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Telecomandi e telecomandati

Gli adolescenti che esagerano con tv e internet sono più problematici degli altri: lo rivela una ricerca della Società italiana di pediatria, che nei giorni scorsi ha reso pubblici i risultati di un’indagine condotta su 1300 studenti tra i 12 e i 14 anni.

Se Internet, con i suoi social network, i messaggi istantanei e le chat, è ormai un must per i teenager, la tv è tornata in auge dopo un periodo di minore attenzione: i ragazzi navigano in rete e si fanno compagnia con la tv. Ma non, come si potrebbe pensare, mentre chattano con gli amici: la televisione, per la maggior parte di loro, si accende alla sera, a cena. Quando, probabilmente, sono lasciati soli da genitori troppo presi dal lavoro, o sono in loro compagnia ma hanno, evidentemente, poco da dire e all’assordante silenzio di una tavola senza parole preferiscono lo sciapo sottofondo di un programma.

Un quadro sconsolante, che offre alcuni dati interessanti. Internet, ormai, è il mezzo di interazione più gettonato, ma la televisione resta ben presente nel loro immaginario: la guardano a cena, ma anche direttamente sullo schermo del pc, attraverso i filmati che quasi tutti scaricano dalla rete.

Se per loro la rete è il mondo di relazione, la televisione è maestra di vita: attraverso i suoi programmi assorbono valori e trovano battaglie da combattere, atteggiamenti da sostenere, mode da seguire, guru da ascoltare, personaggi da imitare.

Se il consumo resta nella modica quantità, la televisione sarà solo una delle voci, e attraverso il confronto i ragazzi potranno trovare una posizione equilibrata. Quando però la fruizione deborda oltre il buonsenso e la televisione diventa l’unica voce, il suo universo invade l’immaginario dello spettatore: può succederci allora di fare nostri i suoi valori, di chiamare i personaggi televisivi per nome, di scambiare gli amici con i protagonisti dei talk show, di dare credito a chi non lo merita, di crearci un mondo di immagini, egoismi e consumi dove le parole d’ordine sono “prenditi cura di te”, “tutto intorno a te”, “perché io valgo”, e via degradando.

Si fa presto a dire “a me non succede”, “posso smettere quando voglio”. La dipendenza è sempre in agguato e il rischio, ancora più grave in quanto subdolo, non è di perdere la salute, ma la consapevolezza di ciò che conta. Che, a ben guardare, è anche peggio.

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Se anche Bill dice basta

Se si è stufato lui, figurarsi noi. Bill Gates, fondatore dell’informatica di consumo, autore dei programmi e dei problemi dei nostri computer, annuncia la sua decisione di lasciare Facebook: il suo profilo sul social network più diffuso al mondo, infatti, era diventato ingestibile, con le diecimila richieste di amicizia che lo hanno raggiunto.

«Mi sono reso conto che si trattava di un’enorme perdita di tempo… Era diventato ingestibile, alla fine ho dovuto rinunciare» ha spiegato.

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Bulimia spirituale

Scrive Repubblica che, in base a una ricerca di Visual Networking Index realizzata da CiscoSystems, «La giornata online dura 36 ore»: infatti “calcolando le operazioni compiute simultaneamente, il tempo della Rete risulta più lungo di quello reale”.

Eccoci qua: i nostri genitori si lamentavano che una giornata avesse solo 24 ore, i loro figli hanno ovviato all’inconveniente (anche se un giorno dovranno spiegarci perché la natura debba essere vista sempre come una inevitabile limitazione, anziché come un contesto adeguato in cui vivere).

La tecnologia moltiplica le opportunità, dilata la giornata, aggiunge tempo al tempo. Tempo virtuale, beninteso, non reale: ma sarà sorprendente, per chi ha vissuto qualche anno della sua vita nell’era pre-computer, fermarsi a riflettere su quanto sia cambiato il nostro modo di vivere.

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Parole a vuoto

Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.

Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».

Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.

Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.

In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.

Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.

Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.

«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.

A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.

Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.

Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.

Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.

Così vicini, così lontani

In un sondaggio riportato su Repubblica si indaga sul vicino insopportabile. I comportamenti condominiali più fastidiosi? Tutti detestano la spazzatura lasciata sul pianerottolo, ma poi «per gli uomini quell’auto parcheggiata fuori dalle linee dal vicino di casa è una delle cose più fastidiose, mentre quelle piccole e insidiose bricioline che fanno tanto felici gli uccellini sul nostro balcone scatenano le ire delle donne, soprattutto quando cadono dal terrazzo della “nemica” del piano di sopra».

