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Il prezzo del successo
«Le donne hanno paura di dire che non vogliono figli. Ma io penso che le cose, adesso, stiano cambiando. Ho più amiche che non hanno bambini, rispetto a quelle che li hanno. Onestamente, non abbiamo bisogno di più bambini. Abbiamo un sacco di persone su questo pianeta» si sfoga Cameron Diaz, l’attrice con un viso da baby sitter che però, a quanto pare, di pargoli non vuole sentir parlare: 37 anni e «una vita incredibile». Anzi, precisa, «In un certo senso, ho questo tipo di vita proprio perché non ho figli».
Le fanno eco varie starlette e attrici italiane che rimandano, glissano, o dicono chiaramente di non sentirne il bisogno. Qualcuna, come Valeria Golino, va oltre e si lancia in un’analisi arguta: «Avere almeno un figlio è quasi un obbligo, un desiderio indotto dal nuovo conformismo. E questo mentre finisce l’epoca delle grandi certezze, della famiglia com’era, della coppia com’era».
A confortare la posizione child-free delle attrici c’è anche il supporto dell’immancabile esperta: «L’identità femminile non può essere definita soltanto dalla maternità».
Molto vero, anche se onestamente troviamo difficile trovare qualcuno che, nell’anno di grazia 2009, sia davvero convinto che la donna serva solo a fare figli, e non le riconosca invece un ruolo essenziale – solamente, concedetecelo, complementare e non competitivo rispetto all’uomo – nella società.
In fondo, si potrebbe concludere, non è un obbligo: se uno non ritiene di mettere al mondo dei figli eviti di farlo, e la società eviti di colpevolizzare la sua scelta. Certo, è ironico notare come in molti casi chi potrebbe averne non li vuole per nessun motivo, mentre chi non può smuove mari e monti per ottenere quello che considera un privilegio: questa, però, è un’altra faccenda.
Quel che invece è sintomatico, da parte delle attrici candidate a non diventare mamme, è che sono tutte sostanzialmente single. Le due cose, peraltro, oggi non sono collegate – anzi, spesso prevale un’inversione dei passaggi tradizionali: prima un bebè, poi eventualmente il matrimonio – ma possono essere un sintomo della stessa difficoltà: la difficoltà a impegnarsi, a vivere un rapporto, ad accettare le responsabilità, ad affrontare una sfida di vita.
Ubriacate dal lavoro, le ragazze si ritrovano prigioniere del loro status “incredibile” (termine che usiamo con tutte le riserve del caso), protagoniste e vittime di uno star-system che non consente una vera vita privata, un vero progetto a lungo termine, veri rapporti umani.
È il prezzo del successo, quel successo che cambia la vita e, spesso, rende instabile l’equilibrio interiore delle star. Quel successo che, come una droga, inibisce le difese immunitarie dello spirito, e rende la persona sempre più debole e influenzabile, erode scelta dopo scelta la sua dignità, ottunde il suo metro di giudizio e le scelte in campo morale, etico, spirituale.
Ma quel che stupisce forse di più è la mancanza di prospettive. Oggi sono felice, oggi vivo una vita meravigliosa, oggi non ne sento il bisogno.
Come in un brutto film urlano al mondo la propria indipendenza e si credono invincibili, immortali. Nessuna preoccupazione per domani o dopodomani, quando la bellezza sarà sfiorita, la fama sarà sfumata, i fan saranno un ricordo e il confronto con il passato renderà ancora più atroce il presente.
In quei momenti solo la presenza di rapporti umani reali, custodi di un’intimità e di una complicità costruite e consolidate nel tempo, potrà garantire quella serenità e quell’equilibrio necessari a non cadere nel vortice della disperazione.
Grammatica e pratica
Sono giovanissimi, educati, vestiti sobriamente, con l’aria da bravi ragazzi. Li si riconosce da lontano: pantaloni scuri, camicia chiara, capelli corti, zaino nero, aria da americano yes-we-can. E, a distinguerli, un cartellino appuntato sul petto con nome, cognome e carica.
Sono i missionari mormoni, che vediamo girare nelle nostre città e, con garbo, avvicinarsi per raccontarci della loro fede e della loro dottrina. Non sempre, a dire il vero, sanno affrontare al meglio il contesto culturale italiano, ma ci provano sempre, con le armi che la scuola biblica ha dato loro e, quando non basta, con una dose di impegno pratico che va dai corsi d’inglese alle ripetizioni per studenti.
Qualcuno, forse, si sarà chiesto che fine facciano questi ragazzi una volta tornati in patria: anche se i mormoni sono una realtà numerosa, sarebbero comunque troppi per impegnarsi come responsabili di chiesa.
E allora? Il mistero è stato svelato sabato in un servizio sulla Stampa: «In gioventù i mormoni hanno l’obbligo di servire per almeno 24 mesi nelle missioni in giro per il mondo», un’esperienza che consente loro di imparare e raffinare le strategie comunicative fino a diventare ottimi venditori.
La Pinnacle Security, racconta il quotidiano, ha successo grazie a «prodotti competitivi, ma anche a una straordinaria rete di vendita diffusa su tutto il territorio americano e gestita sovente da ex missionari che mettono le esperienze maturate con la fede al servizio del business».
«È una missione trasformata in lavoro», spiega uno degli ex missionari che «come molti dei suoi colleghi si è fatto le ossa professando il suo credo, parla tre lingue, e ha sviluppato una capacità di convincimento degna del più abile negoziatore… Durante le missioni si apprendono vere e proprie tecniche di comunicazione» e «alcuni fondamenti validi in ogni situazione».
L’esempio mormone è una lezione utile.
Non sono in pochi a essere convinti che bastino la teoria e la conoscenza biblica per raggiungere le persone con il messaggio di speranza del vangelo. Hanno le loro risposte preconfezionate, che prescindono dalle possibili domande dell’interlocutore, e che si rifanno sempre agli stessi temi, alle stesse citazioni bibliche, e perfino allo stesso linguaggio. Un monologo dai toni passatisti che, comprensibilmente, non coinvolge troppo la controparte, e talvolta perfino la irrita.
Se provate a obiettare a questi evangelisti retrò che sarebbe opportuno adattarsi al contesto in cui vivono, risponderanno che “il messaggio del vangelo non cambia”. Questo, nella loro prospettiva, li autorizza a usare lo stesso linguaggio aulico di Luzzi, e talvolta perfino gli arcaismi di Diodati.
Ma solo quando parlano di Dio, ovviamente. Non certo al supermercato, in ufficio, a casa. Il tono formale scatta solo in certe specifiche occasioni.
Per il resto, curiosamente, quelle stesse persone non disdegnano di impegnarsi a usare i termini più corretti per rendere interessante un annuncio sul giornale, o di usare la formula più efficace per convincere l’assemblea condominiale.
A quanto pare solo quel vangelo che sta tanto a cuore non può giovarsi di questo privilegio: il privilegio della comprensibilità.
E dire che la società avrebbe bisogno di una risposta e, in fondo, sta solo cercando qualcuno che gliela sappia presentare in maniera comprensibile. I mormoni, nel loro piccolo, qualcosa hanno capito.