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Abbracci e responsabilità
«Baci e abbracci in culla contro il futuro stress: le coccole di mamma fanno adulti più forti. L’affetto materno è un’arma fondamentale per divenire adulti capaci di resistere alle tensioni quotidiane, più sicuri di sé, meno ansiosi e ostili», scrive La Repubblica.
Una paziente ricerca finlandese «ha selezionato 482 bebè e li ha seguiti nella crescita fino all’età di 34 anni. Gli psicologi hanno valutato il grado di affettività e di attaccamento materno quando il piccolo aveva solo otto mesi. Poi, a distanza di anni, con questionari ad hoc, hanno misurato il livello di sicuri e forti, capaci di vincere gli stress della vita. Tali soggetti mostrano livelli di ansia e ostilità fino a sette punti inferiori a quelli mostrati dai loro coetanei le cui mamme non hanno instaurato coi figli ancora in fasce un legame altrettanto affettuoso. L’affetto materno, dunque, è un’ottima risorsa per crescere pronti ad affrontare la vita».
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Quel mistero chiamato vita
Sul delicato tema si era cimentato, di recente, anche il dr House: il celebre medico televisivo, per un giorno ricoverato fuori dal suo reparto, si trovava a contestare le opinioni del primario secondo il quale uno dei ricoverati era ormai irrecuperabile e destinato al trapianto.
Per una volta la realtà ha, se non superato, quantomeno raggiunto le iperboli della sceneggiatura: un uomo, Rom Houben, reduce da un incidente automobilistico nel 1983 e ritenuto irrecuperabile, è tornato a vivere. O, come dice lui ora, “sono nato un’altra volta”.
Desideri senza limiti
Chissà perché, nella nostra società, esistono personaggi che non sono disposti a fermarsi nemmeno di fronte ai drammi umani.
Del caso di Eluana Englaro si è voluto fare un simbolo, un paradigma, travalicando l’interesse della paziente e il suo diritto a un dignitoso silenzio. Non sono mancati, attorno al padre, personaggi più o meno attendibili, pronti ad affannarsi con dichiarazioni avventate – o quantomeno dubbie – in cerca di una visibilità pelosa che odora di sciacallaggio.
Ora emerge il caso di una donna che vuole un figlio dal marito in coma, malato di tumore al cervello. Poteva essere l’occasione per dimostrare che dal caso Englaro si era imparato qualcosa, e invece no.
La Repubblica scrive che «Antinori è arrivato come un ciclone al Policlinico San Matteo di Pavia, dopo che l’ospedale aveva dato l’ok al prelievo di liquido seminale».
Si tratta, spiega il quotidiano, del «professor Severino Antinori, il ginecologo-star, esperto di fecondazione assistita».
Se sia lecito, legale, etico non conta molto per il luminare, che – stando a Repubblica – ha espresso un bellicoso: «E adesso si va avanti. Voglio vedere come ci possono fermare».
Se sono davvero parole sue, il quadro è preoccupante. Una vicenda simile richiederebbe delicatezza e tatto.
Forse sarebbe stato il caso di chiedersi se la visibilità, i riflettori, il rumore dei media facciano l’interesse del paziente o del medico.
Forse bisognerebbe chiedersi se, magari inconsciamente, dietro a una dichiarazione come «procederemo alla fecondazione, secondo una nuova tecnica che ho sviluppato io stesso» non ci sia brama di apparire, più che interesse scientifico.
Per il momento nessuno si chiede nulla. Tutti a rivendicare i propri diritti e a perseguire i propri desideri, a costo di forzare i limiti, pur di raggiungere l’obiettivo. Come in un dibattito, il risultato finisce per non contare più: l’importante è ribadire le proprie ragioni a prescindere da una serena riflessione sulle motivazioni che spingono in una direzione, e le conseguenze che le scelte potranno avere a breve, medio, lungo termine.
Vale la logica del talk show, dove chi parla più forte ha ragione, e chi tace ha torto. E ad avere torto è il nascituro, che per ora esiste solo nei pensieri dei contendenti e che pare al centro dell’attenzione, ma sul cui triste futuro da orfano annunciato nessuno si interroga.
Jannacci, il laico imprudente
Interessante l’intervista di Enzo Jannacci pubblicata oggi sul Corriere in relazione al caso di Eluana Englaro: il cantautore, di professione medico, nonostante si definisca “ateo laico molto imprudente” offre alcune riflessioni profonde e, nella loro sostanza, molto cristiane.
«Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l’alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale», spiega a Fabio Cutri. Non se ne può fare una questione di tempo: diciassette anni di coma sono tanti, riflette Jannacci, «ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».
Jannacci avverte anche che, quando si parla di casi come questo, si fa un uso superficiale e irresponsabile dei termini: «Piano, piano… inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l’idea di non potergli più stare accanto».
Lo dice senza dimenticare la sofferenza di Beppino Englaro («Bisogna stare molto vicini a questo padre»), ma ricordando anche che «la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque».
Da laico, Jannacci non rifiuta l’idea di anticipare la morte per alleviare il dolore, «ma – confessa – anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover “staccare una spina”: sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».
E a chi mette in dubbio la propria dignità di uomo a causa della malattia cercerebbe «di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza».
Sarà che, per carattere, è l’antitesi del dr. House («In reparto mi rimproveravano: “Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c’entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti”»), però si percepisce, in questa sua posizione, anche qualcosa di più, una sensibilità particolare per “la figura del Cristo” che, spiega Jannacci, «In questi ultimi anni è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l’idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».
Sì, più si rileggono e più ci si rende conto che sono parole decisamente inusuali per un “ateo laico molto imprudente”. E, forse, anche per qualche cristiano.
Preghiere pericolose
«Un’infermiera del Somerset (Inghilterra) rischia il licenziamento per essersi offerta di pregare per una paziente. Caroline Petrie è stata sospesa dal servizio per aver offerto sostegno cristiano durante una visita a casa ad una donna anziana».
Le notizie che arrivano dalla Gran Bretagna, sono sempre istruttive.
Riassunto delle puntate precedenti: nella patria del diritto e della libertà non è possibile festeggiare una ricorrenza che abbia un sentore religioso; è vietato indossare un oggetto configurabile come cristiano; è proibito pregare per chi ci sta vicino.
Come se non bastasse, ora è censurabile addirittura chiedere a un proprio paziente se apprezzerebbe la nostra preghiera nei suoi confronti.
L’infermiera faceva proprio questo: si limitava a chiedere ai suoi pazienti se volessero ricevere una preghiera. Si tratta di un gesto che, in un paese civile, verrebbe considerato pietoso e gentile, se non addirittura umano.
Chi soffre, di solito, sente il bisogno di dare un senso al suo dolore, cerca di comprendere la sua condizione, si interroga sulla vita e – talvolta – sulla morte. Una parola gentile che scaturisce da una fede serena può dare più sollievo di un farmaco.
Interessante notare anche che – stando al Corriere – l’infermiera correttamente non imponeva la preghiera, e si asteneva perfino dal proporla a coloro che riteneva potessero venir turbati da una simile offerta: e infatti a segnalare il caso è stata una anziana signora che, ironia della sorte, si definisce cristiana, e che ha riferito il fatto a un’altra infermiera, a quanto pare pronta a riferire alla direzione l’increscioso incidente.
Tant’è: l’infermiera è stata sospesa per aver voluto andare oltre, aiutare in ogni modo a lei possibile i malati che le erano stati affidati, certa che la malattia non sia solo un accidente fisico, ma (difficilmente si potrà sostenere il contrario) rattristi anche lo spirito.
Apprendiamo quindi che, in un paese laico e libero, l’infermiera deve limitarsi a fasciare le piaghe e tacere. Curioso, decisamente. Ci avevano raccontato che per certe professioni è necessaria una vocazione, specialmente quando si tratta di sopportare il peso di un contatto quotidiano con la sofferenza del prossimo: per questo ci eravamo illusi che la solidità spirituale potesse essere un valore aggiunto per chi opera in settori delicati come la sanità.
E invece no. Scopriamo che il medico, asettico nel suo camice bianco, deve limitarsi a guardarci come guarderebbe una cavia da laboratorio, considerando la nostra patologia come una semplice sfida e la nostra persona come un banale ammasso di reazioni fisiochimiche. Non dovrebbe proferire parola, perché potrebbe urtare la sensibilità del paziente; non dovrebbe accennare un sorriso, perché potrebbe offendere il credo di chi vede la malattia come un dono; non dovrebbe elargire rassicurazioni, perché potrebbe turbare la fede del paziente fatalista.
Un paese con un sistema sanitario come questo sarà sicuramente un paese laico. Ma, francamente, non lo definiremmo un paese libero.