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Un sos da Duisburg
Una manifestazione oceanica. Un milione e mezzo di persone, cinque volte più di quanto le strutture potessero reggere. Un’organizzazione inadeguata, affiancata da forze dell’ordine impreparate. Un momento di panico in un tunnel che fa paura a vederlo vuoto, figurarsi pieno. La strage è scaturita da queste premesse: venti giovani sono rimasti a terra, quattrocento hanno dovuto ricevere cure mediche.
La festa, con cinismo e realismo, è stata fatta continuare per evitare guai peggiori. Solo in seguito la cruda realtà è potuta irrompere nella vita di ragazzi giunti da mezza Europa per dimenticare il resto, ubriacati dal ritmo ossessivo della musica techno. E la festa si è tramutata in smarrimento, sgomento, tragedia.
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La solitudine dell’uomo telematico
A leggere il titolo di Repubblica, pare che sia arrivata l’apocalisse della rete: «Facebook sotto assedio: “Cancelliamoci tutti”».
Al centro delle polemiche c’è il sito più cliccato della rete, dove 400 milioni di internauti hanno creato una propria scheda e interagiscono con amici (veri, presunti o fittizi) raccontando senza riserve gusti, passioni, idee: un catalogo di vizi (molti) e virtù (poche) che ha fatto rabbrividire i garanti della privacy a ogni latitudine.
Consigli di lettura – 11
Legge, storia, avventura, musica, fede e attualità tra i consigli di lettura proposti questa settimana.
Si comincia con Carlo Azeglio Ciampi,che ha visto ripubblicata da Il Mulino la sua tesi di laurea concentrata su un titolo che ci riguarda da vicino: “La libertà delle minoranze religiose”. L’elaborato, riproposto a cura di Francesco Paolo Casavola, Gianni Long e Francesco Margiotta Broglio, è una ricerca che risale all’anno accademico 1945-46; il giovane Ciampi affronta l’argomento sotto la guida del professor Jannaccone mettendo in evidenza la luce in cui il diritto ecclesiastico italiano vedeva le minoranze religiose.
Nella tesi Ciampi offre cenni della legislazione sul tema dalla restaurazione ai Patti laterannsi, affronta la situazione del periodo e concentrarsi sul conflitto tra “Religione dello stato e libertà religiosa”, per poi arrivare alla questione dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche e alla tutela penale del sentimento religioso. Tutti temi, a quanto pare, su cui la riflessione è ancora molto attuale.
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Passiamo alla storia. A quanto pare i veneziani sono abbonati alle avventure: il viaggiatore più noto, si sa, è Marco Polo, che raggiunse la Cina, vi abitò e tornò incolume in patria, per poi di raccontare la sua esperienza nel “Milione”. Meno noto, ma non meno appassionante, il viaggio di Piero Quirino, o Pietro Querini, un nobiluomo veneziano che nel 1431 salpò con la nave di cui era capitano, la Gemma Quirina, insieme a una sessantina di marinai.
Dell’imbarcazione si persero le tracce all’imbocco della Manica, e il suo capitano, tornato inaspettatamente in patria a piedi dopo ventuno mesi, raccontò una storia sorprendente: la nave era andata alla deriva, giungendo oltre il circolo polare artico, nell’isola norvegese di Rostr.
La storia, raccolta dai resoconti del capitano e di altri due ufficiali, viene riproposta ora in un romanzo storico di Franco Giliberto e Giuliano Piovan, “Alla larga da Venezia. L’incredibile viaggio di Pietro Querini oltre il circolo polare artico nel ‘400”, edito da Marsilio.
La storia, nel romanzo, suona come una via di mezzo tra l’avventura di Marco Polo e quella degli ammutinati del Bounty, in questo caso gli undici naufraghi accolti per più di tre mesi dalla popolazione locale.
Insomma, quella che finora era conosciuta soprattutto dagli esperti per la ricchezza di preziosi dettagli geografici fornita dai resoconti originali, seicento anni dopo diventa una storia di piacevole lettura grazie alla penna di due autori contemporanei.
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Il 9 settembre 1998, dopo mesi di malattia vissuta con riservatezza e discrezione, se ne andava Lucio Battisti. Un nome che, evidentemente, non ha bisogno di presentazioni.
A ricordarlo è un libro del giornalista Leo Turrini, che per Mondadori ha scritto “Battisti. La vita, le canzoni, il mistero” (Mondadori).
