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La “cosa giusta” che ci manca
«Come mai in Italia l’espressione “fare la cosa giusta“, di tutte quelle importate dagli Stati Uniti, è l’unica che non ha avuto alcun successo, o almeno non è entrata nella lingua parlata?», si chiede Filippo La Porta oggi sul Corriere.
Mentre Obama ha rilanciato la formula proprio di recente citando Lincoln, e nonostante da noi un film l’abbia introdotta nel linguaggio parlato già nel 1989, questa «locuzione dal sapore evangelico-coscienziale molto diffusa oltreoceano» non trova estimatori dalle nostre parti, al contrario di esclamazioni come “alla grande!” o frasi fruste come “fare la differenza”.
Dieci anni dopo
Risulta sempre un po’ retorico, e piuttosto pericoloso, parlare di decenni: come esseri umani facciamo difficoltà a ricordare i fatti dell’ultima settimana, e con fatica mettiamo insieme gli avvenimenti dell’anno, figurarsi il senso di inadeguatezza e l’angoscia nell’affrontare un periodo dieci volte più ampio.
Eppure, con il 31 dicembre 2009, si chiude il primo decennio del nuovo secolo, o – absit iniuria verbis – del terzo millennio. Un decennio è già un lasso di tempo che perde di vista la quotidianità per tendere alle unità di misura adottate dalla storia: in un decennio – specie in un decennio di un’epoca come questa – il mondo cambia significativamente.
Un poster per pensare
“Basta prediche, Gesù è sui manifesti”: il Corriere annuncia una campagna di evangelizzazione dal sapore pubblicitario proposta a Brescia da don Luca Paitoni, cappellano nella clinica Poliambulanza.
Scrive il Corriere che per «evangelizzare e avvicinare sempre più persone a Dio il prete ha messo da parte prediche e benedizioni casa per casa, studiando una campagna pubblicitaria ad hoc: protagonista Gesù con “slogan” ispirati a passi del vangelo».
Il tutto su cartelloni da 10×5 metri distribuiti un po’ ovunque, dal centro alla tangenziale.
Grammatica e pratica
Sono giovanissimi, educati, vestiti sobriamente, con l’aria da bravi ragazzi. Li si riconosce da lontano: pantaloni scuri, camicia chiara, capelli corti, zaino nero, aria da americano yes-we-can. E, a distinguerli, un cartellino appuntato sul petto con nome, cognome e carica.
Sono i missionari mormoni, che vediamo girare nelle nostre città e, con garbo, avvicinarsi per raccontarci della loro fede e della loro dottrina. Non sempre, a dire il vero, sanno affrontare al meglio il contesto culturale italiano, ma ci provano sempre, con le armi che la scuola biblica ha dato loro e, quando non basta, con una dose di impegno pratico che va dai corsi d’inglese alle ripetizioni per studenti.
Qualcuno, forse, si sarà chiesto che fine facciano questi ragazzi una volta tornati in patria: anche se i mormoni sono una realtà numerosa, sarebbero comunque troppi per impegnarsi come responsabili di chiesa.
E allora? Il mistero è stato svelato sabato in un servizio sulla Stampa: «In gioventù i mormoni hanno l’obbligo di servire per almeno 24 mesi nelle missioni in giro per il mondo», un’esperienza che consente loro di imparare e raffinare le strategie comunicative fino a diventare ottimi venditori.
La Pinnacle Security, racconta il quotidiano, ha successo grazie a «prodotti competitivi, ma anche a una straordinaria rete di vendita diffusa su tutto il territorio americano e gestita sovente da ex missionari che mettono le esperienze maturate con la fede al servizio del business».
«È una missione trasformata in lavoro», spiega uno degli ex missionari che «come molti dei suoi colleghi si è fatto le ossa professando il suo credo, parla tre lingue, e ha sviluppato una capacità di convincimento degna del più abile negoziatore… Durante le missioni si apprendono vere e proprie tecniche di comunicazione» e «alcuni fondamenti validi in ogni situazione».
L’esempio mormone è una lezione utile.
Non sono in pochi a essere convinti che bastino la teoria e la conoscenza biblica per raggiungere le persone con il messaggio di speranza del vangelo. Hanno le loro risposte preconfezionate, che prescindono dalle possibili domande dell’interlocutore, e che si rifanno sempre agli stessi temi, alle stesse citazioni bibliche, e perfino allo stesso linguaggio. Un monologo dai toni passatisti che, comprensibilmente, non coinvolge troppo la controparte, e talvolta perfino la irrita.
Se provate a obiettare a questi evangelisti retrò che sarebbe opportuno adattarsi al contesto in cui vivono, risponderanno che “il messaggio del vangelo non cambia”. Questo, nella loro prospettiva, li autorizza a usare lo stesso linguaggio aulico di Luzzi, e talvolta perfino gli arcaismi di Diodati.
