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Il disagio che accomuna
Lenny Kravitz stupisce ancora, e stavolta non per la trasgressione. Ad Andrea Laffranchi del Corriere racconta che da mesi vive in maniera casta: lui, gaudente incallito con un carnet di conquiste femminili, note e meno note, che potrebbe riempire un album.
«C’è stato un periodo in cui è stato così. Ma anche se l’ho fatto, non era il modo giusto di comportarsi. Ora seguo la volontà di Dio e non la mia. Voglio crescere più forte grazie a Dio».
Non solo: come ricorda Laffranchi, in un brano contenuto nell’ultimo album Kravitz “canta di non aver bisogno di aerei privati, diamanti e champagne”, che hanno caratterizzato in maniera marcata il suo passato. «Per questo ora posso dire che non mi servono – spiega -. È Dio che ti rende felice e che riempie la tua vita. Ora so su quale strada mi trovo e dove sto andando: verso Dio, lo spirito, l’amore, non verso le cose materiali».
E a parlarne è uno che di “cose materiali” ne ha avute e viste tante: eccessi, lusso sfrenato, piacere senza limiti. Ma che, evidentemente, a un certo punto si è reso conto che la vita non poteva essere tutta lì.
Qualche malizioso obietterà che è facile, dopo aver vissuto il meglio della vita, emozioni di grande impatto, situazioni che i comuni mortali nemmeno immaginano, dire “non mi servono più quelle cose”: chi non riesce a pagare il mutuo vive la quotidianità in maniera più frustrante e forse, prima di concordare, apprezzerebbe la possibilità di passare qualche giorno da Kravitz. Una reazione d’impulso, che però non tiene conto di come possa essere difficile per i tanti Kravitz riuscire a cambiare vita, pur rendendosi conto di essere in un vicolo cieco. Ne sono testimoni, loro malgrado, le tante popstar che entrano ed escono dai centri di riabilitazione, e con la loro ribellione esprimono quel disagio interiore che nemmeno gli agi riescono ad anestetizzare.
Per i “ricchi” passare la cruna di un ago è difficile oggi come ieri. E sono sempre troppo pochi coloro che possono dire, con Salomone, “ho provato di tutto e di più, ma ho visto che niente mi dava davvero quel che cercavo”. Per questo non è solo una consolazione da perdenti pensare che una vita ordinaria sia un privilegio, e sia la via meno dolorosa per raggiungere la Risposta.
La ragazza del fiume
«Due milioni e settecentomila spettatori: questo il numero delle persone che hanno seguito ieri sera “Chi l’ha visto“, il programma di RaiTre dedicato alle persone scomparse e agli omicidi misteriosi. Nel corso della puntata, stravolta rispetto ai piani originari a causa delle nuove rivelazioni sul caso Orlandi, Federica Sciarelli è tornata anche sulla vicenda del cadavere di donna ritrovato nel Po lo scorso 25 maggio».
Se poi non saranno stati proprio due milioni e settecentomila gli spettatori arrivati svegli fino alle 22.40 per seguire il collegamento con Milano, non importa: è già una soddisfazione che la nostra testata venga interpellata da un programma Rai come fonte autorevole in relazione a un caso che, in qualche modo, risulta legato al mondo evangelico.
Nel breve intervento in diretta ho tentato di dare un quadro quanto più ampio possibile per inquadrare correttamente il contesto evangelico ed evitare quindi che il braccialetto venga considerato come un banale feticcio; la vicenda però mi ha fatto, ancora una volta, pensare.
Nel ragionare su un paio di possibili ipotesi sul perché una ragazza trovata cadavere nel Po portasse al polso un braccialetto “evangelico”, mi sono reso conto di quanto sia semplice, tutto sommato, che casi come questo avvengano.
In una normalissima chiesa evangelica arriva un volto nuovo: è una ragazza dal passato difficile, lo testimoniano un paio di ampi e aggressivi tatuaggi – di cui uno recente – e un modo di vestire trasandato per i nostri canoni. Viene da lontano, non si è mai ambientata nella zona perché il tempo disponibile l’ha trascorso con compagnie poco raccomandabili, e per questo è rimasta straniera nella città dove, per scelta o per ventura, vive ormai da anni.