In poco più di duecento pagine Turrini, basandosi su una paziente ricerca tra giornali e archivi, rievoca la vita di Battisti dalla nascita, nel 1943, a Poggio Bustone, fino alle ultime, drammatiche notizie di quel settembre 1998. In mezzo, cadenzati dagli avvenimenti storici e di cronaca, ci sono gli esordi, gli anni del successo, il tandem con Mogol, il ritiro dalle scene, gli ultimi album.
Ma nel lavoro di Turrini si trovano anche retroscena e testimonianze poco note ai più, che arricchiscono il volume e offrono una visione umana di un personaggio che non abbiamo ancora smesso di rimpiangere.
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Vale la pena conoscere l’Antico Testamento?
La prima parte della Bibbia cristiana viene spesso trascurata dai credenti: considerano i libri tra la Genesi e Malachia come una sezione ispirata, certo, ma ormai “completata” dal Nuovo Testamento e quindi, tutto sommato, esaurita.
Philip Yancey, collaboratore di Christianity Today, non la pensa così, e ha voluto raccontare l’Antico Testamento da un’altra prospettiva.
Fin dal titolo, “La Bibbia che Gesù leggeva” (proposto in italiano da Claudiana), Yancey sottolinea l’importanza di questi scritti, che furono i testi con cui Gesù, nella sua giovinezza, si formò e si confrontò.
Yancey, a quanto pare un lettore entusiasta dell’Antico Testamento, non pretende di proporre una disamina esegetica completa, ma si limita a indicarci alcuni scorci: dalla storia senza tempo di Giobbe e i suoi problemi al “sapore agrodolce” (come lui stesso lo definisce) del Deuteronomio, dalla spiritualità ad ampio respiro dei Salmi all’esistenzialismo ante litteram dell’Ecclesiaste, fino alla modernità dei profeti.
Dalle parole di Yancey si percepisce la convinzione che l’Antico Testamento, come il Nuovo, è stato scritto da un Dio vivo, che si preoccupa per noi. E che, oggi come ieri, non sta a guardare.
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E siamo all’11 settembre: una data, un drammatico ricordo. Sono passati otto anni da quel tragico 11 settembre 2001, quando un attacco terroristico ai simboli politici ed economici degli Stati Uniti sconvolse l’America e il mondo.
Come ogni anno giornali e televisioni ricordano la vicenda attraverso speciali, documentari e film; tra i tanti libri scritti per ricordare e commemorare le migliaia di vittime c’è anche “102 minuti. La storia mai raccontata delle migliaia di persone che lottarono per sopravvivere all’interno delle Twin Towers” (Piemme), scritto da due giornalisti, Jim Dwyer e Kevin Flynn.
Dwyer e Flynn, dopo un lungo lavoro di documentazione su interviste, testimonianze orali, e-mail, registrazioni di telefonate e comunicazioni via radio, hanno ricostruito quei drammatici 102 minuti che hanno separato le 8.46, il momento dell’impatto del primo aereo con la torre nord, dalle 10.28, ora in cui la torre è crollata.
Come si legge nel racconto ricostruito dai due autori si è trattato di 102 minuti drammatici, che per 14 mila persone hanno fatto la differenza tra la vita e la morte tra porte bloccate, atrii in fiamme, scale inagibili e decisioni da prendere.
Un racconto a più voci, quello di Dwyer e Flynn, dove si intrecciano le vicende, i pensieri, le azioni, le comunicazioni di persone che si sono ritrovate – chi per lavoro, chi per pura casualità – ai piani alti di un edificio che, di lì a poco, sarebbe crollato. Il racconto si dipana tra consultazioni angosciate, telefonate a casa e ai numeri di soccorso, tentativi di fuga, offrendo un quadro vivido di quello che deve essere stato, sul campo, quel drammatico 11 settembre 2001.
Consigli di lettura – 9
Turismo, musica, società, strategie belliche, teologia tra i consigli di lettura di questa settimana.
Si comincia con “In viaggio con Lutero” (Claudiana) di Reinhard Dithmar. Sono numerosi ogni anno i protestanti che si recano in visita ai luoghi della Riforma: a disposizione hanno ovviamente i manuali di storia e le classiche guide turistiche. Mancava, in italiano, un volume che raccogliesse le informazioni utili per un viaggio sulle tracce di Lutero: ci ha pensato la chiesa luterana in Italia che ha pubblicato, in collaborazione con la casa editrice Claudiana, “In viaggio con Lutero”, testo di Reinhard Dithmar, studioso di teologia, germanistica, filosofia, pedagogia e professore di letteratura.
