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La dimensione del dovere

Siamo sicuri che la cittadinanza sia la soluzione di tutti i problemi legati alla convivenza multietnica? Ma soprattutto: siamo sicuri di sapere cosa sia la cittadinanza?

Il problema se lo poneva, qualche settimana fa su Sette, Angelo Panebianco, rilevando che «Uno degli errori che si commettono quando si parla di cittadinanza è di enfatizzarne solo la dimensione dei “diritti”». Essere cittadino italiano, secondo questa prospettiva, consente di godere di alcuni diritti garantiti dalla Costituzione e difendibili anche in sede legale.

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Un bisogno a tutto tondo

L’alzheimer? Si combatte lavorando. È la conclusione di una equipe britannica che ha analizzato oltre milletrecento persone in relazione al progresso del morbo, incrociando i dati con significative vicende della vita.

Si è così scoperto che andare in pensione presto è deleterio: non è il riposo che ci salva, ma il lavoro, che andrebbe portato avanti per tutta la vita, possibilmente senza cambiarlo.

Sorvolando su questo ultimo dettaglio, che mette in difficoltà le nuove generazioni (un giovane oggi difficilmente potrà mantenere lo stesso impiego per tutta la vita), la ricerca rivela una verità: non siamo nati per battere la fiacca, ma per renderci utili.

Che la nostra sia la società delle contraddizioni ormai è evidente: i settantenni competono per forma fisica con i trentenni e si offendono se vengono definiti “anziani”, ma aspirano al pensionamento come alla terra promessa, fine di tutte le pene. La vedono come una vacanza a vita, che però dopo i primi mesi comincia a rivelarsi una gabbia dorata.

Fa una certa pena vedere persone ancora valide sprecare il loro tempo giocando a carte al bar, o commentando i fatti politici sulle panchine dei giardini.

Una condizione innaturale cui alcuni (rari) trovano rimedio reinventandosi missionari laici in Africa per periodi più o meno lunghi, altri dedicandosi anima e corpo alla famiglia. Pochi invece, sempre troppo pochi sono coloro che mettono con regolarità le proprie competenze a disposizione della società: vicini di casa, quartiere, chiesa.

Gioverebbe agli altri, e anche per la salute di chi dona il proprio impegno. La ricerca britannica tutto sommato non fa altro che confermare una verità biblica: non possiamo fare a meno gli uni degli altri.

L’uomo si dimostra ancora una volta un essere sociale: l’interazione con gli altri caratterizza non solo i suoi desideri e le sue necessità ma, scopriamo ora, anche la sua salute.

Quieto (con)vivere

“Convivere, nuovo fidanzamento italiano”: il titolo del focus che il Corriere venerdì dedicava a un’abitudine attecchita anche in Italia, dove i matrimoni in dieci anni si sono quasi dimezzati e le unioni di fatto hanno preso il loro posto.

Con un calcolo forse opinabile, ma probabilmente non troppo azzardato, Maria Antonietta Calabrò segnala che «ormai vive insieme al partner senza alcuna formalità una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni Settanta, e quando avranno diciotto anni le bambine nate negli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare».

Quattro i tipi di convivenza: la convivenza prematrimoniale, che sostituisce il vecchio fidanzamento e si conclude – se va bene – con il matrimonio; la convivenza necessaria/utilitaristica (di chi aspetta un divorzio o di chi non vuole perdere i vantaggi pensionistici di un precedente matrimonio); la convivenza come libera scelta per una vita di relazione dinamica (direbbero loro) o disordinata (direbbe la Bibbia).

In Italia, analizza il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, il 40% delle convivenze è di tipo prematrimoniale. Il dato non rassicura, né tutto sommato consola.

Anche perché la Pastorale familiare della Cei – organo ufficiale della chiesa cattolica – sorprende rivelando che «ci sono punte del 70 per cento di coppie che chiedono il matrimonio in Chiesa e che sono già conviventi».

