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Slow word
Nel presentare la nuova edizione del Salone del libro, il direttore Ernesto Ferrero sulla Stampa ha voluto riflettere non solo sull’importanza della lettura e sui contenuti, ma anche sul “come”: leggere non è un’attività banale, o almeno non dovrebbe esserlo, e per questo è importante tenere in considerazione i contenuti ma anche il metodo. Ferrero, richiamando la fortunata esperienza di Slow food (presente peraltro al Salone con un suo stand), ha preso in prestito una definizione del massmediologo Derrick De Kerkchove per parlare di “slow word”: parola lenta.
Assenze ingiustificate
«Introdurre nelle scuole italiane, pubbliche e private, un’ora di religione islamica, facoltativa e alternativa a quella cattolica»: venerdì scorso in Veneto il sottosegretario Adolfo Urso ha spiazzato tutti con una proposta sorprendente che, c’era da aspettarselo, è diventata il tormentone del fine settimana.
La proposta nasce con un obiettivo ragionevole: «evitare di lasciare i piccoli musulmani “nei ghetti delle madrasse e delle scuole islamiche integraliste”», arrivando a un insegnamento moderato, impartito nelle scuole pubbliche da insegnanti “riconosciuti”.
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Soluzioni trascurate
Si chiama papilloma ma, dietro al nome rassicurante, si nasconde un virus. Si tratta di una infezione che causa il tumore al collo dell’utero. Per prevenire la malattia in Gran Bretagna è stata stabilita la vaccinazione semi-obbligatoria (“fortemente raccomandata”) di tutte le ragazze tra i 12 e i 15 anni, che viene somministrata direttamente a scuola.
Proprio in seguito a questa azione di profilassi, però, una ragazza di 14 anni ha perso la vita. Si tratta del primo caso, causato forse da “una reazione rara al vaccino”, o a “qualche condizione medica preesistente”.
Luca, Povia e la polemica inutile
Il brano di Povia? Tanto rumore per nulla, avrebbe sintetizzato Shakespeare.
Per chi non fosse al corrente delle vicende sanremesi, in questi mesi si è fatto un gran parlare di Giuseppe Povia, giovane (ma non giovanissimo) cantautore di moderata ispirazione cristiana, portatore di una salutare vis polemica capace di far riflettere chi lo ascolta.
Lanciato da Bonolis qualche anno fa fuori concorso con la celebre “I bambini fanno ooh”, è tornato a Sanremo l’anno successivo cantando “Vorrei avere un becco”, inno all’amore coniugale che, quando è maturo, sa superare con disincanto le difficoltà.
Povia quest’anno è tornato a Sanremo con un brano dal titolo scioccante: “Luca era gay”. Prima di sentire una sola nota, e perfino prima di aver letto il testo (diffuso solo nei giorni scorsi), l’Arcigay ha scatenato una violenta polemica, tacciando l’artista di omofobia per aver parlato di “guarigione” dalla condizione omosessuale.
Martedì sera verso mezzanotte, finalmente, il momento della verità. Povia sale sul palco e propone un brano dal testo molto poco scandaloso. O, almeno, molto meno volgare degli eccessi riscontrati alle parate di settore.
Nel testo il protagonista del brano precisa: «questa è la mia storia, solo la mia storia/ nessuna malattia, nessuna guarigione».
Un messaggio chiaro, che disinnesca di fatto buona parte delle polemiche sviluppate sul nulla di un’ipotesi.
L’ascolto però non è bastato a sgonfiare il caso. Né è bastato a rabbonire Grillini, presidente onorario dell’Arcigay, che in sala ha avuto modo di dissentire dapprima a gesti – enfatizzati ampiamente dall’occhio attento delle telecamere – e poi con un intervento vero e proprio.
