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Michael Jackson e la fede

«Ma davvero Michael Jackson si è convertito poco prima di morire?», ci hanno chiesto molti lettori.

La notizia, che rimbalza in queste ore attraverso i social network, parte da una dichiarazione su Facebook delle Mary Mary, nota formazione vocale USA, secondo cui Jackson, di recente, “avrebbe accettato Gesù nella sua vita”.

«L’altra sera – scrivevano le Mary Mary il 26 giugno – abbiamo ricevuto una buona notizia da Terri McFaddin-Solomon, che è una buona amica di Sandra Crouch. Tre settimane fa Sandra e Andre [Andrae Crouch, noto cantante gospel, ndr] hanno trascorso un po’ di tempo con Michael Jackson, che era loro amico. Michael chiese ad Andrè di suonare “It Won’t Be Long And We’ll Be Leaving Here” (Tra non molto ce ne andremo), poi Michael ha pregato con Sandra e Andre e ha accettato Cristo nel suo cuore».

Succede alla morte di ogni personaggio: a prescindere da quale sia stato il suo comportamento, la sua etica, la sua fede, a  qualche ora dalla dipartita negli ambienti cristiani comincia a circolare la notizia, più o meno fondata, sulla sua conversione.

Il racconto entusiastico delle Mary Mary è stato però smorzato dallo stesso Crouch, protagonista della vicenda insieme alla sorella Sandra.

«Andrae’ and Sandra – riferisce Crouch nel suo spazio su Facebook – hanno visitato Jackson in due occasioni negli ultimi due mesi, una volta presso lo studio di registrazione e poi, tre settimane fa, a casa sua. Michael chiese preghiera per una unzione dello Spirito Santo, e come potesse rendere la sua musica più “spirituale”, così Andrae e Sandra gli hanno spiegato il concetto di unzione e gli hanno parlato di Gesù».

«Voleva sapere – continua il racconto di Crouch – cosa fa sì che le mani si alzino, cosa ti fa “uscire da te stesso”, cosa dà spiritualità alla musica. Ha poi chiesto di ascoltare il suo brano preferito, e ha voluto cantarlo, così lo hanno cantato insieme, alzando le mani e Michael ha esclamato “È bellissimo!”».

Insomma, Michael ha sicuramente avuto un incontro con Andrae e Sandra, e stando ad Andrae «non ha rifiutato Gesù, o la preghiera»: anzi, chiosa il cantante, Jackson è stato contento di unirsi a loro in preghiera e, lui che non tocca mai nessuno, li ha presi per mano per cantare e pregare.

Un dato, questo, significativo ma non decisivo; e lo stesso Crouch riconosce che «Non c’è stata alcuna “preghiera di conversione”», come altre fonti accennavano.

Questo avveniva tre settimane prima che Michael Jackson morisse. Nessuno può sapere cosa sia successo nel cuore di Michael Jackson nelle sue ultime ore di vita, e quindi non possiamo dire una parola definitiva sulla posizione spirituale al termine della sua esistenza: né in positivo, né in negativo.

Vorremmo, ma non sta più a noi. E, in fondo, è molto meglio così.

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L'opportunità di una vittoria

Ieri sera chi ha seguito fino alla fine il collegamento di RaiUno con il Sudafrica, dove si svolgeva la finale della Confederations Cup, si sarà accorto di quanti calciatori della nazionale brasiliana, nel festeggiare la vittoria, abbiano comunicato la loro fede cristiana: non solo Ricardo Kakà, con la sua classica canotta “I belong to Jesus”, ma anche il capitano della squadra, Lùcio e altri indossavano la t-shirt con la scritta “I love Jesus”: una maglietta esposta bene in vista perfino mentre alzavano la coppa.

Poco prima, al termine della sfida vinta contro gli Stati Uniti, la nazionale ha ripetuto l’esperienza del mondiale vinto nel 2002: in ginocchio, in mezzo al campo, a pregare insieme.

Era, va detto, un bel colpo d’occhio vedere una ventina di adulti, tutti miliardari e felici, che festeggiano senza folleggiare, ma con sobrietà e riconoscenza verso Dio.

