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L'egoismo che uccide
Nei giorni scorsi i giornali hanno raccontato la notizia del panettiere di Sanremo rimasto oltre quattordici ore in coma sulle scale prima che qualche vicino di casa si degnasse di soccorrerlo.
Era lì, rannicchiato sul pianerottolo, dopo che una caduta gli aveva provocato un trauma cranico; tutti i coinquilini però – e ne sarà passato qualcuno, nel corso della giornata – hanno creduto, o hanno voluto credere, che fosse ubriaco.
Sul Corriere Isabella Bossi Fedrigotti commentava lamentando l’indifferenza, “la nuova malattia” che non è “solo un malessere minore” o “un secondario tic”; riflette sul fatto che probabilmente «almeno una ventina di persone, se non di più, quante, cioè, abitano sopra il primo piano, rientrando la sera o uscendo la mattina, abbiano dovuto letteralmente scavalcare il corpo», e conclude che, italiani o extracomunitari che fossero, «le regole del vivere civile si stanno appannando un po’ per tutti».
Ha ragione, ma forse sarebbe necessario aggiungere un elemento su cui non ci si è soffermati.
Probabilmente capita a tutti, quotidianamente e in qualsiasi città, di imbattersi in persone sedute per la strada, distese ai giardini, assopite nelle stazioni, accucciate sotto i portici. Talvolta, nel fissarli, sorge davvero qualche dubbio sulla loro sorte: sono solo appisolati, oppure hanno avuto un malore? Stanno smaltendo i postumi dell’ebbrezza alcolica, oppure hanno perso i sensi per qualche ragione più seria?
Nel dubbio, spesso ci limitiamo ad andare avanti; talvolta allertiamo qualche agente di polizia o telefoniamo al 118.
Non ci permettiamo azioni più marcate per non sembrare fuori luogo: il comune sentire – quel senso di cui giorno dopo giorno stiamo perdendo la funzionalità – ci insegna che è abbastanza normale, per giovani e meno giovani, bivaccare sul sagrato di una chiesa, o stendersi su una panchina a riposare.
E nessuno si permetta di invocare la buona creanza, un’anticaglia che suscita sorrisi di compassione al solo nominarla: d’altronde, ci si sentirà rispondere, cosa ci sarà mai di male nel distendersi su una panchina, sedersi per terra, intralciare con l’auto in seconda fila il percorso degli altri? Sono gesti entrati nella quotidianità egoista di tutti noi: chi, di fronte a uno di questi gesti, provasse a chiedere “ha bisogno d’aiuto?” verrebbe preso a male parole.
Sarà solo una questione di regole e di formalità superflue, ma qualche anno fa era più semplice capire se qualcuno si trovasse in difficoltà.
Oggi che l’abito non fa il monaco, non si distingue il vero dal finto povero. Oggi che la chirurgia estetica fa miracoli, non si distingue il vero dal finto giovane. Oggi che la sciatteria dei comportamenti regna sovrana in ogni piccolo gesto, non si distingue il vero dal finto malato.
Ci si ride su, almeno fino a quando le conseguenze non si fanno letali. E a quel punto, amaramente, dobbiamo constatare come la coperta che ci siamo cuciti a misura del nostro egoismo sia troppo corta perfino per un’esistenza individualista come la nostra.
L’egoismo che uccide
Nei giorni scorsi i giornali hanno raccontato la notizia del panettiere di Sanremo rimasto oltre quattordici ore in coma sulle scale prima che qualche vicino di casa si degnasse di soccorrerlo.
Era lì, rannicchiato sul pianerottolo, dopo che una caduta gli aveva provocato un trauma cranico; tutti i coinquilini però – e ne sarà passato qualcuno, nel corso della giornata – hanno creduto, o hanno voluto credere, che fosse ubriaco.
Sul Corriere Isabella Bossi Fedrigotti commentava lamentando l’indifferenza, “la nuova malattia” che non è “solo un malessere minore” o “un secondario tic”; riflette sul fatto che probabilmente «almeno una ventina di persone, se non di più, quante, cioè, abitano sopra il primo piano, rientrando la sera o uscendo la mattina, abbiano dovuto letteralmente scavalcare il corpo», e conclude che, italiani o extracomunitari che fossero, «le regole del vivere civile si stanno appannando un po’ per tutti».
