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Una flottiglia di dubbi

Chissà se mai sapremo davvero quel che è successo l’altra notte sulla Mavi Marmaris, la nave della “Flotilla” pacifista diretta a Gaza per “portare aiuti umanitari”.

Chissà se ha ragione la deputata arabo-israeliana Hanin Zuabi quando sostiene che a bordo non c’erano armi, o i filmati che girano insistentemente in rete e testimoniano il sequestro di casse di munizioni, missili e altro. Chissà se sono vere o se si tratta di un banale montaggio video tra immagini della nave sotto accusa e riprese più datate (ma non per questo false).

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Se mille vi sembran pochi

Eppure, se succede, un motivo c’è.

I giornali hanno segnalato il caso di un sessantenne romano che avrebbe irretito almeno venti donne, estorcendo denaro e abusando delle loro figlie preadolescenti, con la scusa che doveva «modificare il karma delle bambine e trasmettere a tale scopo il suo Dna sano e curativo che avrebbe impedito il compimento del negativo destino e risparmiato alla madre le  sofferenze altrimenti inevitabili». Una storia che andava avanti dagli anni Novanta.

Il personaggio in questione, arrestato nei giorni scorsi, è il “guru” di una setta dal nome esotico, che si dedica allo yoga e a terapie orientali e – stando ai giornali – avrebbe qualcosa come mille adepti.

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Pentimenti poco convincenti

Cesare Battisti, “ex terrorista”, scrive una lettera aperta al nostro Paese, chiedendo: «L’Italia cristiana mi perdoni».

Ricorderete la vicenda: Battisti si macchiò di alcuni delitti molto poco politici negli anni di piombo, venne condannato in seguito a processo, e per non finire in carcere si rifugiò in Francia, che da decenni ormai ospita senza crearsi troppi problemi i terroristi nostrani, negando l’estradizione in quanto le nostre sarebbero sentenze politiche seguite a una guerra civile, e non volgari atti di terrorismo.

Dopo la Francia Battisti è migrato in Brasile, dove aspetta la sentenza dei supremi giudici sulla richiesta di estradizione avanzata dal nostro Paese.

Dal carcere di Brasilia Battisti scrive a tutti noi; nella lettera, letta pubblicamente durante una sessione del Senato brasiliano, il terrorista si chiede «se non è giunta l’ora che l’Italia mostri il suo lato cristiano», per il quale «il perdono è un atto di nobiltà». Parla di una «moltitudine manipolata» e ribadisce la sua innocenza: «non ce la faccio a pensare a me come a qualcuno capace di fare nemmeno un centesimo di tutto ciò che mi attribuiscono… Sono vittima di un bombardamento mediatico».

C’è una sentenza e ci sono numerose testimonianze che inchiodano Battisti alle sue responsabilità; tuttavia potremmo anche accettare che si tratti solo di un drammatico malinteso, di una congiura che ha voluto prendere un innocente, magari più ingenuo degli altri, per farne il capro espiatorio di una vicenda. Non sarebbe il primo caso, e nemmeno l’ultimo.

Anche ammettendo che sia così, qualcosa non torna.

Siamo consapevoli che chiedere perdono stia diventando una moda, più che una necessità: a ogni delitto bastano pochi minuti per sentire uno sprovveduto dotato di microfono chiedere ai familiari delle vittime se “hanno perdonato”.

È un’abitudine figlia di un’informazione malata, ma anche di una prospettiva concettuale distorta.

Chiedere perdono comporta, cristianamente parlando, alcuni passaggi. La riflessione sulle proprie azioni, innanzitutto, e poi il pentimento: ossia il riconoscimento dell’errore, di aver causato dolore, cui segue un cambiamento interiore in base al quale è possibile affermare con sincerità “non lo rifarei”.

Battisti si professa innocente, e questo – paradossalmente – crea un problema in relazione alla sua richiesta: per qualcosa che non si è commesso non può esistere perdono, ma solo giustizia.

E poi, l’atteggiamento di Battisti non sembra particolarmente conciliante. Non sembra pentito, ma polemico come al solito: rivendica la sua innocenza, lamenta congiure contro di lui, attacca l’Italia «governata dalla mafia».

Sicuramente è un uomo amareggiato e dolente, ma in una richiesta di perdono ci saremmo aspettati un approccio diverso: forse non un pentimento, ma almeno un briciolo di rammarico; forse non un riconoscimento delle proprie responsabilità, ma almeno qualche parola per il dolore per le vittime.

Forse non ci aspettavamo umiltà, ma nemmeno arroganza.