Ma solo quando parlano di Dio, ovviamente. Non certo al supermercato, in ufficio, a casa. Il tono formale scatta solo in certe specifiche occasioni.
Per il resto, curiosamente, quelle stesse persone non disdegnano di impegnarsi a usare i termini più corretti per rendere interessante un annuncio sul giornale, o di usare la formula più efficace per convincere l’assemblea condominiale.
A quanto pare solo quel vangelo che sta tanto a cuore non può giovarsi di questo privilegio: il privilegio della comprensibilità.
E dire che la società avrebbe bisogno di una risposta e, in fondo, sta solo cercando qualcuno che gliela sappia presentare in maniera comprensibile. I mormoni, nel loro piccolo, qualcosa hanno capito.
Quel bisogno d'amore
“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.
Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.
Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.
Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.
Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.
Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.
Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.
Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.
Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.
In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.
Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.
Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.
Quel bisogno d’amore
“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.
Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.
Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.
Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.
Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.
Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.
Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.
Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.
Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.
In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.
Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.
Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.
Slogan (ir)razionali
La polemica scoppierà a breve, anche se qualche premessa si è già vista nei giorni scorsi: venerdì 13 febbraio uscirà nelle sale cinematografiche il film “Religiolus”, di Larry Charles, già regista del dissacrante “Borat”.
La pellicola ha già mobilitato gruppi di “ultracattolici”, che hanno contestato i manifesti promozionali. Il film promette di attaccare i fanatismi di ogni fede religiosa, e si presenta con un poster dove le celebri tre scimmiette (“non vedo, non sento, non parlo”) rappresentano le tre principali religioni monoteiste.
Alla protesta degli “ultrà” cattolici è seguita la risposta del produttore americano, e a ruota quella del segretario UAAR (quelli dei “bus atei”), che lamenta: «È una gravissima violazione della libertà di espressione. Sembra normale che non si debba parlare di ateismo». Attaccare per poi piagnucolare di fronte alla reazione: un comportamento che, in quanto a razionalità (e maturità), lascia a desiderare.
Il film, spiegano i distributori italiani, “parla ai giovani” con un “linguaggio schietto”, e la campagna pubblicitaria è in linea con questa scelta. Certo, se questo è il registro scelto per parlare ai giovani, viene da pensare che gli amici atei non abbiano un’opinione troppo alta delle nuove generazioni.
Come credenti, di qualsiasi fede, ci sono gli estremi per sentirsi offesi? Forse sì, visto che un aspetto così intimo, profondo, umano come la spiritualità viene banalizzato e irriso senza troppo rispetto.
Si potrebbe rimandare l’accostamento al mittente, ma probabilmente non sortirebbe l’effetto voluto: visto l’orgoglio con cui gli atei rivendicano il dogma delle origini scimmiesche, risulterebbe anzi un complimento.
È interessante invece rilevare che la vicenda mina il luogo comune secondo cui i razionalisti sono gli evangelisti della logica, i sacerdoti della ragione, gli adoratori delle argomentazioni.
A quanto pare, invece, all’occorrenza usano gli slogan, non disdegnano un po’ di propaganda, e se un film o un libro può dare visibilità alle loro ragioni, ben venga, anche a costo di accettare qualche banalizzazione e abbracciare qualche generalizzazione di troppo. Se poi questo porta ad abbassare momentaneamente la soglia del tanto decantato rispetto verso l’altro, pazienza: in fondo, pare di capire, le religioni nei loro confronti hanno fatto di peggio.
Per uscire dall’impasse senza scadere in uno scontro non ci resta che una possibilità: invertire le parti e, come cristiani, dare prova di tolleranza nei confronti di chi vuole provocare.
Lasciamo allora le tre scimmiette, e i loro sodali, al loro destino. D’altra parte se gli amici atei hanno bisogno di un film alla Borat e quattro autobus per farsi coraggio, per chi crede non c’è molto da preoccuparsi.
Peso e misura
Mar 30
Pubblicato da pj
Le risse non si sa mai da chi cominciano, ma si sa come finiscono: male per tutti. Non fa eccezione l’episodio vissuto da un gruppo di avventori in un noto ristorante di Roma, che improvvisamente si sono ritrovati al centro di un parapiglia.
La dinamica, come da copione, è poco chiara. Unici dati certi: l’ingresso, a un certo punto della serata, di Guido Bertolaso. E il commento a voce alta, per qualcuno tonante, di una archistar impegnata, Massimiliano Fuksas. Che, stando alle testimonianze riportate dal Corriere, avrebbe commentato il passaggio del sottosegretario senza mezzi termini: «Dove deve sedere quel ladro, pezzo di m…».
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