Ha ragione, ma forse sarebbe necessario aggiungere un elemento su cui non ci si è soffermati.
Probabilmente capita a tutti, quotidianamente e in qualsiasi città, di imbattersi in persone sedute per la strada, distese ai giardini, assopite nelle stazioni, accucciate sotto i portici. Talvolta, nel fissarli, sorge davvero qualche dubbio sulla loro sorte: sono solo appisolati, oppure hanno avuto un malore? Stanno smaltendo i postumi dell’ebbrezza alcolica, oppure hanno perso i sensi per qualche ragione più seria?
Nel dubbio, spesso ci limitiamo ad andare avanti; talvolta allertiamo qualche agente di polizia o telefoniamo al 118.
Non ci permettiamo azioni più marcate per non sembrare fuori luogo: il comune sentire – quel senso di cui giorno dopo giorno stiamo perdendo la funzionalità – ci insegna che è abbastanza normale, per giovani e meno giovani, bivaccare sul sagrato di una chiesa, o stendersi su una panchina a riposare.
E nessuno si permetta di invocare la buona creanza, un’anticaglia che suscita sorrisi di compassione al solo nominarla: d’altronde, ci si sentirà rispondere, cosa ci sarà mai di male nel distendersi su una panchina, sedersi per terra, intralciare con l’auto in seconda fila il percorso degli altri? Sono gesti entrati nella quotidianità egoista di tutti noi: chi, di fronte a uno di questi gesti, provasse a chiedere “ha bisogno d’aiuto?” verrebbe preso a male parole.
Sarà solo una questione di regole e di formalità superflue, ma qualche anno fa era più semplice capire se qualcuno si trovasse in difficoltà.
Oggi che l’abito non fa il monaco, non si distingue il vero dal finto povero. Oggi che la chirurgia estetica fa miracoli, non si distingue il vero dal finto giovane. Oggi che la sciatteria dei comportamenti regna sovrana in ogni piccolo gesto, non si distingue il vero dal finto malato.
Ci si ride su, almeno fino a quando le conseguenze non si fanno letali. E a quel punto, amaramente, dobbiamo constatare come la coperta che ci siamo cuciti a misura del nostro egoismo sia troppo corta perfino per un’esistenza individualista come la nostra.
La fede di Jordin
Jordin Sparks, vincitrice di American Idol (la versione americana di X Factor), rivela a sorpresa una notevole sensibilità spirituale. In una recente intervista rilasciata al settimanale Panorama ha dichiarato: «I miei genitori mi hanno insegnato la disciplina, mio padre è stato un atleta professionista e con lui non si scherza, e a fare del bene: la mia famiglia appartiene alla Chiesa evangelica e io sono una cristiana fervente».
E, nel concreto, ha aggiunto: «Ringrazio Dio ogni mattina e ogni sera per i doni che ricevo e indosso l’anello della purezza: desidero arrivare vergine al matrimonio».
Niente da dire: leggendo le dichiarazioni dei suoi omologhi italiani – ossia dei credenti con l’ambizione di una carriera artistica di alto livello in campo secolare – la differenza è notevole. E il paragone si fa tristemente impietoso.
Preferisco di no
Lug 21
Pubblicato da pj
È mancato venerdì sera Walter Cronkite, colonna del giornalismo televisivo statunitense. Nato nel 1912, era stato per sei decenni «l’uomo di cui gli americani avevano più fiducia, col suo approccio diretto, con le sue parole misurate, con la sua voce profonda che gli conferivano una autorevolezza senza precedenti nel mondo dei media».
Il culmine della sua carriera è stata la conduzione per quasi vent’anni (dal 1962 al 1981) del notiziario serale della CBS, ruolo che lo aveva consacrato anchorman di punta: fu lui ad annunciare la morte di Kennedy e lo sbarco sulla luna.
L’America si è commossa di fronte alla sua dipartita, e non solo perché era un grande comunicatore. «La grande forza di Walter Cronkite – ha ricordato il suo collega Brian Williams – era di essere la stessa persona davanti alla telecamera o fuori dallo studio. Una persona onesta e diretta che andava sempre al sodo, senza tanti fronzoli. Un modo di fare che piaceva agli americani».
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