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Sorriso amaro

L’esperienza ci insegna che il sorriso è un sollievo per chi lo dona e per chi lo riceve.

Esiste, però, anche un sorriso sbagliato, fuori luogo. Come quello che la coppia Mogol-Battisti eternò in un celebre brano, e che descrive la fine di una relazione: “Un sorriso/ e ho visto la mia fine sul tuo viso/ il nostro amor dissolversi nel vento/ ricordo, sono morto in un momento”.

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Senza luce

A Pisa scoppia la polemica in occasione della festa del patrono, San Ranieri: “Candele obbligatorie per il santo, alle finestre buie multa di 500 euro”, titola oggi il Corriere.

Si tratta di un’ordinanza che il sindaco, Marco Filippeschi, ha emanato per illuminare il Lungarno in occasione della festa patronale, definita «una delle più suggestive della Toscana»: ottantamila ceri, domani sera, brilleranno sulle finestre delle case affacciatesul fiume.

La decisione ha sollevato un polverone, con «minacce di ricorsi al difensore civico, accuse di provvedimenti liberticidi e anche poco tolleranti nei confronti di altre religioni».

L’ordinanza, però, è chiara: obbliga i proprietari ad accendere i lumini, pena una multa piuttosto salata (dai 200 ai 500 euro). A controllare sarà una task force degna di migliore occupazione, composta da vigili urbani, carabinieri, poliziotti e finanzieri.

L’ordinanza prende le mosse nientemeno che dal pacchetto sulla sicurezza firmato dal ministro Maroni: «Abbiamo applicato l’articolo che prevede interventi in caso di degrado urbano – spiega l’assessore alle Manifestazioni storiche, Federico Eligi -. Il motivo? Purtroppo i buchi neri, ovvero i lumini spenti, nei palazzi dei lungarni per san Ranieri sono una vera e propria offesa all’estetica della città. In più, c’è anche un problema sicurezza. Il 16 notte in questa parte di Pisa si spegne completamente l’illuminazione pubblica e a rischiarare le strade sono solo i ceri».

Una spiegazione che, speriamo, sia pervasa quantomeno da un filo di consapevole ironia, visto che le motivazioni addotte potrebbero venir smontate con facilità da qualsiasi persona dotata di una logica.

Insomma: volenti o nolenti, credenti o miscredenti, i pisani con la fortuna di possedere una casa sul Lungarno, dovranno accendere un cero al patrono.

Sarebbe sicuramente esagerato scomodare vicende bibliche come la storia degli amici del profeta Daniele, obbligati a inchinarsi davanti alla statua dell’imperatore: il buonsenso ci impone di riconoscere che si tratta solo di un’iniziativa di carattere estetico, ancorché infelice e discutibile, proposta dall’amministrazione comunale.

In fondo non dovremmo nemmeno stupirci troppo: viviamo in un contesto cattolico, checché se ne dica, e le nostre città pullulano di riferimenti alla storia religiosa del nostro paese; sono già molti coloro che, ultimi arrivati, vorrebbero vedere abolire questi simboli, senza andare troppo per il sottile: ma si sa, l’estremismo non ha mai dato prova di delicatezza e nemmeno di ragionevolezza.

Non ha molto senso unirsi al coro dei novelli iconoclasti, anche se sicuramente alcuni dubbi sorgono.

Dubbi nei confronti di un’amministrazione di centrosinistra che sorprende: ci avevano spiegato che proprio quella era la casa del rispetto per le differenze, per le diversità, per le minoranze. E immaginiamo l’imbarazzo di chi, se la decisione fosse stata presa dalla giunta di un altro colore, avrebbe alzato giaculatorie contro l’ordinanza, e ora invece glissa con non chalance.

Ma sorgono dubbi anche nei confronti dei metodi: approfittare di una legge che si occupa di estetica delle città per imporre un obbligo dai risvolti così delicati – si tratta pur sempre di questioni religiose – dimostra poco tatto e un senso di opportunità politica poco sviluppato.

Come si diceva, non è il caso di farne una questione di principio né trarne fosche profezie. Spiace però che la giunta comunale di una città come Pisa non si renda conto dell’assurdità e della inopportunità di una simile scelta.

La credevamo una giunta illuminata. E invece, a quanto pare, il Lungarno pisano ha proprio bisogno di un po’ di luce.

Libertà in fumo

Vita dura per i fumatori di Belmont, cittadina californiana: scrive il Corriere che il 9 gennaio è entrato in vigore il divieto di fumare su tutto il territorio comunale. Ma il divieto non si limita, come si potrebbe pensare, ai luoghi pubblici, gli uffici, i parchi, le strade: l’amministrazione di Belmont è andata oltre, stabilendo che «è proibito consumare tabacco non soltanto in edifici e locali pubblici o nei luoghi di lavoro, ma anche in qualsiasi appartamento privato che abbia in comune un piano, un tetto o un muro con un altro. Insomma, a meno non abbiate dimora in una villa o in una costruzione isolata, non potete fumare neppure a casa vostra. Pena una multa fino a 100 dollari».

La decisione è stata presa dietro segnalazione di alcuni condomini (le liti di pianerottolo non sono prerogativa italiana, a quanto pare), che hanno lanciato in città una campagna di sensibilizzazione: «Motivo scatenante, il fumo proveniente dagli appartamenti confinanti, che passava da ogni fessura e impregnava le loro case… La protesta si era poi allargata, convincendo infine il City Council a scegliere la soluzione più ardita».

Chi non ha mai acceso una sigaretta ed è quasi allergico al fumo esulterà per questa sentenza: una sorta rivincita, dopo tante serate passate con gli amici e chiuse con gli occhi arrossati, il mal di gola e un fastidioso senso di inferiorità.

Eppure la decisione di Belmont non lascia tranquilli, perché non è solo una questione di fumo.

Fermo restando che la nostra libertà finisce dove comincia quella del vicino, è altrettanto vero che l’unico posto in cui possiamo godere una libertà assoluta, nei limiti della civiltà e del buonsenso, è casa nostra; lì, nel nostro enclave di riservatezza, possiamo comportarci senza i vincoli cui la visibilità pubblica ci obbliga.

Un’autorità pubblica entra nelle case con un divieto così drastico rischia di costituire un pericoloso precedente.

Oggi la decisione di Belmont risulta tutto sommato condivisa, perché suona solo come un intervento esagerato di fronte a un comportamento comunque fastidioso. In questo modo, però, passa il principio che l’interferenza pubblica è legittima anche nella sfera più privata e anche per questioni non vitali.

Oggi sul banco degli accusati c’è la libertà di fumare in casa propria, messa in dubbio da qualche vicino particolarmente sensibile al problema; domani potrebbe esserci la libertà di pregare o di leggere la Bibbia insieme alla propria famiglia, messa in discussione dalla sensibilità di chi, oltre alla parete divisoria, si sente offeso dalle certezze del cristiano.

Esagerazioni? Speriamo di sì. Ma temiamo di no.