Nel volumetto, comodo come una guida turistica, vengono presentati fatti storici, dettagli, curiosità sulle località della Turingia e della Sassonia dove visse Lutero.
Una lettura interessante da fare sul campo, ma anche comodamente a casa, per scoprire qualcosa di più su Lutero rispetto a quello che racconta un manuale di storia, senza limitarsi ai dettagli di una comune guida turistica.
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Passando alla musica, nell’estate di vent’anni fa moriva uno dei più grandi direttori d’orchestra del Novecento, Herbert von Karajan. Un genio della bacchetta e allo stesso tempo un personaggio di cui si è parlato molto, ma sul quale mancava una voce “preferenziale”: quella della seconda moglie, Eliette.
Una lacuna colmata da una biografia: “La mia vita al suo fianco”, edito da Giunti, scritto proprio da Eliette Von Karajan l’anno scorso, nel centenario della nascita del direttore.
Si tratta, in realtà, di un’autobiografia della signora Karajan, ma inevitabilmente si trasforma nel racconto della persona cui è stata accanto per oltre trent’anni: trent’anni al fianco di un personaggio pubblico che la signora von Karajan racconta indugiando tra viaggi e “prime”, cerimonie e mondanità, ma rivelando anche il Karajan che poteva conoscere solo lei, privato, umano. Un Karajan che, nel racconto della moglie, piace ritrovare, a tanti anni dall’addio.
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Parlando di vita, non si può non incappare anche nella morte. E la morte è un tema che non si affronta mai molto volentieri. Stefano Lorenzetto, giornalista di lungo corso e ampia sensibilità, le ha dedicato un intero libro: si intitola “Vita morte miracoli. Dialoghi sui temi ultimi”, edito da Marsilio.
Con la consueta formula delle interviste a tema, già sviluppata tra gli altri nel suo precedente e piacevole “Italiani per bene”, Lorenzetto dialoga con una ventina di personaggi sconosciuti ai più, ma con una storia che vale la pena di essere raccontata: c’è l’oncologo affetto da sclerosi che sa quale sarà il suo destino, ma non si rassegna e si presenta ogni giorno a curare i suoi pazienti; c’è il geriatra che accudisce i pazienti in stato vegetativo permanente (e ha visto qualcuno di loro risvegliarsi); ci sono persone comuni colpite da quelle che comunemente chiamiamo “disgrazie”, ma che hanno saputo trovare una nuova speranza o una nuova prospettiva grazie alla fede.
Non tutti i casi proposti sono “da manuale” o del tutto condivisibili, ma il quadro generale che Lorenzetto offre è – come sempre – chiaro e sobrio; il tono è delicato, ma capace di impennarsi e anche di mordere quando cita fatti di cronaca che negano il valore di quella vita la cui importanza viene ribadita, intervista dopo intervista, insieme agli interlocutori.
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Veniamo alla strategia. Sono passati sei anni dalla caduta di Saddam Hussein, ma – come tutti possiamo constatare – al di là del trionfo militare americano, a tutt’oggi la battaglia non è stata vinta del tutto.
Si è trattato – e si tratta – di una guerra diversa da quelle del passato, e proprio per questo richiede – e avrebbe richiesto – un approccio diverso.
A rileggere oggi, a distanza di sei anni dall’uscita, il libro del generale Wesley Clark, “Vincere le guerre moderne. Iraq, terrorismo e l’impero americano” (edito da Bompiani), si può restare sorpresi. Clark, eroe di guerra in Vietnam, è stato comandante supremo delle forze alleate in Europa dal 1997 al 2000, direttore del dipartimento piani strategici del Pentagono e a capo della delegazione per gli accordi di pace nei Balcani a Daytona. Insomma, è uno che conosce l’argomento militare e diplomatico.
Nel libro, Clark presenta la sua posizione critica sulle scelte effettuate dall’amministrazione Bush in relazione alla guerra in Iraq; racconta i retroscena e ventila le “reali motivazioni” della strategia americana. Una posizione, quella di Clark, probabilmente non del tutto disinteressata, visto il suo tentativo di avviare una carriera politica con la candidatura alla presidenza USA nelle file dei democratici nel 2004 (finita con un nulla di fatto); tuttavia, vista la sua esperienza, non si può non prendere in considerazione le sue osservazioni.