La ragazza cerca: cerca una soluzione per la sua vita, cerca una risposta. Trova la fede. O, almeno, un granello di Parola si posa nel suo cuore. Le si apre un mondo che non conosceva, fatto di amore, solidarietà, persone semplici e sincere, magari un po’ fissate ma buone, che le fanno ritrovare fiducia nel genere umano. Capisce che può farcela, e comincia timidamente – lei, piantina ancora fragile – a frequentare culti e riunioni, fermandosi volentieri a scambiare due parole, magari senza aprirsi troppo per non scoperchiare un passato che preferisce seppellire. E che invece, a breve, seppellirà lei in un sacco, prima di buttarla nel fiume.
A un certo punto questa ragazza, che si è fatta vedere in chiesa per qualche mese con ragionevole costanza e buon interesse nei confronti della fede, sparisce improvvisamente.
Cosa fa la chiesa? Forse si chiede che fine abbia fatto. Ma non va a cercarla: in fondo venire in chiesa è una scelta, e poi magari ora ne frequenta una dove si trova meglio (lei, che era sempre presente con il sorriso sincero e stupito di chi ha trovato un tesoro), o magari si è trasferita, in fondo non era del posto, e poi a chi vuoi chiedere? Sì, l’abbiamo accompagnata una volta a casa ma non sappiamo esattamente dove abiti, e magari la mettiamo in imbarazzo, disturbiamo.
Magari potrebbero farlo i giovani? Ecco, sì, qualche ragazza potrebbe “fare una visita” con la scusa di vedere come sta: ma poi si sa come finiscono le cose, talvolta è più piacevole un concerto o un’evangelizzazione, e poi come fai a giudicare, se il Signore vuole ce la farà incrociare uno di questi giorni. E comunque, sia chiaro, preghiamo sempre per coloro “che si sono allontanati”. Com’è che si chiamava, a proposito, quella ragazza che si era avvicinata alla fede per un periodo, qualche mese fa?
Naturalmente la chiesa rappresentata qui sopra non è la nostra, ci mancherebbe altro. Noi non lasceremmo mai una persona in difficoltà senza fare del nostro meglio per aiutarla. Non è nostra abitudine rassegnarci quando un’anima comincia a perdersi. Siamo pronti a collaborare con i responsabili della comunità nella cura dei più deboli, confortandoci e incoraggiandoci l’un l’altro come dice la Bibbia. Come farebbe Gesù. Già.
“Cosa farebbe Gesù”: a volte viene da pensare che quel braccialetto dovrebbero renderlo obbligatorio. Come i vaccini.
In diretta a Chi l'ha visto…
Grazie a tutti coloro che mi hanno seguito ieri sera su RaiTre. Sono contento di aver potuto dare un piccolo contributo al caso trattato, ma anche di aver ricordato brevemente agli spettatori cosa significhi essere cristiani.
È stata una bella sorpresa vedere scorrere le immagini del portale, durante il mio intervento, e qualche risultato in termini di visite (al sito, alla chat, al forum) c’è stato. E poi, parlare a 2 milioni e 700 mila persone in una volta sola… quando mi ricapita? 🙂
In diretta a Chi l’ha visto…
Grazie a tutti coloro che mi hanno seguito ieri sera su RaiTre. Sono contento di aver potuto dare un piccolo contributo al caso trattato, ma anche di aver ricordato brevemente agli spettatori cosa significhi essere cristiani.
È stata una bella sorpresa vedere scorrere le immagini del portale, durante il mio intervento, e qualche risultato in termini di visite (al sito, alla chat, al forum) c’è stato. E poi, parlare a 2 milioni e 700 mila persone in una volta sola… quando mi ricapita? 🙂
Altro che spot
Il recente rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione ha proposto interessanti riflessioni relative ai nuovi mezzi e alle modalità d’uso.
Come segnala il quotidiano Avvenire, si è scoperto che i giovani “divorano tutto quello che è comunicazione”, con un “nomadismo mediatico disincantato”. Spesso non trovano quel che cercano, e questo li porta a essere particolarmente versatili sul fronte della cross-medialità: si trovano a loro agio con Internet, cellulare, tv, ma anche radio, quotidiani e perfino con i libri, che hanno ripreso a leggere con un certo ritmo.
In generale si è riscontrata una scollatura tra gusti degli utenti e proposte dei media, che non si sanno adeguare in particolare alle esigenze dei giovani.