Dà fastidio (a tutti) anche l’invasione della propria sfera personale, favorita dalle «pareti extrasottili di cui in genere sono fatti i nostri appartamenti», a causa delle quali «il problema non è solo quello della sveglia del vicino che fa turni di notte e ti fa sobbalzare alle 3 del mattino ma, diventa più imbarazzante, quando si tratta di aspetti più intimi».

Il vicino ideale? Sicuramente non è uno studente, ma piuttosto un anziano; allo stesso tempo si predilige un vicino impiccione che dia un’occhiata alla casa quando si è assenti, ma non si disdegna nemmeno «il vicino “viaggiatore” che lascia sempre libero il posto auto».

Insomma, ricapitolando e ampliando: il vicino ideale è quello che ti controlla la casa ma non c’è mai; è abbastanza giovane per aiutarti a portare su un mobile ma abbastanza anziano da non portare a casa amici; sordo, in modo da non farsi gli affari nostri, ma non tanto da tenere alto il volume del televisore; simpatico, ma invisibile; single e taciturno, ma con una famiglia che all’occorrenza faccia un po’ di compagnia; disponibile ma discreto; cuoco per invitarci a cena, ma che non cucini per non invaderci con gli effluvi dei suoi piatti.

Lui deve essere così. Noi, invece, dobbiamo mantenere il diritto a urlare per le scale, tenere alto il volume dello stereo e delle litigate, avere figli rumorosi, essere scontrosi quando la luna è calante e invadenti quando è crescente, assenti quando si tratta di dare ma presenti quando c’è da ricevere.

È evidente che il nostro vicino ideale non esiste. E, se esiste, non ci somiglia per niente.

La triste realtà, infatti, è che noi stessi siamo molto lontani dal nostro ideale di vicino. Anzi: forse, mettendoci una mano sulla coscienza, potremmo concludere che nessuno, potendo scegliere, ci vorrebbe come dirimpettai.

Considerando che la prima testimonianza della nostra fede cristiana non è la predicazione ma il comportamento, non c’è molto da stare allegri.

Forse allora, prima di giudicare i comportamenti altrui, dovremmo fermarci e riflettere sul nostro.

«Fai al tuo vicino quello che vorresti lui facesse a te». Non lo ha detto un amministratore di condominio, ma Gesù.

Astinenza, questa sconosciuta

In questi giorni, inevitabilmente, si parla molto di quaresima, quel tempo di penitenza che precede la Pasqua.

Si tratta di un uso tipicamente cattolico, che viene aggiornato generazione dopo generazione tentando di farlo restare al passo con i tempi: se ieri la penitenza consisteva nella rinuncia alla carne (in tutti i sensi), oggi ci si impegna a cercare nuove formule per dare un significato pregnante al periodo anche per i più giovani.

Nasce così la proposta di un “digiuno tecnologico” fatto di astinenza dagli sms (almeno di venerdì santo, chiede la curia di Modena), una proposta contestata nello stesso ambiente cattolico per l’accostamento tra tecnologia e divertimento che non sarebbe invece così scontato: «Se i messaggini sono un corretto modo di comunicare, perché ce ne dobbiamo privare?» chiede, tra gli altri, il direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian.

Da sempre l’ambiente evangelico vede in chiave molto critica il concetto di penitenza per una questione dottrinale di fondamentale importanza: biblicamente parlando, infatti, non è attraverso la nostra sofferenza o i nostri meriti che possiamo venire salvati, ma per il sacrificio unico e irripetibile di Gesù Cristo, che ha pagato per i nostri peccati morendo sulla croce.

Questa certezza dottrinale ha messo in una luce equivoca qualsiasi forma di astinenza, vista paradossalmente non come una forma di spiritualità, ma come un comportamento religioso sospetto.

Eppure, di suo, l’astinenza non è sbagliata. È sbagliato imporla dall’alto ed è sbagliato fossilizzarsi in un obbligo, trasformando un gesto d’amore verso Dio in un vuoto obbligo formale portato avanti per tradizione.

Però, allo stesso tempo, potrebbe essere significativo darsi un’occasione per consolidare il proprio rapporto spirituale con Dio. E questa occasione potrebbe essere più o meno casuale, o un periodo dell’anno significativo. O magari, avendone la costanza, potrebbe essere un percorso continuo di crescita spirituale.

