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La “cosa giusta” che ci manca

«Come mai in Italia l’espressione “fare la cosa giusta“, di tutte quelle importate dagli Stati Uniti, è l’unica che non ha avuto alcun successo, o almeno non è entrata nella lingua parlata?», si chiede Filippo La Porta oggi sul Corriere.

Mentre Obama ha rilanciato la formula proprio di recente citando Lincoln, e nonostante da noi un film l’abbia introdotta nel linguaggio parlato già nel 1989, questa «locuzione dal sapore evangelico-coscienziale molto diffusa oltreoceano» non trova estimatori dalle nostre parti, al contrario di esclamazioni come “alla grande!” o frasi fruste come “fare la differenza”.

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Peso e misura

Le risse non si sa mai da chi cominciano, ma si sa come finiscono: male per tutti. Non fa eccezione l’episodio vissuto da un gruppo di avventori in un noto ristorante di Roma, che improvvisamente si sono ritrovati al centro di un parapiglia.

La dinamica, come da copione, è poco chiara. Unici dati certi: l’ingresso, a un certo punto della serata, di Guido Bertolaso. E il commento a voce alta, per qualcuno tonante, di una archistar impegnata, Massimiliano Fuksas. Che, stando alle testimonianze riportate dal Corriere, avrebbe commentato il passaggio del sottosegretario senza mezzi termini: «Dove deve sedere quel ladro, pezzo di m…».

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Il giusto atteggiamento

Il terremoto ad Haiti è all’ordine del giorno sui quotidiani, sui siti, nei telegiornali.

Una tragedia immane e ancora difficilmente quantificabile che ha visto scattare subito la solidarietà del mondo intero, rimasto scosso da un dramma che – riflette Gramellini sulla Stampa – si teme possa un giorno toccare anche a noi.

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Dieci anni dopo

Risulta sempre un po’ retorico, e piuttosto pericoloso, parlare di decenni: come esseri umani facciamo difficoltà a ricordare i fatti dell’ultima settimana, e con fatica mettiamo insieme gli avvenimenti dell’anno, figurarsi il senso di inadeguatezza e l’angoscia nell’affrontare un periodo dieci volte più ampio.

Eppure, con il 31 dicembre 2009, si chiude il primo decennio del nuovo secolo, o – absit iniuria verbis – del terzo millennio. Un decennio è già un lasso di tempo che perde di vista la quotidianità per tendere alle unità di misura adottate dalla storia: in un decennio – specie in un decennio di un’epoca come questa – il mondo cambia significativamente.

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Quel bisogno d'amore

“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.

Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.

Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.

Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.

Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.

Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.

Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.

Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.

Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.

In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.

Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.

Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.

Quel bisogno d’amore

“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.

Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.

Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.

Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.

Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.

Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.

Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.

Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.

Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.

In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.

Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.

Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.

Quella fede che stona

Scandalo a sinistra britannica: l’ex premier laburista Tony Blair inaugura una rubrica su un periodico di grande tradizione rossa, il New Statesman, dove parla di fede. Fin dal titolo: Faith Column, colonna della fede.

Certo che deve essere una bella botta svegliarsi una mattina e sentire un leader della sinistra pontificare su un periodico di sinistra sulla rilevanza della fede e l’importanza della religione.

Proprio a sinistra, dove la religione è sempre stata l’oppio dei popoli, o nella migliore delle eventualità un happy hour per bigotti, ecco spuntare un elemento degenere riferirsi alla spiritualità, alla dottrina cristiana, parlare di conversione. Un rinnegato dal nome altisonante, per giunta, che cura una rubrica da orticaria.

Eppure i vignettisti ce la stanno mettendo tutta per ridicolizzare le convinzioni e i precetti cristiani, anestetizzando il senso spirituale degli europei. Eppure l’Onu fa di tutto per mettere in minoranza la cultura giudaico-cristiana (anche Israele, ma quello è un altro discorso) con i suoi inutili principi. Eppure l’Unione europea si dedica con grande impegno a eliminare i riferimenti cristiani perfino dal linguaggio, spingendo i governi nazionali verso un politicamente corretto da operetta.