A guardare la serata nel suo complesso, pare quasi si sia voluto creare attorno a Povia un cordone sanitario: verso le 23 Benigni ha voluto chiudere il suo exploit con un richiamo alla dignità di ogni tipo di affettività, recitando una lettera di Oscar Wilde; poi, una volta terminato il brano di Povia, è stato l’onorevole Grillini a chiedere la parola per un commento sviluppato con garbo e concluso purtroppo rinfocolando la stanca polemica.
Curiosamente il caso Povia è stato costruito sul nulla, ma ci hanno guadagnato tutti: l’Arcigay, che ha guadagnato altra visibilità; il cantante, che fino all’ultimo ha mantenuto il riserbo sul testo dando la stura a una ridda di ipotesi sui contenuti del brano; e ci ha guadagnato ovviamente Bonolis, bravo a costruire, montare e mantenere una storia nella storia capace di catalizzare l’attenzione del pubblico, con ripercussioni positive sugli ascolti televisivi.
Mentre il caso mediatico si avvia alla conclusione, la polemica offre lo spunto per una constatazione. Sul metodo, più che sul merito.
Ormai è assodato: non si può uscire dal coro per esprimere posizioni non convenzionali, su qualsiasi differenza e minoranza, senza il rischio di passare per razzisti.
Forse è vero che la normalità non esiste, o quantomeno che ormai è solo una tra le tante minoranze. Se è così, però, non si può non notare che si tratta dell’unica minoranza a non avere il diritto di esprimere liberamente i propri pensieri, i propri timori, i propri valori.
Sarà anche una questione libertà. Ma suona tanto come un paradosso.
Altro che spot
Il recente rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione ha proposto interessanti riflessioni relative ai nuovi mezzi e alle modalità d’uso.
Come segnala il quotidiano Avvenire, si è scoperto che i giovani “divorano tutto quello che è comunicazione”, con un “nomadismo mediatico disincantato”. Spesso non trovano quel che cercano, e questo li porta a essere particolarmente versatili sul fronte della cross-medialità: si trovano a loro agio con Internet, cellulare, tv, ma anche radio, quotidiani e perfino con i libri, che hanno ripreso a leggere con un certo ritmo.
In generale si è riscontrata una scollatura tra gusti degli utenti e proposte dei media, che non si sanno adeguare in particolare alle esigenze dei giovani.
Il fruitore del Ventunesimo secolo esige contenuti sempre più personalizzati: dopo la fase adolescenziale di omologazione, dai 19 anni “si registra un aumento dell’individualismo nella fruizione dei media”, e questo si scontra con i mezzi di comunicazione che invece non hanno “alcuna reale percezione di quello che i giovani desiderano”.
L’unico settore che è stato capace di fiutare il vento e adattarsi, riposizionandosi con proposte adatte al nuovo contesto, è stato quello della pubblicità: sempre più precisa, sempre più personalizzata, e nel futuro lo spot si preannuncia “sempre più capillare, targhettizzante, pervasivo”.
Forse a volte dovremmo prendere esempio da ciò che di buono la pubblicità insegna. Non ci riferiamo, naturalmente, alla tendenza della pubblicità a banalizzare e semplificare il messaggio in maniera impropria o fuorviante: ma non possiamo non riconoscere ai guru della réclame una capacità di adattamento, una creatività, una sensibilità nell’anticipare i tempi e le tendenze, nello scoprire i mezzi più adatti, nel proporre il messaggio nella maniera più efficace per il singolo utente.
Nel corso dei decenni i pubblicitari hanno affinato in maniera sorprendente la capacità di fare comunicazione di massa pur tenendo conto delle categorie, dei target, delle necessità, degli interessi specifici. In poche parole: la capacità di raggiungere tutti, ma uno per uno.
Visto un tanto, considerarli con sufficienza semplici “venditori” sarebbe riduttivo, oltre che spregiativo, e testimonierebbe l’incapacità di applicare, o anche solo di cogliere, questioni essenziali con le quali ogni buon comunicatore – dal giornalista al documentarista, dal missionario alla chiesa – deve dominare per raggiungere il proprio obiettivo.