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La parola giusta
«L’Argentina, la cui popolazione cattolica è stimata al 91 per cento, è diventata questa mattina all’alba il primo paese dell’America latina ad autorizzare i matrimoni omosessuali in seguito a un voto storico al Senato trasmesso in diretta tv», scrive Repubblica.
Il quotidiano cita poi il capogruppo al Senato dei radicali all’opposizione, Gerardo Morales, secondo cui “La società argentina è cambiata: ci sono dei nuovi modelli famigliari”, considerazione che ha portato ad approvare “questa legge… pensata per tutelare i diritti delle minoranze“.
Quieto (con)vivere
“Convivere, nuovo fidanzamento italiano”: il titolo del focus che il Corriere venerdì dedicava a un’abitudine attecchita anche in Italia, dove i matrimoni in dieci anni si sono quasi dimezzati e le unioni di fatto hanno preso il loro posto.
Con un calcolo forse opinabile, ma probabilmente non troppo azzardato, Maria Antonietta Calabrò segnala che «ormai vive insieme al partner senza alcuna formalità una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni Settanta, e quando avranno diciotto anni le bambine nate negli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare».
Quattro i tipi di convivenza: la convivenza prematrimoniale, che sostituisce il vecchio fidanzamento e si conclude – se va bene – con il matrimonio; la convivenza necessaria/utilitaristica (di chi aspetta un divorzio o di chi non vuole perdere i vantaggi pensionistici di un precedente matrimonio); la convivenza come libera scelta per una vita di relazione dinamica (direbbero loro) o disordinata (direbbe la Bibbia).
In Italia, analizza il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, il 40% delle convivenze è di tipo prematrimoniale. Il dato non rassicura, né tutto sommato consola.
Anche perché la Pastorale familiare della Cei – organo ufficiale della chiesa cattolica – sorprende rivelando che «ci sono punte del 70 per cento di coppie che chiedono il matrimonio in Chiesa e che sono già conviventi».
Naturalmente ci sono sempre state coppie che desiderano sanare la propria posizione religiosa in fatto di matrimonio, ma di fronte a una percentuale così elevata non si può non chiedersi quali siano i valori e quale visione della vita la chiesa cattolica e le chiese cristiane in generale – riescano a trasmettere ai giovani.
Chiamiamola assenza di valori, chiamiamola paura del futuro, chiamiamola influenza malata di una società che si finge laica e si dimostra laida: il quadro è preoccupante.
In merito alla questione, una frase di De Rita è significativa e invita – forse inconsapevolmente – a una doppia lettura. Il fondatore del Censis segnala che i Dico si sono arenati perché «non c’è pressione sociale per una regolazione delle convivenze». Insomma, alla gente non interessa, e non preme sui politici per creare una nuova formula di tutela legale per le coppie di fatto.
La frase di De Rita, però, vale anche in una prospettiva etica: se la situazione è questa, è perché la società ha ormai accettato pacificamente la convivenza; è normale decidere di effettuare un test prematrimoniale, è normale finire sotto lo stesso tetto mentre si attende lo scioglimento legale di una unione precedente, è normale percepire emolumenti che, in caso di una nuova unione (di fatto o di diritto) non spetterebbero più.
Probabilmente nessun cristiano coerente intraprende consapevolmente una di queste opzioni.
Ma, allo stesso tempo, praticamente nessuno ormai si sogna di inarcare un sopracciglio obiettando agli amici che, cristianamente parlando, il matrimonio richiede senso di responsabilità nell’approccio, o che la frenesia di inaugurare una nuova relazione prima ancora di chiudere la precedente non risponde ai parametri etici di un cristiano, o che mantenere un diritto economico scaduto significa frodare lo Stato.
Certo, tutto questo è assolutamente “normale” per una società che non ha più punti di riferimento morali ed etici.
Ciò che preoccupa di più è che, ormai, tutto questo suona normale anche per noi.
Quel futuro che non arriva
I conservatori inglesi si fanno combattivi: motivo del contendere, nientemeno che il futuro della società, messo in pericolo dalla crisi della famiglia. Si divorzia troppo e ci si sposa poco, questo in sintesi il pensiero dei Tory, e questo comporta una società sempre più frammentata, che alleva bambini sempre più disorientati da genitori ondivaghi dalla vita sentimentale sempre più provvisoria.
Anche a non voler dare troppo credito alle parole dei conservatori, sono sotto gli occhi di tutti le cronache che parlano di una Gran Bretagna assediata da gang di adolescenti ribelli, mentre le gravidanze sono in aumento tra le giovanissime; ora si aggiungono anche bambini che vengono cacciati in numero sempre maggiore (nell’ultimo anno addirittura quattrocento) dagli asili in quanto risultano ingestibili.
Le soluzioni adottate? Coprifuoco serale per i minorenni; somministrazione di anticoncezionali alle tredicenni; psicologi e cure per l’iperattività agli enfant terrible. In una parola: palliativi.
Non esiste cura senza diagnosi. E la diagnosi nessuno ha il coraggio di stilarla. D’altronde c’è da capirlo: ammettere il fallimento della propria teoria educativa è difficile. È difficile riconoscere che non ha funzionato l’idea di tirare su una generazione senza rispetto per le regole e le persone – tantomeno per le autorità -, senza valori e principi, senza limiti e paletti.
Di correre ai ripari non sembra esserci la minima intenzione: i paladini dell’anarchia infantile continuano imperterriti per la propria strada, atteggiandosi a piccoli Galilei incompresi e maltrattati; in attesa che la storia dia loro ragione proseguono i loro esperimenti contro ogni evidenza e continuano a tacciare di moralismo chi solleva qualche obiezione al loro metodo.
Con la superiorità di chi è convinto di incarnare il progresso discettano, si lanciano in improbabili distinguo, si arroccano dietro al comodo concetto di fatalità di fronte a vicende che, invece, sarebbero state più che prevedibili.
Accettare un presente di sacrifici come dazio per un futuro radioso è comprensibile e accettabile. Purché, nel cammino, non ci si lasci accecare dall’ideologia.