Naturalmente ci sono sempre state coppie che desiderano sanare la propria posizione religiosa in fatto di matrimonio, ma di fronte a una percentuale così elevata non si può non chiedersi quali siano i valori e quale visione della vita la chiesa cattolica e le chiese cristiane in generale – riescano a trasmettere ai giovani.

Chiamiamola assenza di valori, chiamiamola paura del futuro, chiamiamola influenza malata di una società che si finge laica e si dimostra laida: il quadro è preoccupante.

In merito alla questione, una frase di De Rita è significativa e invita – forse inconsapevolmente – a una doppia lettura. Il fondatore del Censis segnala che i Dico si sono arenati perché «non c’è pressione sociale per una regolazione delle convivenze». Insomma, alla gente non interessa, e non preme sui politici per creare una nuova formula di tutela legale per le coppie di fatto.

La frase di De Rita, però, vale anche in una prospettiva etica: se la situazione è questa, è perché la società ha ormai accettato pacificamente la convivenza; è normale decidere di effettuare un test prematrimoniale, è normale finire sotto lo stesso tetto mentre si attende lo scioglimento legale di una unione precedente, è normale percepire emolumenti che, in caso di una nuova unione (di fatto o di diritto) non spetterebbero più.

Probabilmente nessun cristiano coerente intraprende consapevolmente una di queste opzioni.

Ma, allo stesso tempo, praticamente nessuno ormai si sogna di inarcare un sopracciglio obiettando agli amici che, cristianamente parlando, il matrimonio richiede senso di responsabilità nell’approccio, o che la frenesia di inaugurare una nuova relazione prima ancora di chiudere la precedente non risponde ai parametri etici di un cristiano, o che mantenere un diritto economico scaduto significa frodare lo Stato.

Certo, tutto questo è assolutamente “normale” per una società che non ha più punti di riferimento morali ed etici.

Ciò che preoccupa di più è che, ormai, tutto questo suona normale anche per noi.

Così vicini, così lontani

In un sondaggio riportato su Repubblica si indaga sul vicino insopportabile. I comportamenti condominiali più fastidiosi? Tutti detestano la spazzatura lasciata sul pianerottolo, ma poi «per gli uomini quell’auto parcheggiata fuori dalle linee dal vicino di casa è una delle cose più fastidiose, mentre quelle piccole e insidiose bricioline che fanno tanto felici gli uccellini sul nostro balcone scatenano le ire delle donne, soprattutto quando cadono dal terrazzo della “nemica” del piano di sopra».

Dà fastidio (a tutti) anche l’invasione della propria sfera personale, favorita dalle «pareti extrasottili di cui in genere sono fatti i nostri appartamenti», a causa delle quali «il problema non è solo quello della sveglia del vicino che fa turni di notte e ti fa sobbalzare alle 3 del mattino ma, diventa più imbarazzante, quando si tratta di aspetti più intimi».

Il vicino ideale? Sicuramente non è uno studente, ma piuttosto un anziano; allo stesso tempo si predilige un vicino impiccione che dia un’occhiata alla casa quando si è assenti, ma non si disdegna nemmeno «il vicino “viaggiatore” che lascia sempre libero il posto auto».

Insomma, ricapitolando e ampliando: il vicino ideale è quello che ti controlla la casa ma non c’è mai; è abbastanza giovane per aiutarti a portare su un mobile ma abbastanza anziano da non portare a casa amici; sordo, in modo da non farsi gli affari nostri, ma non tanto da tenere alto il volume del televisore; simpatico, ma invisibile; single e taciturno, ma con una famiglia che all’occorrenza faccia un po’ di compagnia; disponibile ma discreto; cuoco per invitarci a cena, ma che non cucini per non invaderci con gli effluvi dei suoi piatti.

Lui deve essere così. Noi, invece, dobbiamo mantenere il diritto a urlare per le scale, tenere alto il volume dello stereo e delle litigate, avere figli rumorosi, essere scontrosi quando la luna è calante e invadenti quando è crescente, assenti quando si tratta di dare ma presenti quando c’è da ricevere.