Nel volume, dopo una disamina della situazione, Clark offre anche qualche spunto per una soluzione, e qualche consiglio per il futuro: in primis il fatto che nelle “guerre moderne” i terroristi vanno sconfitti “dall’interno” con un puntuale lavoro di intelligence, e non sul campo.
Naturalmente le tesi di Clark non sono state prese in considerazione da Bush nel corso del suo secondo mandato. Ma, nell’era obamiana, e di fronte a una situazione in Iraq ancora critica, chissà che le idee del generale non abbiano maggiore fortuna.
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Chiudiamo con uno spunto di lettura teologico.
La predestinazione è un tema su cui, nel corso dei secoli, la chiesa cristiana si è interrogata a lungo. La salvezza si realizza, si attua o si accetta come un dono?
In base alla risposta sono nati movimenti, sono scoppiate dispute, si sono consumate divisioni, probabilmente più che per qualsiasi altro tema dottrinale.
Giorgio Tourn, pastore e già presidente della Società di studi valdesi, ha toccato il delicato argomento con un libro pubblicato da Claudiana. Si intitola semplicemente “La predestinazione nella Bibbia e nella storia”, e si propone di fare il punto in maniera chiara e senza spirito di parte sulla questione.
Tourn parte ovviamente dalla Bibbia e dalla temperie culturale in cui il problema si è posto per la prima volta; analizza il modo di affrontare la predestinazione dei cristiani nell’età apostolica, gli sviluppi nella teologia cristiana (dai padri alla scolastica). Numerosi capitoli sono dedicati, ovviamente, alla posizione assunta nel tempo dalle correnti evangeliche (dalla Riforma alla Ginevra di Calvino, dal Calvinismo al protestantesimo moderno).
Affronta, infine, la dottrina della predestinazione analizzandola in chiave teologica, fino a concludere considerando la necessità di “reinventare” un tema che oggi, dopo secoli di dispute, è paradossalmente fin troppo trascurato.
Quella serenità così sfuggente
Quali sono i comportamenti più fastidiosi, in aereo? British Airways ha condotto una serie di interviste a viaggiatori non britannici, ricavando una top ten dei modi di fare più irritanti.
Tra questi, spiccano l’abitudine di dare calci al sedile davanti al proprio, l’uso di lasciar scorrazzare i figli avanti e indietro per i corridoi, la fretta di scendere appena il velivolo apre i portelloni, la loquacità dei viaggiatori che intavolano discorsi inutili, il suono (o, più spesso, il rumore) che esce dalle cuffie di chi sta ascoltando musica.
Nel prontuario che è stato realizzato dopo questo sondaggio, la compagnia di bandiera britannica non ha trovato di meglio che consigliare ai viaggiatori di salire a bordo sereni. Facile a dirsi, dirà qualcuno: chi mai ama viaggiare irritato? Eppure forse il suggerimento, per quanto banale, ci permette di riflettere su un aspetto che spesso trascuriamo.
Ciò che succede quando viaggiamo – ma anche quando stiamo a casa, siamo al supermercato, pazientiamo in fila alla posta, guidiamo, facciamo acquisti – lo percepiamo secondo la nostra prospettiva.
Lo stesso episodio può suscitare una risata o una sfuriata: la reazione dipende dal nostro stato d’animo. Quando siamo irritati o nervosi ci dà fastidio qualsiasi dettaglio, anche il più insignificante: una frase scontata, l’andatura di chi ci precede, il gesto di un collega.
In questi casi ogni imprevisto contribuisce ad amplificare il nostro disagio, e credere che il mondo ce l’abbia con noi diventa un alibi al nostro fastidio interiore.
Sì, perché – a voler essere onesti – possiamo riconoscere che il disagio nasce dentro di noi, non attorno a noi. Ed è sintomo di una significativa mancanza di serenità.
La serenità è una questione delicata.
C’è chi si illude di trovarla negli eccessi, e chi nella cadenza regolare di una vita ordinaria; qualcuno tenta di trovarla negli oggetti o le persone di cui si circonda.
Tutto questo può aiutare, ma non basta. Perché niente e nessuno, in questo mondo, può toccarci – e cambiarci – dentro. Nemmeno noi stessi.
Fino a prova contraria, la serenità non nasce da una vita senza imprevisti né da una situazione economica agiata. E anche una generica ricerca spirituale non basta, fino a quando non comprendiamo un concetto essenziale: la serenità nasce dalla consapevolezza del nostro ruolo.