Sia chiaro: Dio avrebbe anche potuto farli perdere, perché non è un Dio che promette il successo o la prosperità secondo i nostri parametri, e a volte la nostra vita cristiana trae beneficio dalle sconfitte più che dalle vittorie.

Quel che conta, nel contesto della partita di Johannesburg, è che i brasiliani non hanno perso l’occasione per parlare della loro fede.

Viene da chiedersi se noi, di fronte alle piccole e grandi sfide di ogni giorno, siamo altrettanto coerenti con la nostra fede, o se di fronte a una vittoria dimentichiamo rapidamente quel senso di gratitudine verso Dio che già di per sé sarebbe una efficace testimonianza della nostra considerazione e dei nostri sentimenti verso di lui.

L’opportunità di una vittoria

Ieri sera chi ha seguito fino alla fine il collegamento di RaiUno con il Sudafrica, dove si svolgeva la finale della Confederations Cup, si sarà accorto di quanti calciatori della nazionale brasiliana, nel festeggiare la vittoria, abbiano comunicato la loro fede cristiana: non solo Ricardo Kakà, con la sua classica canotta “I belong to Jesus”, ma anche il capitano della squadra, Lùcio e altri indossavano la t-shirt con la scritta “I love Jesus”: una maglietta esposta bene in vista perfino mentre alzavano la coppa.

Poco prima, al termine della sfida vinta contro gli Stati Uniti, la nazionale ha ripetuto l’esperienza del mondiale vinto nel 2002: in ginocchio, in mezzo al campo, a pregare insieme.

Era, va detto, un bel colpo d’occhio vedere una ventina di adulti, tutti miliardari e felici, che festeggiano senza folleggiare, ma con sobrietà e riconoscenza verso Dio.

Sia chiaro: Dio avrebbe anche potuto farli perdere, perché non è un Dio che promette il successo o la prosperità secondo i nostri parametri, e a volte la nostra vita cristiana trae beneficio dalle sconfitte più che dalle vittorie.

Quel che conta, nel contesto della partita di Johannesburg, è che i brasiliani non hanno perso l’occasione per parlare della loro fede.

Viene da chiedersi se noi, di fronte alle piccole e grandi sfide di ogni giorno, siamo altrettanto coerenti con la nostra fede, o se di fronte a una vittoria dimentichiamo rapidamente quel senso di gratitudine verso Dio che già di per sé sarebbe una efficace testimonianza della nostra considerazione e dei nostri sentimenti verso di lui.

Quando il "meno male" non basta

Uno sciopero della fame per sensibilizzare i fedeli alla vita di chiesa: è stata l’idea di un parroco del trevigiano, che da domenica a mercoledì è rimasto nella sua chiesa senza mangiare, per dare una scossa a una situazione che probabilmente aveva raggiunto il livello di guardia.

Don Pellizzari ha passato le 72 ore di digiuno in compagnia di 150 fedeli che si sono alternati a fargli compagnia; ha dormito poco (in tutto otto ore) e il resto del tempo lo ha passato leggendo, pregando (era pur sempre in chiesa…) e preparando una lettera personalizzata per i giovani single 20-40enni della sua parrocchia: un messaggio appassionato, che si concludeva con l’esortazione «Vedi tu se è giunto il momento di ritornare in chiesa».

Risultato: ieri alla funzione domenicale i banchi erano gremiti, anche se – minimizza don Pellizzari – «la chiesa è così piccola che è facile riempirla». Il suo progetto, infatti, va oltre alla presenza domenicale: come riferiva al Corriere del Veneto nei giorni precedenti, “non mi aspetto grossi risultati immediati”.

E in effetti sarebbe ben triste se l’obiettivo del gesto fosse stato solo quello di richiamare in chiesa qualche persona in più per un paio di domeniche, fino a quando il clamore mediatico non si fosse spento.

Il suo scopo, invece, va più in là: i veneti, dice, «si sono impigriti, anche perché a differenza del passato la funzione domenicale non è più una scelta di massa ma personale, che induce ad andare controcorrente. E in un paese di 1500 anime differenziarsi non è facile per un giovane».