È evidente che il nostro vicino ideale non esiste. E, se esiste, non ci somiglia per niente.

La triste realtà, infatti, è che noi stessi siamo molto lontani dal nostro ideale di vicino. Anzi: forse, mettendoci una mano sulla coscienza, potremmo concludere che nessuno, potendo scegliere, ci vorrebbe come dirimpettai.

Considerando che la prima testimonianza della nostra fede cristiana non è la predicazione ma il comportamento, non c’è molto da stare allegri.

Forse allora, prima di giudicare i comportamenti altrui, dovremmo fermarci e riflettere sul nostro.

«Fai al tuo vicino quello che vorresti lui facesse a te». Non lo ha detto un amministratore di condominio, ma Gesù.

Giovani di ritorno

Famiglia Cristiana questa settimana dedica un servizio a un interessante fenomeno: si parla delle “sempre più numerose coppie di anziani che si dedicano al volontariato”.

Il titolo è accattivante: “Il pensionato va in missione. Dopo una vita intera dedicata al lavoro, ai figli e ai nipoti, prendono il largo in spirito evangelico e vanno ovunque ci sia bisogno di loro. Magari per aiutare preti amici”.

Si racconta la storia di due “ottantacinquenni, ingegnere elettronico lui, architetto lei, 57 anni di matrimonio, quattro figli e 12 nipoti. Questa coppia ha conservato uno spirito così giovanile da essere stata di recente due volte in Ruanda“.

E poi c’è il 65.enne che racconta: «Sulla soglia della pensione, dopo una vita lavorativa intensa, con un gruppo di amici ci siamo chiesti: “E adesso cosa facciamo?”. Abituati a girare il mondo per lavoro, abbiamo continuato a farlo a nostre spese per gratuità, senza inventarci niente, solo rispondendo ai bisogni che ci siamo trovati davanti».

L’ex direttore della Sea, «da sempre impegnato nella sua società a ottenere spedizioni a costo zero di generi di prima necessità in Kazakhstan, oggi che è in pensione ha “adottato”, insieme all’amico Scarfone, una trentina di giovani kazaki, organizzando corsi in Italia per manager, così da favorire poi la nascita di un’imprenditorialità locale».

E poi un ex dirigente HP, che sta portando avanti progetti «fuori dagli schemi e riflettono l’imprevedibilità della vita e degli incontri: una scuola in Cile per 150 ragazzi disabili, corsi professionali alla periferia di Nairobi, la clinica per malati terminali».

Infine un ex amministratore delegato che spiega come «L’opera che più mi ha entusiasmato è stata in Uganda, dove siamo riusciti a collegare in rete 46 centri medici sparsi in tutto il Paese con l’ospedale centrale di Kampala».

Insomma: anziani, ma per niente fuori dai giochi. Persone che hanno visto il ritiro dalla scena lavorativa come una nuova sfida, e non come una sconfitta.

Nessun sintomo di depressione, ma tante energie e il desiderio di spenderle nel modo migliore: mettendo a disposizione i propri talenti di amminsitratori, le proprie competenze, i propri ex contatti professionali in maniera disinteressata per il bene degli altri.

Quant’è diversa l’immagine di questi giovani di ritorno da quella del classico pensionato disteso sul divano, che macina talk show e reality, chiama per nome i conduttori, si appassiona alle gesta dei corteggiatori televisivi, si commuove di fronte alle lacrime preconfezionate dei postini catodici.

Temiamo di conoscerne più di qualcuno, purtroppo. E allora vorremmo proporre un ulteriore impegno a chi ha saputo mettere la propria vita post-lavorativa al servizio degli altri: non limitatevi ad aiutare chi ha bisogno, ma siate testimoni di ciò che si può fare a fine carriera; raccontate sogni e opportunità ai tanti pensionati che tirano sera senza uno scopo.

Date una vera speranza a quanti vedono in una chiave egoistica e limitata il loro “meritato riposo”.

Fatelo, per favore, e non sentitevi sminuiti: anche questo, in fondo, è dare al prossimo un futuro migliore.