Il fruitore del Ventunesimo secolo esige contenuti sempre più personalizzati: dopo la fase adolescenziale di omologazione, dai 19 anni “si registra un aumento dell’individualismo nella fruizione dei media”, e questo si scontra con i mezzi di comunicazione che invece non hanno “alcuna reale percezione di quello che i giovani desiderano”.
L’unico settore che è stato capace di fiutare il vento e adattarsi, riposizionandosi con proposte adatte al nuovo contesto, è stato quello della pubblicità: sempre più precisa, sempre più personalizzata, e nel futuro lo spot si preannuncia “sempre più capillare, targhettizzante, pervasivo”.
Forse a volte dovremmo prendere esempio da ciò che di buono la pubblicità insegna. Non ci riferiamo, naturalmente, alla tendenza della pubblicità a banalizzare e semplificare il messaggio in maniera impropria o fuorviante: ma non possiamo non riconoscere ai guru della réclame una capacità di adattamento, una creatività, una sensibilità nell’anticipare i tempi e le tendenze, nello scoprire i mezzi più adatti, nel proporre il messaggio nella maniera più efficace per il singolo utente.
Nel corso dei decenni i pubblicitari hanno affinato in maniera sorprendente la capacità di fare comunicazione di massa pur tenendo conto delle categorie, dei target, delle necessità, degli interessi specifici. In poche parole: la capacità di raggiungere tutti, ma uno per uno.
Visto un tanto, considerarli con sufficienza semplici “venditori” sarebbe riduttivo, oltre che spregiativo, e testimonierebbe l’incapacità di applicare, o anche solo di cogliere, questioni essenziali con le quali ogni buon comunicatore – dal giornalista al documentarista, dal missionario alla chiesa – deve dominare per raggiungere il proprio obiettivo.
La Bibbia agli esami
C’era anche la Bibbia tra i temi di italiano proposti mercoledì ai “maturandi”.
Anche se pochi l’hanno rilevato, nella prima prova scritta degli esami di stato che tanto ha fatto discutere sull’errore degli ispettori ministeriali delegati alla preparazione delle tracce, non c’era solo Montale.
Scorrendo i titoli proposti ai candidati, subito dopo Montale compariva il tema relativo all’ambito artistico-letterario, dedicato a “La percezione dello straniero nella letteratura e nell’arte”.
Nella traccia era presente una decina di documenti, tra testi letterari e opere d’arte figurativa, e il primo proposto – prima di Omero, Manzoni, Baudelaire, Pirandello, Morante e così via – era un brano tratto da Deuteronomio: Non lederai il diritto dello straniero o dell’orfano e non prenderai in pegno la veste dalla vedova; ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha redento l’Eterno, il tuo Dio; perciò ti comandò di fare questo. Quando fai la mietitura nel tuo campo e dimentichi nel campo un covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova, affinché l’Eterno, il tuo Dio, ti benedica in tutta l’opera delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai a ripassare sui rami; le olive rimaste saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non ripasserai una seconda volta; i grappoli rimasti saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. E ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questo. (Deut. 24:17-22).
Uno spunto indubbiamente stimolante, che denota la modernità e lo spirito solidale della Bibbia in barba a chi, con una superficialità che non fa onore al suo pensiero, vuole vedervi solo un’accozzaglia di stragi.
Fa piacere che gli ispettori, che per il resto si sono dimostrati piuttosto distratti, abbiano saputo cogliere e proporre agli adulti di domani un testo così significativo.
La speranza è che i ragazzi possano farne tesoro, fugando qualche luogo comune e magari scoprendo la profondità di un testo come la Bibbia: un testo che la scuola, purtroppo, negli ultimi decenni non ha saputo, voluto, potuto valorizzare.
Un braccialetto senza storia
Stamattina abbiamo ricevuto una chiamata dalla redazione di Chi l’ha visto, il programma di RaiTre che si dedica a cercare le persone scomparse e dare un nome alle vittime senza volto.
Il motivo della telefonata era quantomai inusuale: venivamo contattati in relazione a un omicidio avvenuto sulle sponde del Po, dalle parti di Mantova, non lontano da quella Sermide che per decenni ha visto attivo il centro dell’Arca Teen Challenge e ancora oggi ospita il centro di riabilitazione di Remar.
