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L'ossessione della religione
«A Gerusalemme – racconta il Corriere -, gli psichiatri hanno individuato e pubblicato su una rivista scientifica la loro ricerca sulla “sindrome da preghiera compulsiva”. Una forma d’ossessione che prende seminaristi di collegi rabbinici».
Al momento all’ospedale ci sono «tre casi che definiscono “interessanti”. Uno riguarda un ragazzo di 18 anni: “Questi pazienti sono ossessionati da domande che ripetono: Ho avuto pensieri eretici?, oppure Dio è soddisfatto di come prego?”».
La cura scelta per questi casi è “omeopatica”, legata al problema: «Organizziamo colloqui sulla fede e cerchiamo di cambiare la loro prospettiva, per esempio rimuovendo la paura d’una punizione divina se non s’è pregato come si deve».
«Il problema per i medici, però, è che serve una preparazione teologica profonda, per affrontare discussioni con studiosi dell’ebraismo. “In effetti, dobbiamo essere pronti un po’ su tutto. Quando non ci arriviamo noi, ci facciamo aiutare da alcuni rabbini”».
Quando la fede diventa religione, la spiritualità può diventare psicosi o mania. Faremmo bene a ricordarlo sempre. Non a caso la Bibbia non ci chiama al rispetto di una serie di regole divine, ma a un rapporto personale con Dio: rapporto agevolato da un approccio sano e consapevole alla vita e a un rispetto dei sui suoi principi, ma che non deve mai diventare lo scopo della nostra esistenza.
Confondere fede e religione è come invertire causa ed effetto: amo Dio, e per questo lo seguo, mi adattando alla sua volontà – per il mio bene, oltretutto – facendola sempre più mia. Ma al centro della mia vita non c’è un insieme di norme: c’è Dio.
L’ossessione della religione
«A Gerusalemme – racconta il Corriere -, gli psichiatri hanno individuato e pubblicato su una rivista scientifica la loro ricerca sulla “sindrome da preghiera compulsiva”. Una forma d’ossessione che prende seminaristi di collegi rabbinici».
Al momento all’ospedale ci sono «tre casi che definiscono “interessanti”. Uno riguarda un ragazzo di 18 anni: “Questi pazienti sono ossessionati da domande che ripetono: Ho avuto pensieri eretici?, oppure Dio è soddisfatto di come prego?”».
La cura scelta per questi casi è “omeopatica”, legata al problema: «Organizziamo colloqui sulla fede e cerchiamo di cambiare la loro prospettiva, per esempio rimuovendo la paura d’una punizione divina se non s’è pregato come si deve».
«Il problema per i medici, però, è che serve una preparazione teologica profonda, per affrontare discussioni con studiosi dell’ebraismo. “In effetti, dobbiamo essere pronti un po’ su tutto. Quando non ci arriviamo noi, ci facciamo aiutare da alcuni rabbini”».
Quando la fede diventa religione, la spiritualità può diventare psicosi o mania. Faremmo bene a ricordarlo sempre. Non a caso la Bibbia non ci chiama al rispetto di una serie di regole divine, ma a un rapporto personale con Dio: rapporto agevolato da un approccio sano e consapevole alla vita e a un rispetto dei sui suoi principi, ma che non deve mai diventare lo scopo della nostra esistenza.
Confondere fede e religione è come invertire causa ed effetto: amo Dio, e per questo lo seguo, mi adattando alla sua volontà – per il mio bene, oltretutto – facendola sempre più mia. Ma al centro della mia vita non c’è un insieme di norme: c’è Dio.
Desideri senza limiti
Chissà perché, nella nostra società, esistono personaggi che non sono disposti a fermarsi nemmeno di fronte ai drammi umani.
Del caso di Eluana Englaro si è voluto fare un simbolo, un paradigma, travalicando l’interesse della paziente e il suo diritto a un dignitoso silenzio. Non sono mancati, attorno al padre, personaggi più o meno attendibili, pronti ad affannarsi con dichiarazioni avventate – o quantomeno dubbie – in cerca di una visibilità pelosa che odora di sciacallaggio.
Ora emerge il caso di una donna che vuole un figlio dal marito in coma, malato di tumore al cervello. Poteva essere l’occasione per dimostrare che dal caso Englaro si era imparato qualcosa, e invece no.
La Repubblica scrive che «Antinori è arrivato come un ciclone al Policlinico San Matteo di Pavia, dopo che l’ospedale aveva dato l’ok al prelievo di liquido seminale».
Si tratta, spiega il quotidiano, del «professor Severino Antinori, il ginecologo-star, esperto di fecondazione assistita».