Osservando le vicende dell’umana commedia, è difficile non intravedere alcuni elementi che accomunano epoche e latitudini. La tendenza umana a migliorare la propria condizione di partenza. Il desiderio di individuare la propria identità. Il bisogno di interagire con gli altri. La ricerca della libertà. La necessità di dare uno scopo ragionevole alla propria vita. L’individuazione di una prospettiva più ampia (e convincente) sul senso dell’esistenza e sul “dopo”.
Solo trovando queste risposte è possibile acquisire una serenità soddisfacente, stabile, non illusoria. Qualcuno potrà obiettare che, quelle risposte, non è difficile trovarle, spaziando tra politica (la libertà), filosofia (l’identità), la solidarietà sociale (lo scopo), le dottrine orientali (il senso della vita). E infatti è vero.
Il problema è trovare una soluzione che riesca, da sola, a rispondere a tutte le domande. La politica, la filosofia, l’impegno sociale, le dottrine orientali riconoscono – con onestà – la parzialità delle loro proposte.
Scartando i vari candidati ne resta uno solo: l’unico che, nella storia dell’umanità, ha avuto il coraggio di affermare “Io sono la via, la verità e la vita”, e ha aggiunto “venite a me… e io vi darò riposo”.
Se sia vero o solo una boutade, lo possono testimoniare milioni di persone che hanno creduto nel suo messaggio e in quel messaggio hanno trovato le risposte. E, con quelle risposte, la pace.
Cambiamenti e ravvedimenti
Le cattive ragazze cambiano aria: un articolo della Stampa riferisce che personaggi come Amy Winehouse, Lindsey Lohan, Britney Spears, Paris Hilton hanno abbandonato gli eccessi che avevano fatto la gioia dei giornali scandalistici, e stanno cambiando (faticosamente) strada.
Amy Winehouse alla fine ha accettato di entrare in una clinica per disintossicarsi: ora si apre a un repertorio più romantico e vagheggia l’idea di trovarsi il classico “lavoro serio” aprendo un centro estetico, qualora decidesse di lasciare la musica.
La Lohan, dopo due arresti per guida in stato di ebbrezza (ma la definizione ufficiale, a quanto raccontano le cronache, è eufemistica: era proprio ubriaca fradicia), ha deciso di dire basta ai baccanali e alle nottate in giro per locali; cerca un lavoro “per pagare l’affitto”, dimostrazione che anche i ricchi vivono nel nostro mondo (anche se raramente piangono).
Di Britney Spears si è detto ampiamente: fatta di stupefacenti e cattive compagnie, spendacciona e seminuda (oltreché volgare, ma questo non è un reato), è stata tirata a lucido in una clinica di riabilitazione e ora porta avanti il suo tour mondiale controllata a vista dal padre, che le ha imposto un’ora di lettura biblica al giorno: e chissà se, nella migliore tradizione della scuola domenicale, dopo la lettura ne verifica anche l’apprendimento.
Paris Hilton ha trovato l’amore, ricambiata, e ha quindi smesso i panni della nullafacente metropolitana tutta capricci e leziosità per dedicarsi al suo lui: pensa al matrimonio, e per il personaggio è già tutto dire.
I bimbi crescono, e anche le bad girls, raggiunto un punto di rottura, devono decidere cosa fare. Un cambiamento radicale talvolta è l’unico modo per sopravvivere, specie quando lo stile di vita è più pericoloso di una passeggiata in autostrada.
Ciò che viene da chiedersi se si tratti di un vero cambiamento, o di una pausa tra due eccessi: rinsavire per non morire, prima di rituffarsi nelle vecchie abitudini ritrovando le vecchie compagnie.
Esperienze passate dimostrano che spesso è solo una questione di tempo. Senza una base solida anche il cambiamento più radicale non è destinato a durare. Senza la consapevolezza dei propri limiti, della sporcizia morale, del proprio fallimento interiore, è difficile ricominciare davvero da capo.
Dietro molti di questi cambiamenti sbandierati di fronte ai media non sembra esserci vera motivazione, ma solo una questione di sopravvivenza: cambiare vita per non morire, adottare una condotta salutista senza però toccare l’interiorità di una vita spirituale disastrata, ossia la principale causa di disagio.
Uno stile di vita più sano può aiutare a stare meglio, ma è il cambiamento interiore a portare felicità, serenità, pace.
C’è una bella differenza. La differenza che passa tra sopravvivere e vivere.