Don Pellizzari prende atto di come la partecipazione sia non sia più “una scelta di massa ma personale”. È una tendenza che va avanti ormai da cinquant’anni: se una volta si contavano e additavano i “senzadio” che alla domenica disertavano le funzioni, oggi è il contrario. Un bene? Un male?

La verità, inevitabilmente, sta nel mezzo. Proprio come quando qualcuno, forse dopo un ragionamento un po’ superficiale, di fronte all’esclamazione “Non c’è più religione” risponde “Meno male”.

La religione non è il male assoluto. Anzi, per certi versi le deve venir riconosciuta una funzione positiva anche da parte di chi la contrappone al rapporto personale con Dio.

È infatti vero che siamo chiamati a un impegno cristiano personale e coerente, ma è altrettanto vero che per chi non intende seguire questa strada, la “religione” – intesa come insieme di regole, indicazioni, principi di ispirazione biblica – è stata per generazioni un punto di riferimento.

Volenti o nolenti proprio quella religione, rappresentata anche dalla partecipazione formale – certamente un po’ ipocrita – a una riunione domenicale, ha favorito la conoscenza, se non il rispetto, di una moralità che invece oggi, in tempi di relativismo e di superficiali “meno male”, abbiamo definitivamente perso di vista: non c’è più religione, né sembra siamo in grado di comunicare quei principi in altre forme con altrettanta efficacia.

E allora sì, ben venga la “scelta personale” e non più “di massa”, che evita inutili formalismi e false illusioni e riscopre il cuore del messaggio evangelico. Nella speranza, però, che questa rinnovata consapevolezza personale possa allargarsi, se non alla massa, comunque a un numero sempre maggiore di persone, attraverso la testimonianza cristiana coerente e costante di chi crede davvero.

Solo quando i cristiani – i veri cristiani – si saranno fatti rispettare come un punto di riferimento credibile per la società, la religione non servirà davvero più. E potremo esclamare tutti insieme con sollievo “meno male”.

Quando il “meno male” non basta

Uno sciopero della fame per sensibilizzare i fedeli alla vita di chiesa: è stata l’idea di un parroco del trevigiano, che da domenica a mercoledì è rimasto nella sua chiesa senza mangiare, per dare una scossa a una situazione che probabilmente aveva raggiunto il livello di guardia.

Don Pellizzari ha passato le 72 ore di digiuno in compagnia di 150 fedeli che si sono alternati a fargli compagnia; ha dormito poco (in tutto otto ore) e il resto del tempo lo ha passato leggendo, pregando (era pur sempre in chiesa…) e preparando una lettera personalizzata per i giovani single 20-40enni della sua parrocchia: un messaggio appassionato, che si concludeva con l’esortazione «Vedi tu se è giunto il momento di ritornare in chiesa».

Risultato: ieri alla funzione domenicale i banchi erano gremiti, anche se – minimizza don Pellizzari – «la chiesa è così piccola che è facile riempirla». Il suo progetto, infatti, va oltre alla presenza domenicale: come riferiva al Corriere del Veneto nei giorni precedenti, “non mi aspetto grossi risultati immediati”.

E in effetti sarebbe ben triste se l’obiettivo del gesto fosse stato solo quello di richiamare in chiesa qualche persona in più per un paio di domeniche, fino a quando il clamore mediatico non si fosse spento.

Il suo scopo, invece, va più in là: i veneti, dice, «si sono impigriti, anche perché a differenza del passato la funzione domenicale non è più una scelta di massa ma personale, che induce ad andare controcorrente. E in un paese di 1500 anime differenziarsi non è facile per un giovane».

Don Pellizzari prende atto di come la partecipazione sia non sia più “una scelta di massa ma personale”. È una tendenza che va avanti ormai da cinquant’anni: se una volta si contavano e additavano i “senzadio” che alla domenica disertavano le funzioni, oggi è il contrario. Un bene? Un male?

La verità, inevitabilmente, sta nel mezzo. Proprio come quando qualcuno, forse dopo un ragionamento un po’ superficiale, di fronte all’esclamazione “Non c’è più religione” risponde “Meno male”.

