presenti in qualsiasi parte del mondo; e se per chi gioca è un divertimento totalizzante, chi si limita a guardare la sfida ritrova sullo schermo la piacevolezza di un film con una trama che si dipana in tempo reale.
Nella mente del credente
«Non c’è nulla di mistico in una preghiera, rivela Repubblica -. Per il nostro cervello rivolgersi a dio [l’iniziale minuscola è del giornale progressista, ndr] è come parlare a un amico in carne e ossa».
La scoperta arriva da scienziati danesi, che hanno esaminato «le reazioni cerebrali di un gruppo di fedeli impegnati nella ricerca di un conforto spirituale attraverso un dialogo con dio [come sopra, ndr], scoprendo che si attivano le stesse aree di una normalissima conversazione. Cosa che non capita quando ci si rivolge a Babbo Natale. Mentre quando si recita una preghiera a memoria si attivano esclusivamente le zone adibite alla ripetizione».
Ai venti credenti presi in esame è stato chiesto dapprima di recitare una preghiera o una filastrocca; poi di pregare liberamente, relazionandosi con Dio con parole proprie; infine di esprimere un desiderio sui doni che avrebbero voluto ricevere da Babbo Natale.
Quando si parla con Dio, «la risonanza mostra che si accendono le aree della conversazione e che, in particolare, quando ci si rivolge a Dio sono attive anche aree della corteccia prefrontale che servono a capire intenzioni ed emozioni altrui, cosa che succede sempre di fronte a un interlocutore in carne ed ossa. Ciò però non avviene quando si parla con Babbo Natale».
Le conclusioni dello staff di ricercatori è stato che «rivolgersi a Dio è come parlare con una persona, mentre Babbo Natale non sprigiona gli stessi effetti perché si è consapevoli dell’aspetto simbolico e lo si considera più un “oggetto”, il protagonista di una leggenda».
Le menti più avanzate e aperte contestano ai credenti la loro fede, liquidandola come una (pia) illusione. Secondo le ricerche danesi, a quanto pare, se si tratta di un’illusione è quantomeno ben fondata: difficile infatti credere nell’esistenza di una persona in maniera così ferma, decisa e convinta da ingannare perfino il proprio cervello. Se non altro, con Babbo Natale non è riuscito altrettanto bene.
Se questa ricerca può essere motivo di riflessione per chi non crede, a chi crede può offrire qualche indicazione che conferma il tipo di rapporto che Dio vuole avere con noi.
Non vuole che lo consideriamo un personaggio di fantasia. Non vuole nemmeno che lo consideriamo reale, ma lontano e distante – in tutti i sensi – dalle nostre vicende. Desidera che maturiamo la consapevolezza della sua presenza, quotidiana e pratica, accanto a noi.
Non vuole che la nostra relazione con lui sia un recitato di preghiere scritte da altri, e ripetute come una litania che tiene impegnata la bocca e il cervello, ma lascia libero il cuore. Vuole sentire la nostra voce, non quella di altri.
Non vuole una lista di richieste di preghiera – guarigioni, promozioni, benedizioni – proposte con maggiore o minore convinzione: vuole un colloquio vero, diretto, perfino interattivo.
Non vuole, insomma, un rapporto parziale, ma totalizzante: non è un caso se il primo comandamento ci chiede di amare Dio con tutta la forza e con tutta l’anima, ma anche con tutta la mente.
Relatività perverse
“Il vigile non ha sempre ragione”: questa la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione, e che ha dato ragione a una agguerrita automobilista romana.
La signora, secondo il vigile, era passata con il rosso, e si era vista giungere a casa la relativa molta. «Convinta di essere dalla parte della ragione, di aver pigiato l’acceleratore con li verde si è rivolta al giudice di pace, sostenendo che il “pizzardone” aveva visto male e che la multa era da cancellare».
A sostegno della sua tesi portava alcuni testimoni oculari. A pensarci bene, alla signora vanno fatti i complimenti già per questo: di solito le multe arrivano con mesi di ritardo e in pochi ricordiamo una scena vissuta tanto tempo prima, figurarsi se saremmo in grado di recuperare testimoni presenti all’incrocio proprio quel giorno a quell’ora.
Com’era prevedibile, il giudice di pace le ha dato torto, ma la signora ha continuato la sua battaglia arrivando fino alla Cassazione che – con una delle classiche sentenze creative cui spesso ci ha abituato – le ha dato ragione.
Secondo la Cassazione, infatti, può accadere che in certe circostanze «in ragione della loro modalità di accadimento repentino non si siano potute verificare e controllare secondo un metro sufficientemente obiettivo ed abbiano pertanto potuto dare luogo ad una percezione sensoriale implicante margini di apprezzamento […] Quanto attestato dal pubblico ufficiale concerne non la percezione di una realtà statica (come la descrizione dello stato dei luoghi senza oggetti in movimento) bensì l’indicazione di un corpo o un oggetto in movimento».
Insomma, come dimostrò Einstein, tutto è relativo; quindi, come l’arbitro, anche il vigile può sbagliare una valutazione. Con il mezzo in movimento la prospettiva può risultare ingannevole e dare l’idea di qualcosa che, magari, agli occhi di altri non è così scontato.
Verrebbe da tirare un sospiro di sollievo: la sacralità del pubblico ufficiale è stata smantellata, finalmente non avremo torto per principio quando dovremo discutere con un vigile sull’applicazione del codice o sulla dinamica di un incidente.
Il sollievo, però, è solo momentaneo: come segnala un sito dedicato agli automobilisti, «È vero che in Italia ogni sentenza fa stato fra le parti (statuisce pienamente soltanto per le parti in causa), ma questa della Cassazione conferma che il verbale dei Vigili non fa piena prova fino a querela di falso. Si tratta di una conferma fondamentale».
Si comprende facilmente che, se la sentenza potrà riparare a qualche palese ingiustizia, sarà soprattutto il rifugio privilegiato degli impuniti, degli indisciplinati, di tutti coloro che ritengono di essere al di sopra della legge: le categorie che non vorremmo incontrare sulla nostra strada – quantomeno perché la rendono estremamente pericolosa – e che da oggi hanno un’arma in più per difendere le loro smargiassate.
Da anni, ormai, le sentenze smontano le leggi a suon di cavilli procedurali, sottigliezze amministrative, interpretazioni giuridiche originali: il risultato è una legge sempre più fai-da-te, in un mondo che conta sempre meno punti fermi.
Una prospettiva che non suona troppo rassicurante per il futuro.