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Rimedi per il rientro
E rieccoci alla sindrome da rientro: un italiano su dieci soffrirebbe della tristezza post-vacanza, tanto da ritrovarsi a scontare per qualche settimana emicranie, ansia, mal di gola, difficoltà a digerire, disturbi intestinali.
La Stampa, per venire incontro alle esigenze dei lettori (il dieci per cento, se la statistica citata poco fa è corretta: non pochi, quindi), dedica una pagina ai possibili rimedi: spiccano i consigli del Gruppo Sanitario Policlinico di Monza, che – evidentemente commosso dalla diffusione del disagio – ha stilato «sette regole di auto-aiuto che vanno dalla dieta (frutta, verdura, acqua e addio pizza), al look (“vestite casual i primi giorni, per non avere subito il trauma dell’uniforme giacca-e-cravatta”), dal moto (passeggiate, bicicletta), al piccolo trucco di tornare in città un po’ prima per fare decompressione».
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Se la truffa è l'unica speranza
Una zingara di origini slave di 28 anni è stata arrestata «per aver truffato una signora convincendola a consegnarle 50mila euro in cambio di un aiuto “ultraterreno”».
La nomade, racconta Il Giornale, «ha avvicinato la sua vittima, una brianzola di 50 anni, sul piazzale di un centro commerciale di Monza. La donna le aveva raccontato i suoi guai (un figlio trentenne gravemente malato, un matrimonio a pezzi, un fratello morto da poco per un male incurabile). Un racconto disperato, ma non così tanto da inibire le smanie della nomade, che è riuscita in più riprese a persuaderla circa un suo “intervento” e, soprattutto, a farsi quindi consegnare il denaro necessario per ottenere una “grazia”».
Se la truffa è l’unica speranza
Una zingara di origini slave di 28 anni è stata arrestata «per aver truffato una signora convincendola a consegnarle 50mila euro in cambio di un aiuto “ultraterreno”».
La nomade, racconta Il Giornale, «ha avvicinato la sua vittima, una brianzola di 50 anni, sul piazzale di un centro commerciale di Monza. La donna le aveva raccontato i suoi guai (un figlio trentenne gravemente malato, un matrimonio a pezzi, un fratello morto da poco per un male incurabile). Un racconto disperato, ma non così tanto da inibire le smanie della nomade, che è riuscita in più riprese a persuaderla circa un suo “intervento” e, soprattutto, a farsi quindi consegnare il denaro necessario per ottenere una “grazia”».
Samaritani o sacerdoti
Mar 31
Pubblicato da pj
«Sono centinaia – racconta Il Giornale – le telefonate che arrivano al cellulare del signor Giampiero Cerizza, più noto come il “marito in affitto“. Proprio così, avete letto bene. Di Monza, 59 anni, dopo aver chiuso la carrozzeria, ha pensato di sfruttare la sua abilità manuale e di mettere in piedi una società di servizi per aiutare le donne nelle commissioni e nei piccoli lavori di casa che mariti o compagni non hanno più voglia di fare. Una vera e propria agenzia, insomma, con tanto di sito internet, numero verde e una rosa di collaboratori».
Le richieste sono in media di 150 al mese, duemila all’anno, e il signor Cerizza fatica a starci dietro: ripara persiane, appende quadri, accompagna a fare la spesa e così via, al costo di 15 euro l’ora o giù di lì.
Ma non solo: «Ci sono le signore più anziane che vogliono soltanto un po’ di compagnia e il rubinetto che perde è soltanto una scusa per fare quattro chiacchiere. Per loro la felicità è non sentirsi sole».
Il signor Cerizza non supplisce solo alla mancanza di tempo di mariti e compagni, ma anche alle smagliature di una società che è sempre più connessa e, allo stesso tempo, fa sentire ogni giorno più soli.
Dover mendicare un po’ di compagnia sotto le mentite spoglie di un bisogno pratico significa non avere amici, parenti, nipoti. O averli, ma lontani o insensibili a una richiesta di aiuto che spesso non arriva esplicita, ma attraverso la dignità di una generazione che sa ancora cosa sia l’onore, il rispetto, la buona creanza.
Difficile però togliersi dalla testa che non ci sono solo i parenti.
L’anziano o la vedova che escono poco di casa e tentano di ricavare un po’ compagnia dai servigi di un simpatico tuttofare possono essere più vicini di quanto si creda. Possono essere, anzi, i nostri vicini.
Chissà quand’è l’ultima volta che ci siamo soffermati a chiedere loro come stiano, a commentare qualche banalità quotidiana, a elargire un sorriso e una parola di speranza di fronte agli acciacchi di un’età che incombe e, in molti casi, fa paura.
Quando sentiamo parlare di vicende estreme, come la morte solitaria di una anziana signora ritrovata dopo una settimana, alziamo le spalle, scuotiamo la testa e sospiriamo pensando “che società!”. Ma quella società siamo anche noi. E quella signora potrebbe essere anche la nostra vicina.
Sarebbe davvero triste non sapere, o non voler sapere, che chi ci sta vicino aveva bisogno di noi, e non ci siamo fermati accanto a lui perché i nostri impegni – di lavoro, di vita, e magari perfino di fede – non ce l’hanno consentito.
Impegni (sacro)santi, per carità.
Ma chissà se Gesù, di fronte a un comportamento simile, sarebbe fiero di vederci portare il suo nome. E chissà se gli altri, nel sentirci così distanti, vedrebbero davvero il suo amore in noi.
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