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Dieci anni dopo
Risulta sempre un po’ retorico, e piuttosto pericoloso, parlare di decenni: come esseri umani facciamo difficoltà a ricordare i fatti dell’ultima settimana, e con fatica mettiamo insieme gli avvenimenti dell’anno, figurarsi il senso di inadeguatezza e l’angoscia nell’affrontare un periodo dieci volte più ampio.
Eppure, con il 31 dicembre 2009, si chiude il primo decennio del nuovo secolo, o – absit iniuria verbis – del terzo millennio. Un decennio è già un lasso di tempo che perde di vista la quotidianità per tendere alle unità di misura adottate dalla storia: in un decennio – specie in un decennio di un’epoca come questa – il mondo cambia significativamente.
Il profumo dell'altruismo
In Piemonte si sono inventati il Bosco del silenzio. L’idea è venuta a Oscar Farinetti, imprenditore «noto per aver creato Unieuro e poi Eataly. Quello che aveva convinto anche Tonino Guerra a parlare in pubblico, a dire in tv “L’ottimismo è il sale della vita“».
Lasciati da parte (temporaneamente?) i suoi affari, Farinetti ha acquistato tredici ettari di bosco, «l’ultimo vero bosco di bassa Langa, l’unico che si sia salvato dall’invasione della vite». E per questo, spiega ha deciso «non solo di conservarlo, ma di dargli una destinazione particolare. Di farlo diventare il regno del silenzio e della riflessione».
In un percorso a tappe in due versioni, adatto a tutti, è possibile incontrare la natura, la letteratura con citazioni di grandi autori («da Leopardi a Baudelaire, da Fenoglio a Pavese a Whitman, da Maupassant a padre Turoldo») e se stessi.
Il percorso è gratuito, unica richiesta per essere ammessi nel bosco: impegnarsi a camminare in silenzio. Nessun divieto, beninteso, ma solo la richiesta di non interrompere i pensieri altrui con la propria voce.
Non ci soffermeremo a parlare del silenzio e dei suoi privilegi, dato che lo abbiamo fatto altre volte.
Ciò che fa riflettere è l’impegno di questo affermato professionista: un imprenditore di successo che non si limita a curare le sue aziende, ma ricava del tempo per creare qualcosa di bello, utile, da condividere con gli altri.
Probabilmente non ha molto più tempo dei suoi colleghi – e di ognuno di noi -, i problemi non gli mancano, gli imprevisti saranno anche per lui all’ordine del giorno. Eppure ha deciso di non lasciarsi travolgere da un diktat egoistico – il successo professionale – e lasciare il segno realizzando qualcosa di buono.
Viene da chiedersi come sarebbe il nostro Paese se fossero meno rari i personaggi come Farinetti, e non solo tra i professionisti. Chissà come sarebbe la nostra città se prendessimo sul serio quel mandato relazionale che Cristo ci ha assegnato, e decidessimo di dedicare una parte delle nostre risorse (tempo, energie, denaro) al benessere altrui.
Potremmo farlo come e meglio degli altri, ben sapendo che il benessere nasce dal profondo e non dai beni materiali; riusciremmo dare qualche consiglio non solo teorico, ma sperimentato in prima persona su cosa significhi affrontare le difficoltà con il conforto della fede.
Un bosco del silenzio, una casa della speranza, una scuola di valori, una sala di riflessione, un consultorio per un aiuto: tutte idee buone, che non dovremmo lasciare sempre agli altri.
Perché anche un bosco dove riflettere e trovare ispirazione può risultare efficace. Talvolta perfino più efficace dell’ennesima chiesa.
Il profumo dell’altruismo
In Piemonte si sono inventati il Bosco del silenzio. L’idea è venuta a Oscar Farinetti, imprenditore «noto per aver creato Unieuro e poi Eataly. Quello che aveva convinto anche Tonino Guerra a parlare in pubblico, a dire in tv “L’ottimismo è il sale della vita“».
Lasciati da parte (temporaneamente?) i suoi affari, Farinetti ha acquistato tredici ettari di bosco, «l’ultimo vero bosco di bassa Langa, l’unico che si sia salvato dall’invasione della vite». E per questo, spiega ha deciso «non solo di conservarlo, ma di dargli una destinazione particolare. Di farlo diventare il regno del silenzio e della riflessione».
In un percorso a tappe in due versioni, adatto a tutti, è possibile incontrare la natura, la letteratura con citazioni di grandi autori («da Leopardi a Baudelaire, da Fenoglio a Pavese a Whitman, da Maupassant a padre Turoldo») e se stessi.
Il percorso è gratuito, unica richiesta per essere ammessi nel bosco: impegnarsi a camminare in silenzio. Nessun divieto, beninteso, ma solo la richiesta di non interrompere i pensieri altrui con la propria voce.
Non ci soffermeremo a parlare del silenzio e dei suoi privilegi, dato che lo abbiamo fatto altre volte.
Ciò che fa riflettere è l’impegno di questo affermato professionista: un imprenditore di successo che non si limita a curare le sue aziende, ma ricava del tempo per creare qualcosa di bello, utile, da condividere con gli altri.
Probabilmente non ha molto più tempo dei suoi colleghi – e di ognuno di noi -, i problemi non gli mancano, gli imprevisti saranno anche per lui all’ordine del giorno. Eppure ha deciso di non lasciarsi travolgere da un diktat egoistico – il successo professionale – e lasciare il segno realizzando qualcosa di buono.