Fuoco di valori

Ridurre in fin di vita un uomo per divertimento, e vantarsene: non stiamo parlando di vecchi sicari rotti alle esperienze malavitose, ma di quattro ventenni riminesi di buona famiglia, che in una serata di noia non hanno trovato di meglio da fare che dare fuoco a un ignaro barbone.

Una vicenda raggelante, dove il cinismo e la mancanza di riferimenti morali si mescola all’ingenuità, dando vita a una Second life in salsa horror dagli sviluppi incontrollabili.

La frequenza di drammi simili, seguiti da giustificazioni spiazzanti e da un candore sconvolgente («Dottore, ora che le ho detto tutto posso tornare a casa?», chiese un giovanissimo dopo aver confessato di aver massacrato una coetanea) non possono non farci riflettere sul messaggio che questi giovani devono aver ricevuto, e sul quale hanno costruito le loro (in)certezze e la loro scala valoriale (rovesciata). Ci siamo dentro tutti: i media sciacalli, una società compiacente e compiaciuta dalla morbosità, il sistema giudiziario permissivo e inefficace, i vicini di casa indifferenti, i genitori assenti o acquiescenti.

«Succede», hanno detto. «Succede», diranno ancora.
Si, succede. Succede se l’unico amore che si insegna è il sentimento usa e getta, se l’unico valore è apparire, se l’unica morale è arrivare; succede se tutta l’attenzione si concentra su se stessi, se l’unico obiettivo è riuscire a tutti i costi, se l’altro vale solo in funzione del nostro piacere, del nostro divertimento, della nostra utilità; succede se tutto è consentito, se concetti come umanità e rispetto sono relegati a un tempo passato come anticaglie inutili in una modernità che vive un egotismo di inconsapevolezza e inanità.

Nelle nebbie della nostra indifferenza dovremmo far entrare un barlume di indignazione che superi la distanza della giornata, e che fecondi una volta buona il nostro desiderio di cambiamento. Che faccia cambiare noi per primi, scrollandoci di dosso la religiosità e il moralismo di maniera per applicare alla nostra vita – prima che al giudizio verso gli altri – quell’amore che non è solo carezze, ma anche carattere. Quell’amore che è impegno alla coerenza in ciò che facciamo, diciamo, guardiamo, ascoltiamo, pensiamo.

Altrimenti succede e succederà. E, se è vero che chi tace acconsente, succederà perché lo vogliamo.

I veri ingenui

A volte ci si chiede se l’informazione ci somigli, o viceversa.

Su tutti i giornali, oggi, campeggia una notizia che sa di clamoroso: scrive il Corriere che «È arrivato in rete Cuil, ultimo nato nel settore dei motori di ricerca intenzionati a sfidare sua maestà Google».

Si tratta di un sistema che «sarebbe in grado di mappare una porzione di web molto più vasta rispetto a quanto fa Google. Inoltre, a differenza di quest’ultimo, non assegna rilevanza in base al link (caratteristica cruciale di PageRank, il famoso algoritmo su cui si fonda Google), bensì in base al contenuto delle pagine rispetto alla richiesta lanciata dall’internauta. L’aspirante rivale del motore più famoso della rete tiene quindi in considerazione più i concetti alla base delle ricerche di ciascun utente».

Non bastasse questo a impressionare il lettore, il Corriere rincara la dose: «Al momento le pagine indicizzate da Cuil sono oltre 120 miliardi, quindi circa il triplo di quelle dichiarate dal colosso di Brin e Page», ossia Google.

Unico tallone d’Achille, la prova pratica: «Tentando per esempio una ricerca con termini molto popolari, come “Harry Potter”, Google propone circa 113 milioni di risposte, mentre il nuovo motore ne offre più o meno 30 milioni. Inoltre, al momento le ricerche in un lingua diversa dall’inglese sono assai deboli».

In sostanza il Corriere si accorge del fatto che la pratica smentisce gli annunci, e che con i termini in altre lingue va anche peggio, ma lo relega a un mero dettaglio.

Abbiamo provato anche noi, e si potrebbe dire che nessun motore di ricerca è mai sceso così in basso: decine di pagine civetta senza utilità, di quelle che – giustamente – vengono filtrate dai motori di ricerca seri.

È singolare constatare come nella società dell’informazione globale, dove qualsiasi informazione è verificabile in pochi secondi, basti una fola di annuncio per sollevare un polverone ingiustificato. Ancora più sorprendente notare che questo polverone si rivela capace di trascinarsi dietro anche le testate più serie, che a quanto pare sono disposte a credere ciecamente agli annunci: contro ogni evidenza, verifica e sperimentabilità.

E poi gli ingenui saremmo noi cristiani?