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Oltre il velo
«In che mondo viviamo», commenta sconsolata Maria Matilde Filippini, preside di una scuola elementare romana: un gruppo di mamme le chiede di sostituire la nuova insegnante di italiano, e promette di arrivare fino al Tar per ottenere giustizia.
Ce l’hanno con la docente, ma non è perché sia impreparata – d’altronde è entrata in classe da appena tre giorni -, né perché sia violenta, per i suoi comportamenti bizzarri, per insane passioni o frequentazioni pericolose, per inesperienza o inadeguatezza: l’unica obiezione a questa mite sessantunenne è il suo essere una suora.
Suor Annalisa, va detto, non ostenta: in classe si fa chiamare “maestra Annalisa”, e si dice consapevole di non dover “oltrepassare il limite” confondendo la sua scelta di fede e il suo delicato lavoro di formatrice. Le premesse sono buone ma non bastano alle mamme: «Sono atea – dice la portavoce del gruppo – e credo che la scuola pubblica debba essere quantomeno laica». A ben vedere non si spiega quale sia, nelle idee delle agguerrite mamme, la condizione ideale di una scuola “quantomeno laica” (atea? agnostica? marxista? darwinista? relativista? scientista?), ma forse, in certi casi, è meglio non sapere.
La preside, di fronte a un caso che oltrepassa il limite della ragionevolezza, è ferma: «Per me questa è solo demagogia, razzismo laico… Anch’io mi sento laica e sarei la prima ad avviare un procedimento disciplinare nei confronti di un insegnante che contravvenisse ai suoi doveri». Però, rileva, «mi chiedo perché la signora non disse nulla quando l’insegnante che c’era prima impartiva ai bambini dei corsi di benessere yoga: li faceva sdraiare in cerchio, disegnava dei mandala e recitavano insieme dei mantra…».
Insomma, quella che emerge da parte delle attente genitrici non è, come potrebbe sembrare, una posizione contraria a ogni forma di religiosità, ma l’opposizione a una fede specifica: quella cristiana.
Scandaloso? Forse, ma per niente strano: in un mondo di contrari a prescindere c’è chi non può vedere il rosso, chi il nero, e chi Cristo.
Chiunque, ma non Gesù. Si chiama, in gergo tecnico, reverse discrimination: impedire a qualcuno di esercitare una funzione in quanto si trova in una posizione che potrebbe far pensare a un privilegio nei suoi confronti.
Triste essere così prevenuti. Triste essere razzisti, e non indora la pillola il fatto che si tratti di un “razzismo laico”.
La spiritualità orientale va bene, ma il cristianesimo no. D’altronde si sa, lo yoga è così chic, è elegante e non impegna, mica come quel Cristo che promette un futuro glorioso ma per il presente non lesina lacrime, sudore e sangue.
Peccato che un genitore non sia capace di guardare oltre. In questo caso, oltre il velo di una suora. Se avesse il coraggio di farlo magari scoprirebbe un’insegnante che, proprio perché portatrice di un’identità definita, sa essere più sensibile nell’esercizio di quell’equilibrio e di quell’onestà intellettuale cui ogni docente è chiamato.
Anche questa è vita
Anche il XXI secolo riesce talvolta a tirar fuori storie da libro Cuore. Come quella del ragazzo di Rovereto, un diciassettenne che ha deciso di abbandonare la scuola per sostenere la famiglia dopo che il padre aveva perso il lavoro.
«La mamma ha ancora un impiego – spiega la preside dell’istituto che frequentava – e avrebbero fatto sacrifici, pur di vederlo studiare, però il ragazzo si è sentito un po’ l’uomo di famiglia, con la responsabilità di contribuire al bilancio. Un vero peccato perché era bravo, con la media del 7».
Il confine della coerenza
Una scuola della California «è stata denunciata dalla madre di una alunna per aver obbligato la ragazza a togliere una maglietta che raffigurava un messaggio anti-abortista».
La studentessa, tredicenne, portava una t-shirt con la scritta “growing, growing, gone”, accompagnata da tre immagini: nelle prime due «un feto ai primi stati della gravidanza», nella terza un riquadro completamente nero, a rappresentare l’interruzione di gravidanza.