Una giovane donna – «età compresa tra i 16 e i 30 anni, peso tra 50 e 55 kg, statura 1,65 m. circa, capelli biondo-rossicci», spiega il verbale riportato sul sito della trasmissione – è stata trovata senza vita il 25 maggio nel fiume; nessun documento addosso al corpo, ormai irriconoscibile.
Chi l’ha visto si è occupato del caso nella puntata di lunedì 16 giugno, mostrando le immagini di quei poveri elementi che potevano aiutare a risalire alla sua identità: qualche anello, una fedina, un paio di braccialetti e due catenine.
E poi, un elemento che ha fatto sobbalzare qualche spettatore, tanto da spingerlo a contattare la redazione per segnalare un collegamento cui nessuno era arrivato, indirizzando a noi i curatori per un tentativo quasi disperato.
Al polso della giovane, si leggeva nel verbale, era stato ritrovato «un braccialetto in tessuto intrecciato multicolore recante la sigla W.W.J.D.».
Un particolare di una certa familiarità. WWJD sta per “What would Jesus do?”, “Cosa farebbe Gesù?”, e i braccialetti di stoffa con questa sigla sono nati una decina di anni fa negli Stati Uniti per stimolare i giovani a una vita cristiana costante e coerente; con il tempo si sono diffusi tra i giovani delle chiese evangeliche di tutto il mondo occidentale e sono ormai anni che si vedono comunemente anche ai polsi dei giovani evangelici italiani.
Considerato che non sono molto diffusi fuori dalle chiese, né vengono venduti nei mercati o nei negozi comuni, è stato impossibile non fermarsi a riflettere.
Chi poteva essere quella povera ragazza?
Sappiamo che era giovane, bassa, minuta, che portava pantaloni larghi – come usano i giovani oggi – e scarpe forse troppo grandi per i suoi piedi. Immaginiamo un passato non facile, a giudicare dai tatuaggi, uno dei quali piuttosto recente e aggressivo.
Non sappiamo molto altro, e non ci basta a scoprire chi fosse, da dove venisse e dove andasse. Sappiamo che è stata uccisa e gettata nel fiume insieme al suo passato, al suo presente e a un futuro che non vivrà più.
Certo, un caso come tanti, purtroppo. Ma c’è quel braccialetto. Forse si era messa in contatto, di recente, con qualche chiesa, e qualche giovane le aveva regalato quella striscia di stoffa come promemoria per intraprendere e perseverare in una vita diversa, lontano dai pericoli.
O forse era il regalo di un’amica che aveva voluto in questo modo aiutarla a ricordare sempre che, anche nella sua esistenza burrasosa, Qualcuno poteva starle accanto.
Chissà. Chissà da dove veniva quella ragazza così disgraziata. Chissà da dove veniva quel braccialetto che mai avremmo pensato di vedere sul suo polso, e che la avrebbe accompagnata nel suo ultimo viaggio.
“Cosa farebbe Gesù”, la interrogava quel pezzo di stoffa. “Cosa farebbe Gesù”, interroga oggi noi, messi di fronte a un caso così drammatico e misterioso.
Una fede confusa
Nella seconda corsa alla Casa Bianca di Bush junior la fede ha avuto un ruolo di primo piano: ricordiamo ancora tutti il candidato repubblicano citare Gesù come proprio filosofo di riferimento, o il racconto sulla sua conversione, sulla quale peraltro non abbiamo motivo di nutrire dubbi.
Ora ci prova anche Barack Obama: «La profonda fede del candidato democratico alla Casa Bianca è l’oggetto del nuovo libro scritto dall’autore di una biografia dell’attuale presidente dal punto di vista della religione. Stephen Mansfield, un ex pastore autore del libro “The faith of George Bush”, sta infatti per dare alle stampe “The faith of Barack Obama”, che uscirà ad agosto in America. Giusto in tempo per fare breccia nell’elettorato religioso, che quattro anni fa votò in maniera preponderante per Bush, ma che quest’anno potrebbe addirittura favorire Obama e tradire i repubblicani».
A favore di Obama, spiega Alessandro Ursic nel suo articolo su Peace Reporter, il fatto che John McCain non prediliga parlare in pubblico di fede: si sa che è credente, si sa che ha perfino celebrato culti e predicato per i suoi compagni nelle prigioni vietnamite, ma tiene per sé la sua esperienza spirituale. Non gliene si può fare una colpa, ma sul piano politico una scelta simile non aiuta.
