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Il trionfo dell'alibi

La notizia delle dimissioni di Dino Boffo, direttore di Avvenire, mi ha provocato lo stesso senso di smarrimento che mi aveva colto il 28 agosto scorso, di fronte alla prima pagina del Giornale. Un titolo urlato, un attacco personale nei confronti di un collega che ha espresso con sobrietà alcune obiezioni sulla moralità del premier. Niente a che vedere con le campagne mediatiche di altre testate, anche cattoliche, che in questi mesi avevano lanciato accuse e insinuazioni contro il Presidente del Consiglio: insomma, sembrava un caso montato sulla persona sbagliata.

Inizialmente l’avevamo presa come una campagna mediatica del Giornale, e lo stesso Berlusconi aveva assicurato di non essere al corrente della scelta di Feltri. Oggi che il fronte si allarga a un’altra testata di famiglia, qualche dubbio comincia a sorgere.

E, di fronte al rischio di una balcanizzazione del conflitto, viene infine da pensare che Dino Boffo abbia fatto bene.

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Il trionfo dell’alibi

La notizia delle dimissioni di Dino Boffo, direttore di Avvenire, mi ha provocato lo stesso senso di smarrimento che mi aveva colto il 28 agosto scorso, di fronte alla prima pagina del Giornale. Un titolo urlato, un attacco personale nei confronti di un collega che ha espresso con sobrietà alcune obiezioni sulla moralità del premier. Niente a che vedere con le campagne mediatiche di altre testate, anche cattoliche, che in questi mesi avevano lanciato accuse e insinuazioni contro il Presidente del Consiglio: insomma, sembrava un caso montato sulla persona sbagliata.

Inizialmente l’avevamo presa come una campagna mediatica del Giornale, e lo stesso Berlusconi aveva assicurato di non essere al corrente della scelta di Feltri. Oggi che il fronte si allarga a un’altra testata di famiglia, qualche dubbio comincia a sorgere.

E, di fronte al rischio di una balcanizzazione del conflitto, viene infine da pensare che Dino Boffo abbia fatto bene.

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Samaritani digitali

A Rhonda Surman evidentemente non andava proprio giù l’idea che quei due giovani sposini non avessero più le foto della loro luna di miele: aveva ritrovato la loro macchina fotografica digitale in un sito archeologico scozzese, senza nomi né altri riferimenti ai proprietari. Così, attraverso una ricerca in rete, la diffusione delle foto sui social network e la collaborazione degli internauti, è riuscita a risalire fino ad Aberdeen e alla casa dove viveva quella anonima coppia un po’ sbadata.

La storia ha ispirato il New York Times – e il Corriere, che l’ha rilanciata in Italia – perché rappresenta una nuova tendenza: quella dei «”digital Samaritans”, i samaritani digitali, quelli che non se ne fregano insomma, per identificare coloro che si impegnano per restituire oggetti ritrovati a chi li aveva originariamente perduti. Una missione, questa, che le nuove tecnologie rendono oggi particolarmente semplice».

Semplice, ma non scontata: il Corriere segnala che «è soprattutto l’intraprendenza personale, la voglia appunto di farsi buoni samaritani, a fare la differenza. Chi trova una macchina fotografica potrebbe anche decidere di tenersela. Consegnarla alle autorità di polizia può già sembrare un gran gesto, quanto basta per sentirsi a posto con la coscienza. Ma attivarsi e dedicare del tempo facendo di tutto per cercare di riportare l’oggetto nelle mani di chi l’ha perduto è decisamente qualcosa che va oltre».

Ed è forse questo il punto. Il web, insieme a tutta la tecnologia che ha invaso le nostre vite, è uno strumento, non un fine. Non vive di vita propria, non possiede una sua etica. Dipende da noi, ed è paradossale che talvolta ci ritroviamo convinti di dipendere da lui.

I mezzi sono neutri. Possiamo usarli per frodare le tasse, costruire bombe, allacciare rapporti poco raccomandabili. Oppure possiamo servircene per dare speranza a chi soffre, sollecitare le giuste domande, venire in aiuto di chi ha bisogno di noi. Ci permette di farlo più di ieri, meglio di ieri, in maniera più incisiva di ieri.

Le potenzialità ci sono, ma i contenuti dobbiamo metterli noi. Le tecnologie si limitano a enfatizzare, amplificare, portare all’estremo quello che siamo. E il modo in cui le usiamo racconta di noi, dei nostri valori, dei nostri scopi.

La tecnologia non ha un cuore. Noi sì. O almeno si spera.

Nomi da cani

Un commerciante marocchino porta una donna milanese davanti al Tribunale degli animali di Milano per una questione… da cani: la richiesta è «che la signora cinquantenne di religione cristiana cambi il nome al suo Mosè in quanto – a suo dire – nasconderebbe un richiamo religioso offensivo per la sua persona».

Farà sorridere, ma è successo davvero, in seguito a una scaramuccia (tra cani, e poi tra proprietari) a Parco Sempione.

Sia chiaro, non è il caso di avviare crociate: abbiamo problemi ben maggiori e motivi di indignazione molto più pressanti.

Dobbiamo però confessare che non ci ha mai convinto l’idea di chiamare un cane con il nome di un essere umano: sarà pure il migliore amico dell’uomo, ma resta un animale, e suona piuttosto bizzarro, al parco, sentirsi chiamare e scoprire che invece il richiamo era rivolto a un setter.

Qualche malizioso ricorderà che ormai sono gli uomini a usare nomi da cani, a partire dai nomi che i personaggi famosi impartiscono ai loro figli per concedersi qualche minuto di visibilità ulteriore.

Difficile darsi una regola quando non c’è più logica né buonsenso.

Eppure, nonostante questo – e forse proprio per compensare queste assenze – non dovremmo transigere da un punto fermo: il rispetto.

Si può non amare, ma non è giusto illudere chi ama. Si può non credere, ma è opportuno non offendere chi crede. Forse la richiesta del signore musulmano è strumentale e un po’ capziosa («alquanto stranuccio che a chiedere il cambio di nome non sia un cittadino di fede ebraica, bensì un musulmano», commenta La Stampa), ma molti altri avrebbero potuto fare la sua stessa osservazione: perché chiamare un cane con il nome di uno tra i più grandi profeti della Bibbia, padre della nazione ebraica, tra i personaggi biblici più ammirati anche in ambito cristiano?

Forse manca la fantasia per inventarsi qualcosa di diverso. O, forse, la risposta è ancora più agghiacciante, ma non così improbabile nel nostro paese: la signora ha dato al suo cane quel nome ignorandone l’origine biblica, convinta che si trattasse semplicemente di un personaggio di fantasia, protagonista di quel cartone animato così di moda qualche anno fa.