Insomma: tutti si danno da fare, e proprio Blair si mette di traverso, rischiando di vanificare un lavoro certosino e decisivo mirato a un futuro libero ed egualitario, dove tutti siano liberi di sbagliare senza sentirsi in colpa?

Che in Italia la sinistra si trovi guidata da un democristiano è, tutto sommato, una parentesi innocua verso il successo del relativismo. Ma è accettabile che un alfiere della sinistra europea si faccia prendere dai dubbi e riconosca l’esistenza di un valore superiore alla coscienza individuale?

Eppure è così. Nel suo primo intervento Blair si è limitato a spiegare “Perché Dio riguarda tutti noi”, teorizzando la religione come chiave per la comprensione del XXI secolo. Chissà cosa si inventerà sui prossimi numeri.

E allora sì, possiamo capire il disagio. Un imbarazzo simile non deve essere per niente facile da mandare giù.

Slogan (ir)razionali

La polemica scoppierà a breve, anche se qualche premessa si è già vista nei giorni scorsi: venerdì 13 febbraio uscirà nelle sale cinematografiche il film “Religiolus”, di Larry Charles, già regista del dissacrante “Borat”.

La pellicola ha già mobilitato gruppi di “ultracattolici”, che hanno contestato i manifesti promozionali. Il film promette di attaccare i fanatismi di ogni fede religiosa, e si presenta con un poster dove le celebri tre scimmiette (“non vedo, non sento, non parlo”) rappresentano le tre principali religioni monoteiste.

Alla protesta degli “ultrà” cattolici è seguita la risposta del produttore americano, e a ruota quella del segretario UAAR (quelli dei “bus atei”), che lamenta: «È una gravissima violazione della libertà di espressione. Sembra normale che non si debba parlare di ateismo». Attaccare per poi piagnucolare di fronte alla reazione: un comportamento che, in quanto a razionalità (e maturità), lascia a desiderare.

Il film, spiegano i distributori italiani, “parla ai giovani” con un “linguaggio schietto”, e la campagna pubblicitaria è in linea con questa scelta. Certo, se questo è il registro scelto per parlare ai giovani, viene da pensare che gli amici atei non abbiano un’opinione troppo alta delle nuove generazioni.

Come credenti, di qualsiasi fede, ci sono gli estremi per sentirsi offesi? Forse sì, visto che un aspetto così intimo, profondo, umano come la spiritualità viene banalizzato e irriso senza troppo rispetto.

Si potrebbe rimandare l’accostamento al mittente, ma probabilmente non sortirebbe l’effetto voluto: visto l’orgoglio con cui gli atei rivendicano il dogma delle origini scimmiesche, risulterebbe anzi un complimento.

È interessante invece rilevare che la vicenda mina il luogo comune secondo cui i razionalisti sono gli evangelisti della logica, i sacerdoti della ragione, gli adoratori delle argomentazioni.

A quanto pare, invece, all’occorrenza usano gli slogan, non disdegnano un po’ di propaganda, e se un film o un libro può dare visibilità alle loro ragioni, ben venga, anche a costo di accettare qualche banalizzazione e abbracciare qualche generalizzazione di troppo. Se poi questo porta ad abbassare momentaneamente la soglia del tanto decantato rispetto verso l’altro, pazienza: in fondo, pare di capire, le religioni nei loro confronti hanno fatto di peggio.

Per uscire dall’impasse senza scadere in uno scontro non ci resta che una possibilità: invertire le parti e, come cristiani, dare prova di tolleranza nei confronti di chi vuole provocare.

Lasciamo allora le tre scimmiette, e i loro sodali, al loro destino. D’altra parte se gli amici atei hanno bisogno di un film alla Borat e quattro autobus per farsi coraggio, per chi crede non c’è molto da preoccuparsi.