Inoltre, un contesto che vede entrambi i candidati proporre vedute progressiste su temi sensibili come aborto e matrimoni omosessuali, evidentemente si ritrova avvantaggiato chi, come Obama, «ha sempre indicato nella conversione adulta alla fede il momento di svolta della sua vita».
Obama convince la fascia di elettori tra i 18 e i 29 anni: «i giovani evangelici dicono “certo, siamo contro l’aborto, ma siamo con il primo candidato nero, secondo è un cristiano e terzo è convinto che la fede debba avere un ruolo nell’agenda politica”».
E gioca a suo favore anche l’inedito interesse delle chiese evangeliche americane per questioni mai considerate prima, come la lotta all’effetto serra o la difesa dei diritti umani in Darfur, tanto da far ipotizzare ai commentatori uno “spostamento verso sinistra” degli evangelici americani.
C’era una volta il classico evangelico americano: timorato di Dio, ordinario, tradizionalista, piuttosto rigido e refrattario alle novità nelle sue convinzioni bibliche incrollabili, su cui poneva tutta l’attenzione.
Poi quel credente si è reso conto di trascurare la società che lo circondava, e risultare così “fuori dal mondo” nel senso meno desiderabile del termine: viveva una realtà parallela a misura di chiesa, e questo finiva per rendere poco efficace il dialogo con quella società cui era chiamato a “portare l’evangelo”.
Di qui la svolta verso un modo diverso di vedere la vita, dove le verità bibliche restavano incontestabili ma diventava possibile e opportuno comunicare quelle verità in maniera comprensibile a un mondo che cambia, senza considerare più il rock e Internet “strumenti del demonio”, e anzi utilizzando passioni e mode per veicolare il messaggio cristiano.
Quell’evangelico si è poi accorto che la società, e con lei il pianeta, aveva anche altre esigenze, secondarie ma talvolta pressanti. Impossibile ignorare i bisogni degli immigrati, l’uguaglianza sociale, la fame nel mondo, i grandi temi ambientali e con essi l’importanza di mantenere un senso di responsabilità nei piccoli comportamenti quotidiani.
Sul piano culturale si è accorto di come il confronto con il “mondo”, qualora affrontato con la giusta preparazione, possa essere efficace per sfatare il mito del cristiano credulone e un po’ tonto, dimostrando che la fede ha una sua logica e offre risposte di una ricchezza e profondità impensabili anche sul piano intellettuale.
Il problema è che, oggi, quell’evangelico rischia di rovesciare il rapporto tra strumento e scopo, finendo per dare importanza “in primo luogo” al fatto di sostenere un candidato in quanto “nero”, lasciando in secondo piano la sua fede. E trascurando del tutto le sue posizioni politiche relative a temi che, obiettivamente, un presidente cristiano non può liquidare con due slogan, e che richiedono invece un approccio appropriato.
La corsa alla casa Bianca è ancora lunga, e molto verrà ancora detto e scritto. Se però, nelle elezioni di novembre, le priorità degli elettori dovessero risultare quelle espresse dai giovani, ancora una volta dovremo dare ragione a Churchill: ogni popolo ha i governanti che si merita.
Non solo. Se l’elettore evangelico si accontenterà di condividere con un candidato l’impegno a favore dell’ambiente – magari enfatizzato affidando la vicepresidenza ad Al Gore, che va così di moda -, riuscendo invece a sorvolare bellamente sulle incompatibilità in merito a temi pesanti come l’aborto, si profilerà un futuro quantomai confuso per gli Stati Uniti. Barattare i capisaldi morali con l’impegno sociale è l’ultima frontiera per un cristiano, oltre la quale non esistono più priorità e punti fermi cui fare riferimento.
Quegli input di troppo
«Ho la sensazione che Internet stia frantumando la mia capacità di concentrazione e di osservazione. La mia mente si sta abituando a raccogliere informazioni nello stesso modo in cui la rete le distribuisce: un flusso di particelle che si muovono a grande velocità. Una volta mi sentivo come un subacqueo che si immerge nel mare delle parole. Ora schizzo sulla superficie come un ragazzino su un acquascooter»: Nicholas Carr, ex direttore della Harvard Business Review ed esperto di comunicazione citato oggi dal Corriere, rende bene la sensazione di chiunque si sia fermato a riflettere – attività sempre più rara, di questi tempi – sul motivo di un disagio diffuso che colpisce molti di noi.