Anche online? Perché no.
In questi giorni un sito dedicato alle nuove tecnologie ha offerto un “Decalogo per la Quaresima online” tra il serio e il faceto. Parafrasandolo, potremmo trovarci alcuni spunti interessanti.

1. Iscriviti ad una newsletter di argomento spirituale.

2. Naviga quando puoi nel canale cristiano.

3. Manda un sms a un amico con testo: “Gesù ti ama, parliamone”

4. Telefona a tua mamma e a tuo papà solo per dire loro: “TVB”

5. Invia almeno un sms solidale per beneficenza a settimana.

6. Aderisci all’impegno di chi si occupa dei cristiani perseguitati.

7. Insegna quel che sai sull’uso del pc e della rete a un anziano.

8. Copia e incolla un passo del Vangelo e invialo via email a un amico.

9. Invia un’email ai responsabili della comunità che frequenti (pastore, anziani) e di’ loro come vorresti che fosse la chiesa.

10. Soprattutto, diventa fan di Gesù. E non solo su Facebook.

Magnifico architetto

Far riflettere con una battuta? Si può.

Per esempio con uno spot ironico e significativo come questo, realizzato da un promettente grafico cristiano.

national-geographic

Incertezze salutari

In Gran Bretagna gli atei sono partiti alla riscossa qualche mese fa con una serie di spot sui bus: una campagna che ora si allarga ad altri Paesi d’Europa, ma non senza qualche piccola delusione.

Succede in Spagna, per esempio, dove l’iniziativa atea è stata presa in contropiede dai cristiani: anticipando l’intenzione delle associazioni atee di “vestire” alcuni autobus con uno spot agnostico (“Probabilmente Dio non esiste, quindi smettila di preoccuparti e goditi la vita”), una piccola chiesa evangelica ha racimolato la somma necessaria per lanciare con le stesse modalità il messaggio “Dio sì che esiste: godi della vita in Cristo”.

Il bus “cristiano” ha cominciato a circolare per Madrid a Natale: il pastore evangelico Paco Rubiales, spiega Il Giornale, «ha deciso di investire le offerte domenicali dei suoi 75 fedeli per fare opera evangelica con un chiaro messaggio».

Due modi diversi di vedere il mondo:  un’incertezza (“Probabilmente Dio non esiste”) contro una certezza (“Certo che Dio esiste”). Un messaggio egoista (“goditi la vita”) contro un messaggio che invita al senso di responsabilità (“godi la vita in Cristo”). Un messaggio edonista contro un messaggio di speranza.

Come già si diceva, suona decisamente paradossale che proprio gli atei invitino a non ricercare certezze, ritirandosi in buon ordine dietro a un rassegnato “probabilmente”: proprio loro, che non credono se non vedono, che non muovono un passo senza la sicurezza incontrovertibile di un test scientifico, che irridono i cristiani per quella sicurezza irrazionale chiamata fede.

Eppure il confronto spagnolo tra atei e cristiani a colpi di bus offre un altro spunto di interesse, e permette qualche considerazione positiva su entrambi i fronti. Il portavoce degli atei dichiara che l’obiettivo di questa iniziativa è «far pensare chi non è molto credente e dargli un appoggio»; il pastore Paco Rubiales «confessa che con la campagna evangelica vuole arrivare “ai non cristiani o ai cristiani addormentati”».

È curioso notare che gli intenti delle due campagne, agli antipodi per il messaggio comunicato, sono pressoché identici: con i loro spot sia gli atei, sia i cristiani desiderano risvegliare le coscienze e il senso di responsabilità, mettere le persone di fronte alla propria condizione e alle proprie preoccupazioni, rispolverare le domande sopite, riportare in primo piano i dubbi messi da parte per lasciare spazio al miraggio di una vita piena di vuoto.

E si sa, per riflettere seriamente c’è chi ha bisogno di una scossa (“Dio non esiste”) e chi di una speranza (“Dio esiste”).

In questo senso non è detto che la seconda soluzione sia più efficace della prima: demolire le proprie false certezze (“credo davvero in Dio o sono un ipocrita?”) può essere salutare, nell’ottica di una ricerca spirituale.

La provocazione della campagna atea potrebbe quindi portare ben lontano da facili edonismi, spingendo invece i madrileni alla ricerca di una soluzione a quel “probabilmente”: se il messaggio aiuterà gli spagnoli a confrontarsi onestamente con se stessi e a cercare la Risposta, la campagna atea potrebbe dare frutti inaspettati.