La religione non è il male assoluto. Anzi, per certi versi le deve venir riconosciuta una funzione positiva anche da parte di chi la contrappone al rapporto personale con Dio.

È infatti vero che siamo chiamati a un impegno cristiano personale e coerente, ma è altrettanto vero che per chi non intende seguire questa strada, la “religione” – intesa come insieme di regole, indicazioni, principi di ispirazione biblica – è stata per generazioni un punto di riferimento.

Volenti o nolenti proprio quella religione, rappresentata anche dalla partecipazione formale – certamente un po’ ipocrita – a una riunione domenicale, ha favorito la conoscenza, se non il rispetto, di una moralità che invece oggi, in tempi di relativismo e di superficiali “meno male”, abbiamo definitivamente perso di vista: non c’è più religione, né sembra siamo in grado di comunicare quei principi in altre forme con altrettanta efficacia.

E allora sì, ben venga la “scelta personale” e non più “di massa”, che evita inutili formalismi e false illusioni e riscopre il cuore del messaggio evangelico. Nella speranza, però, che questa rinnovata consapevolezza personale possa allargarsi, se non alla massa, comunque a un numero sempre maggiore di persone, attraverso la testimonianza cristiana coerente e costante di chi crede davvero.

Solo quando i cristiani – i veri cristiani – si saranno fatti rispettare come un punto di riferimento credibile per la società, la religione non servirà davvero più. E potremo esclamare tutti insieme con sollievo “meno male”.

Libertà in fumo

Vita dura per i fumatori di Belmont, cittadina californiana: scrive il Corriere che il 9 gennaio è entrato in vigore il divieto di fumare su tutto il territorio comunale. Ma il divieto non si limita, come si potrebbe pensare, ai luoghi pubblici, gli uffici, i parchi, le strade: l’amministrazione di Belmont è andata oltre, stabilendo che «è proibito consumare tabacco non soltanto in edifici e locali pubblici o nei luoghi di lavoro, ma anche in qualsiasi appartamento privato che abbia in comune un piano, un tetto o un muro con un altro. Insomma, a meno non abbiate dimora in una villa o in una costruzione isolata, non potete fumare neppure a casa vostra. Pena una multa fino a 100 dollari».

La decisione è stata presa dietro segnalazione di alcuni condomini (le liti di pianerottolo non sono prerogativa italiana, a quanto pare), che hanno lanciato in città una campagna di sensibilizzazione: «Motivo scatenante, il fumo proveniente dagli appartamenti confinanti, che passava da ogni fessura e impregnava le loro case… La protesta si era poi allargata, convincendo infine il City Council a scegliere la soluzione più ardita».

Chi non ha mai acceso una sigaretta ed è quasi allergico al fumo esulterà per questa sentenza: una sorta rivincita, dopo tante serate passate con gli amici e chiuse con gli occhi arrossati, il mal di gola e un fastidioso senso di inferiorità.

Eppure la decisione di Belmont non lascia tranquilli, perché non è solo una questione di fumo.

Fermo restando che la nostra libertà finisce dove comincia quella del vicino, è altrettanto vero che l’unico posto in cui possiamo godere una libertà assoluta, nei limiti della civiltà e del buonsenso, è casa nostra; lì, nel nostro enclave di riservatezza, possiamo comportarci senza i vincoli cui la visibilità pubblica ci obbliga.

Un’autorità pubblica entra nelle case con un divieto così drastico rischia di costituire un pericoloso precedente.

Oggi la decisione di Belmont risulta tutto sommato condivisa, perché suona solo come un intervento esagerato di fronte a un comportamento comunque fastidioso. In questo modo, però, passa il principio che l’interferenza pubblica è legittima anche nella sfera più privata e anche per questioni non vitali.

Oggi sul banco degli accusati c’è la libertà di fumare in casa propria, messa in dubbio da qualche vicino particolarmente sensibile al problema; domani potrebbe esserci la libertà di pregare o di leggere la Bibbia insieme alla propria famiglia, messa in discussione dalla sensibilità di chi, oltre alla parete divisoria, si sente offeso dalle certezze del cristiano.

Esagerazioni? Speriamo di sì. Ma temiamo di no.