Viene da chiedersi come sarebbe il nostro Paese se fossero meno rari i personaggi come Farinetti, e non solo tra i professionisti. Chissà come sarebbe la nostra città se prendessimo sul serio quel mandato relazionale che Cristo ci ha assegnato, e decidessimo di dedicare una parte delle nostre risorse (tempo, energie, denaro) al benessere altrui.
Potremmo farlo come e meglio degli altri, ben sapendo che il benessere nasce dal profondo e non dai beni materiali; riusciremmo dare qualche consiglio non solo teorico, ma sperimentato in prima persona su cosa significhi affrontare le difficoltà con il conforto della fede.
Un bosco del silenzio, una casa della speranza, una scuola di valori, una sala di riflessione, un consultorio per un aiuto: tutte idee buone, che non dovremmo lasciare sempre agli altri.
Perché anche un bosco dove riflettere e trovare ispirazione può risultare efficace. Talvolta perfino più efficace dell’ennesima chiesa.
La prospettiva sul dolore
Farà certamente discutere la ricerca svolta dall’università tedesca di Monaco, secondo la quale l’agopuntura avrebbe solo un effetto placebo.
La conclusione arriva dopo aver preso in considerazione 6.700 pazienti, sottoposti a sedute di agopuntura effettuate senza tener conto delle tecniche orientali. Gli aghi venivano inseriti dagli addetti, ma non nei punti giusti, ossia non lungo le cosiddette “linee di pressione”. Il risultato è stato che i pazienti hanno comunque provato sollievo ai dolori.
Gli esperti si sono affrettati a precisare che questo non dimostra l’inefficacia dell’agopuntura, ma solo che spesso i risultati di una cura dipendono più da noi che dalla cura stessa: dalla fiducia, dall’approccio ottimista, dall serenità, dalla convinzione del paziente.
Una conclusione che fa riflettere. Forse dovremmo rivalutare il nostro approccio con la medicina, che naturalmente non è inutile, ma deve essere gestita con buonsenso. Troppo spesso ci affidiamo in maniera acritica alla scienza o alla medicina alternativa; abbiamo fretta di guarire, di stare meglio, di ripartire con le nostre attività, di non interrompere i nostri impegni. È fuori dalle nostre corde l’idea di pensare ai perché di una situazione, di fermarci, di prendere in considerazione l’idea che anche la malattia sia funzionale alla nostra vita, un momento fisiologico con un significato.
Da perfetti occidentali, pragmatici e inquadrati, semplicemente rifiutiamo l’idea di poter stare male, e bombardiamo a forza di pastiglie anche le indisposizioni più banali.
Quando poi ci troviamo ad affrontare una malattia, o un disagio, o un problema che non si può risolvere nel giro di 24 ore con una semplice ricetta medica, andiamo in crisi: estremizziamo la situazione, cominciamo a dubitare dell’amore di Dio e perfino la nostra fede ne esce provata.
In altre parti del mondo i “saggi” hanno sviluppato una sensibilità diversa nei confronti della malattia; parlando di “energie” hanno concentrato la loro attenzione sulla causa prima ancora che sull’effetto; scoprendo la “meditazione” hanno fatto propria la pazienza e la riflessione su quel che avviene attorno e dentro noi.
Da noi ha prevalso una prospettiva diversa, materiale e concreta, che alla lunga non ci convince più: per questo ormai molte persone considerano l’adesione alle filosofie orientali come una risposta adeguata al noto logorio della vita moderna.
Stupisce, ma forse non dovrebbe: spesso come cristiani puntiamo (consciamente o meno) a salute e ricchezza, liquidando la malattia e la disgrazia; cerchiamo il successo nel più breve tempo possibile, scartando con imbarazzo l’eventualità che non sia quella la nostra strada; vagheggiamo chiese grandi, sane, compatte e felici, svicolando di fronte all’idea che la chiesa possa essere anche travagliata, sofferente, esigua.
Se ci poniamo in una simile prospettiva non dovremmo poi stupirci nell’assistere al tracollo del vangelo in occidente: se la sofferenza per noi è solo un momento da cui uscire prima possibile, il nostro messaggio sarà un banale riflesso della nostra società, più che una seria riflessione sul vangelo.
Il predicatore della A3
Istruttiva, come spesso accade, la puntata di “La Storia siamo noi” sulla Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada infinita, interessante specchio del nostro paese tra ritardi, incapacità, approssimazione.
Tra le tante vicende umane raccontate – protezione civile e carri attrezzi sempre presenti sul percorso, autisti inviperiti, code pazienti – compare anche “un predicatore evangelico”, che – spiega il servizio «ha individuato la Salerno-Reggio Calabria, vista la sua altissima densità umana, come luogo ideale per diffondere la parola del Signore».
Si ferma su una delle piazzole di sosta con il suo furgone bianco caratterizzato sui lati dalle scritte “Solo Gesù salva” e “Gesù è la via, la verità e la vita” e aspetta: «Quando mi fermo in qualche area di servizio ognuno fa una domanda, e io gli do la risposta. Sono uno che crede in Gesù Cristo, e ho fede in lui; il Signore ci ha dato anche il compito di distribuire la sua Parola», spiega l’anonimo e bonario evangelizzatore, che poi riassume in breve la sua esperienza di fede davanti alla telecamera. E, parlando di un’autostrada in costruzione, non può non concludere con una battuta: «ci saranno sempre interruzioni» sulle strade, dato che «vanno sempre allargate; ma se parliamo delle strade, a noi interessa una unica strada: Gesù».
Niente da dire: ruspante ma efficace.