È l’era di Internet, bellezza: informazioni continue, su tutti i fronti e da tutte le fonti, notizie a getto continuo, fatti che si sviluppano sui nostri schermi talvolta prima ancora di entrare nella dimensione della realtà. E non è finita. Fino a oggi c’era il computer che, anche quando era portatile, risultava comunque un ingombro; a compensare c’erano i cellulari, che però non andavano molto oltre a sms e mms. Ora tutto cambia: i subnotebook, grandi e pesanti come un libro, promettono di restare con noi in ogni luogo, dandoci la possibilità di una connessione perpetua, disponibile a ogni capriccio telematico; i cellulari, sempre più evoluti, sono diventati smartphone, telefoni intelligenti (o furbi?) che scrivono, leggono ad alta voce, scattano e ricevono foto in tempo reale, e ormai, con gli schermi sempre più grandi, all’occorrenza sconfinano nel mondo delle e-mail e di Internet per una sana navigata a tempo perso. Anche i limiti residui stanno per essere abbattuti, con tariffe sempre più basse nel trasferimento dati, volte a incoraggiare un utilizzo sempre più connesso degli strumenti tecnologici.
Perché comunicare è esistere, e sapere è vivere. O, almeno, questo è il messaggio che si tenta di far passare.
Ci siamo dovuti adeguare. L’abbiamo fatto volentieri, beninteso: essere sempre raggiungibili è un privilegio, essere informati è un diritto.
Come tutte le innovazioni, però, anche le tecnologie hanno manifestato una serie di effetti collaterali: una maggiore difficoltà di distinguere realtà e finzione, con un aumento dei casi di truffa e delle bufale.
Ma soprattutto, ci hanno portati ad avere un approccio diverso alle cose.
«È tutto così dispersivo», scrive Carr. Non siamo più in grado di concentrarci senza passare a fare altro dopo qualche minuto; fare una cosa alla volta fa emergere un’insofferenza che rischia di trasformarsi in nervosismo.
Viene da chiedersi se di quest’ansia risenta anche la nostra spiritualità. Se siamo in grado di spegnere il cellulare per avere un po’ di pace mentre ci concentriamo nel nostro rapporto quotidiano con Dio. Se riusciamo a pregare senza che il pensiero fugga verso l’ultima conversazione fatta online. Se la lettura della Bibbia sia un piacere e non una sofferenza, perché non sappiamo più dare il giusto peso alle cose.
Ovviamente siamo ancora in grado di svolgere attività pratiche, ma stiamo perdendo il gusto della riflessione, quell’attività intellettuale che richiede quiete, calma e concentrazione.
Forse il banco di prova ideale per comprendere quanto Internet abbia eroso la nostra capacità di riflessione è l’epistola ai Romani, uno dei capolavori dell’apostolo Paolo, oltre che uno dei capisaldi della dottrina cristiana.
Proviamo a chiederci se scorriamo la lettera ai Romani come facciamo usualmente con le genealogie di Numeri o le indicazioni ripetitive di Deuteronomio, oppure se siamo ancora capaci di cogliere la complessa architettura, i delicati bilanciamenti, i colti rimandi, le digressioni e le riprese che Paolo offre al lettore.
Potrebbe capitarci che, abituati al motore di ricerca, riconosciamo nel testo solo le frasi più comuni, significative ma usurate, senza dare peso al contesto, alle possibili prospettive diverse, alle sfumature del discorso.
In questo caso sarebbe opportuno correre ai ripari con una sana dieta tecnologica: che non significa digiuno assoluto, ma moderazione nelle quantità.
Solo così potremo riappropriarci di un dono prezioso come quello della concentrazione, essenziale per una vita spirituale sana, piena, equilibrata.
E, possiamo starne certi, migliorerà anche il nostro rapporto con la tecnologia, che riprenderà il suo giusto posto nella nostra vita.
Quattro passi di fede
Sabato pomeriggio gli evangelici milanesi hanno colorato la città di giallo e blu: erano questi i colori predominanti della marcia “God Parade”, che in poco più di un’ora ha portato tre-quattrocento giovani credenti a sfilare dai giardini di Corso Venezia al Castello Sforzesco per raccontare la soddisfazione che può dare una vita cristiana coerente e intensa.