Se sia lecito, legale, etico non conta molto per il luminare, che – stando a Repubblica – ha espresso un bellicoso: «E adesso si va avanti. Voglio vedere come ci possono fermare».
Se sono davvero parole sue, il quadro è preoccupante. Una vicenda simile richiederebbe delicatezza e tatto.
Forse sarebbe stato il caso di chiedersi se la visibilità, i riflettori, il rumore dei media facciano l’interesse del paziente o del medico.
Forse bisognerebbe chiedersi se, magari inconsciamente, dietro a una dichiarazione come «procederemo alla fecondazione, secondo una nuova tecnica che ho sviluppato io stesso» non ci sia brama di apparire, più che interesse scientifico.
Per il momento nessuno si chiede nulla. Tutti a rivendicare i propri diritti e a perseguire i propri desideri, a costo di forzare i limiti, pur di raggiungere l’obiettivo. Come in un dibattito, il risultato finisce per non contare più: l’importante è ribadire le proprie ragioni a prescindere da una serena riflessione sulle motivazioni che spingono in una direzione, e le conseguenze che le scelte potranno avere a breve, medio, lungo termine.
Vale la logica del talk show, dove chi parla più forte ha ragione, e chi tace ha torto. E ad avere torto è il nascituro, che per ora esiste solo nei pensieri dei contendenti e che pare al centro dell’attenzione, ma sul cui triste futuro da orfano annunciato nessuno si interroga.
Giovani di ritorno
Famiglia Cristiana questa settimana dedica un servizio a un interessante fenomeno: si parla delle “sempre più numerose coppie di anziani che si dedicano al volontariato”.
Il titolo è accattivante: “Il pensionato va in missione. Dopo una vita intera dedicata al lavoro, ai figli e ai nipoti, prendono il largo in spirito evangelico e vanno ovunque ci sia bisogno di loro. Magari per aiutare preti amici”.
Si racconta la storia di due “ottantacinquenni, ingegnere elettronico lui, architetto lei, 57 anni di matrimonio, quattro figli e 12 nipoti. Questa coppia ha conservato uno spirito così giovanile da essere stata di recente due volte in Ruanda“.
E poi c’è il 65.enne che racconta: «Sulla soglia della pensione, dopo una vita lavorativa intensa, con un gruppo di amici ci siamo chiesti: “E adesso cosa facciamo?”. Abituati a girare il mondo per lavoro, abbiamo continuato a farlo a nostre spese per gratuità, senza inventarci niente, solo rispondendo ai bisogni che ci siamo trovati davanti».
L’ex direttore della Sea, «da sempre impegnato nella sua società a ottenere spedizioni a costo zero di generi di prima necessità in Kazakhstan, oggi che è in pensione ha “adottato”, insieme all’amico Scarfone, una trentina di giovani kazaki, organizzando corsi in Italia per manager, così da favorire poi la nascita di un’imprenditorialità locale».
E poi un ex dirigente HP, che sta portando avanti progetti «fuori dagli schemi e riflettono l’imprevedibilità della vita e degli incontri: una scuola in Cile per 150 ragazzi disabili, corsi professionali alla periferia di Nairobi, la clinica per malati terminali».
Infine un ex amministratore delegato che spiega come «L’opera che più mi ha entusiasmato è stata in Uganda, dove siamo riusciti a collegare in rete 46 centri medici sparsi in tutto il Paese con l’ospedale centrale di Kampala».
Insomma: anziani, ma per niente fuori dai giochi. Persone che hanno visto il ritiro dalla scena lavorativa come una nuova sfida, e non come una sconfitta.
Nessun sintomo di depressione, ma tante energie e il desiderio di spenderle nel modo migliore: mettendo a disposizione i propri talenti di amminsitratori, le proprie competenze, i propri ex contatti professionali in maniera disinteressata per il bene degli altri.
Quant’è diversa l’immagine di questi giovani di ritorno da quella del classico pensionato disteso sul divano, che macina talk show e reality, chiama per nome i conduttori, si appassiona alle gesta dei corteggiatori televisivi, si commuove di fronte alle lacrime preconfezionate dei postini catodici.
Temiamo di conoscerne più di qualcuno, purtroppo. E allora vorremmo proporre un ulteriore impegno a chi ha saputo mettere la propria vita post-lavorativa al servizio degli altri: non limitatevi ad aiutare chi ha bisogno, ma siate testimoni di ciò che si può fare a fine carriera; raccontate sogni e opportunità ai tanti pensionati che tirano sera senza uno scopo.
Date una vera speranza a quanti vedono in una chiave egoistica e limitata il loro “meritato riposo”.
Fatelo, per favore, e non sentitevi sminuiti: anche questo, in fondo, è dare al prossimo un futuro migliore.