Interessanti gli striscioni esposti, portati dalla decina di comunità aderenti: da “Gesù è il vero super”, motto della manifestazione presente anche su palloncini e magliette (per l’occasione è stato preso a prestito lo stemma di Superman, dove al posto della “S” campeggiava una “C”), a “Qualsiasi cosa tu dica, Dio ti ama”, fino ai più originali “Fatti di Gesù” (e ognuno la interpreti come preferisce), “Se lo fai sarà difficile smettere: scegli Gesù”, “Gesù Cristo, uno di noi”, “Il nostro paladino della giustizia è qui: preparatevi a essere salvati”, “W la fede e chi la persegue”, “No alla religione, sì alla relazione”, “Gesù ti ama da morire”, “Salvo chi legge… la Bibbia”. Non mancavano i classici “Gesù sta tornando: sei pronto?” e “Gesù Cristo vive! Salva, guarisce, ritorna”, oltre all’internazionale “Jesus is Lord” che faceva il paio con il localissimo “Casorate infuocata per Gesù”.
Età media bassa per i quattrocento presenti, che nei due chilometri del percorso hanno espresso danze, distribuito volantini a tutti i passanti, scandito slogan guidati dall’immancabile “uomo col megafono” di fronte ai milanesi basiti e a un ancora più sorpreso gruppetto di giapponesi.
Tutto, va detto, è stato fatto in maniera sorprendentemente ordinata e – grazie a Dio – perfettamente rispettosa di persone o cose incontrate sul percorso. Per chi ha frequentato o visto altri cortei di ben altra fattura e diverse turbolenze, probabilmente già questo sarà stato una buona testimonianza di cosa significhi essere cristiani.
Una decina le chiese presenti e censite: il Sabaoth, che ha contribuito fattivamente all’organizzazione dell’iniziativa; un nutrito gruppo proveniente dalla comunità filippina “Jesus is Lord” di via Bisceglie; e poi, alla spicciolata, elementi di Oikos, Tabernacolo, Chiesa apostolica, Bethel, Sorgente di vita di Sesto San Giovanni, Gesù vive, Concorezzo, Casorate.
Certo, se l’obiettivo era, come preannunciato, “dimostrare che gli evangelici sono numerosi”, non si può dire che lo scopo sia stato raggiunto: più di qualcuno aveva temuto un risultato peggiore, ma anche quei tre o quattrocento che sono intervenuti non avranno sicuramente contribuito a dare particolare risalto, agli occhi dei milanesi, alla presenza e all’unità delle chiese evangeliche.
Anzi: grandi assenti sono risultati proprio pastori e responsabili, di cui non è stata individuata alcuna presenza. Al di là del fatto che si trattava di un’iniziativa giovane, la constatazione non suona incoraggiante.
Il resto è storia, anzi, cronaca; gli organizzatori, interpellati al termine della manifestazione, hanno espresso una soddisfazione limitata: avrebbero voluto di più, sotto tutti i punti di vista. Per essere stata la prima “marcia per Gesù” dopo lustri, tutto sommato non è andata male. Certo, per il futuro andrebbero curati di più alcuni dettagli e un aspetto essenziale come l’arrivo.
Di solito un corteo si conclude sotto a un palco dove si alternano musica e qualche intervento teso a spiegare i perché dell’iniziativa. Questo aspetto, purtroppo, ha lasciato a desiderare: la marcia si è conclusa poco prima delle 17.30, e solo allora gli organizzatori si sono resi conto che mancava una conclusione. Appena mezz’ora dopo si riusciti a imbastire un palco improvvisato sul pianale di una jeep per proporre due brani musicali e un brevissimo messaggio di saluto. Che forse ha peccato di improvvisazione, finendo per parlare ai partecipanti più che ai curiosi di passaggio per piazza Castello, cui ci si sarebbe dovuti rivolgere con maggiore efficacia.
Come detto, è stato un primo passo: un primo passo verso una visibilità più significativa nei confronti della città, un primo passo verso qualcosa di concreto e di diverso dal solito; al contrario di tante manifestazioni “statiche”, di cui sono piene le piazze, una marcia che ferma il traffico e invade vociante le strade non può lasciare indifferenti i passanti. E sarebbe stata ancora più efficace, se solo le chiese fossero state capaci di guardare quattro passi più in là.