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Abbracci e responsabilità
«Baci e abbracci in culla contro il futuro stress: le coccole di mamma fanno adulti più forti. L’affetto materno è un’arma fondamentale per divenire adulti capaci di resistere alle tensioni quotidiane, più sicuri di sé, meno ansiosi e ostili», scrive La Repubblica.
Una paziente ricerca finlandese «ha selezionato 482 bebè e li ha seguiti nella crescita fino all’età di 34 anni. Gli psicologi hanno valutato il grado di affettività e di attaccamento materno quando il piccolo aveva solo otto mesi. Poi, a distanza di anni, con questionari ad hoc, hanno misurato il livello di sicuri e forti, capaci di vincere gli stress della vita. Tali soggetti mostrano livelli di ansia e ostilità fino a sette punti inferiori a quelli mostrati dai loro coetanei le cui mamme non hanno instaurato coi figli ancora in fasce un legame altrettanto affettuoso. L’affetto materno, dunque, è un’ottima risorsa per crescere pronti ad affrontare la vita».
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Piccoli regali quotidiani
Era un periodo nero per Neil Pasricha: a trent’anni, improvvisamente, si trovava ad affrontare un divorzio, vivere problemi sul posto di lavoro, scoprire un amico seriamente malato.
Le disgrazie non vengono mai da sole, e sembravano addensarsi sulla sua testa con una intensità pericolosa. E poi si sa: i fatti condizionano la nostra percezione, e rischiano di portarci in un circolo vizioso di pessimismo e autocommiserazione.
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Quelle Porte aperte sul dramma
Una volta all’anno, il convegno di Porte Aperte fa bene.
Fa bene, perché è organizzato bene: abbastanza denso da dare informazioni precise sulla condizione dei cristiani perseguitati, ma sufficientemente leggero da permettere l’interazione tra i presenti (quest’anno a Rimini erano oltre trecento: meno dello scorso anno, ma comunque un numero ragguardevole in tempi di crisi) e la riflessione sul nostro ruolo di cristiani occidentali, privilegiati da una condizione di libertà e da diritti impensabili fuori dal nostro continente.
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Domeniche diverse
Non è stata il successo sperato, la domenica senz’auto indetta domenica con lo scopo di abbassare il livello di smog in Pianura Padana.
Un’iniziativa sfortunata: partita con l’idea di coinvolgere centinaia di comuni da Torino a Trieste, si è ridotta a uno stop adottato da un numero di municipalità molto limitato (e anche in quel caso con un ampio numero di deroghe), tanto da rendere inefficace la misura.
La fede di Fidel
Il lider maximo cubano ha dato alle stampe il suo “Diccionario de pensamientos de Fidel Castro“: come riferisce il Corriere, si tratta di un omaggio di Salomon Susi Sarfati, “esperto del Castro-pensiero”, per i 83 anni del dittatore a riposo.
Il volume riporta frasi e aforismi tratti dai discorsi di Castro, ordinati per parola chiave; tra questi, oltre ai classici pensieri che hanno fatto la fortuna del conducador, se ne trovano anche di inaspettati.
Scorrendo per esempio alla voce “fede”, a sorpresa, si legge: «La fede di un cristiano e la fede di un rivoluzionario non si possono simulare».
L'egoismo che uccide
Nei giorni scorsi i giornali hanno raccontato la notizia del panettiere di Sanremo rimasto oltre quattordici ore in coma sulle scale prima che qualche vicino di casa si degnasse di soccorrerlo.
Era lì, rannicchiato sul pianerottolo, dopo che una caduta gli aveva provocato un trauma cranico; tutti i coinquilini però – e ne sarà passato qualcuno, nel corso della giornata – hanno creduto, o hanno voluto credere, che fosse ubriaco.
Sul Corriere Isabella Bossi Fedrigotti commentava lamentando l’indifferenza, “la nuova malattia” che non è “solo un malessere minore” o “un secondario tic”; riflette sul fatto che probabilmente «almeno una ventina di persone, se non di più, quante, cioè, abitano sopra il primo piano, rientrando la sera o uscendo la mattina, abbiano dovuto letteralmente scavalcare il corpo», e conclude che, italiani o extracomunitari che fossero, «le regole del vivere civile si stanno appannando un po’ per tutti».
Ha ragione, ma forse sarebbe necessario aggiungere un elemento su cui non ci si è soffermati.
Probabilmente capita a tutti, quotidianamente e in qualsiasi città, di imbattersi in persone sedute per la strada, distese ai giardini, assopite nelle stazioni, accucciate sotto i portici. Talvolta, nel fissarli, sorge davvero qualche dubbio sulla loro sorte: sono solo appisolati, oppure hanno avuto un malore? Stanno smaltendo i postumi dell’ebbrezza alcolica, oppure hanno perso i sensi per qualche ragione più seria?
Nel dubbio, spesso ci limitiamo ad andare avanti; talvolta allertiamo qualche agente di polizia o telefoniamo al 118.
Non ci permettiamo azioni più marcate per non sembrare fuori luogo: il comune sentire – quel senso di cui giorno dopo giorno stiamo perdendo la funzionalità – ci insegna che è abbastanza normale, per giovani e meno giovani, bivaccare sul sagrato di una chiesa, o stendersi su una panchina a riposare.
E nessuno si permetta di invocare la buona creanza, un’anticaglia che suscita sorrisi di compassione al solo nominarla: d’altronde, ci si sentirà rispondere, cosa ci sarà mai di male nel distendersi su una panchina, sedersi per terra, intralciare con l’auto in seconda fila il percorso degli altri? Sono gesti entrati nella quotidianità egoista di tutti noi: chi, di fronte a uno di questi gesti, provasse a chiedere “ha bisogno d’aiuto?” verrebbe preso a male parole.
Sarà solo una questione di regole e di formalità superflue, ma qualche anno fa era più semplice capire se qualcuno si trovasse in difficoltà.
Oggi che l’abito non fa il monaco, non si distingue il vero dal finto povero. Oggi che la chirurgia estetica fa miracoli, non si distingue il vero dal finto giovane. Oggi che la sciatteria dei comportamenti regna sovrana in ogni piccolo gesto, non si distingue il vero dal finto malato.
Ci si ride su, almeno fino a quando le conseguenze non si fanno letali. E a quel punto, amaramente, dobbiamo constatare come la coperta che ci siamo cuciti a misura del nostro egoismo sia troppo corta perfino per un’esistenza individualista come la nostra.
L’egoismo che uccide
Nei giorni scorsi i giornali hanno raccontato la notizia del panettiere di Sanremo rimasto oltre quattordici ore in coma sulle scale prima che qualche vicino di casa si degnasse di soccorrerlo.
Era lì, rannicchiato sul pianerottolo, dopo che una caduta gli aveva provocato un trauma cranico; tutti i coinquilini però – e ne sarà passato qualcuno, nel corso della giornata – hanno creduto, o hanno voluto credere, che fosse ubriaco.
Sul Corriere Isabella Bossi Fedrigotti commentava lamentando l’indifferenza, “la nuova malattia” che non è “solo un malessere minore” o “un secondario tic”; riflette sul fatto che probabilmente «almeno una ventina di persone, se non di più, quante, cioè, abitano sopra il primo piano, rientrando la sera o uscendo la mattina, abbiano dovuto letteralmente scavalcare il corpo», e conclude che, italiani o extracomunitari che fossero, «le regole del vivere civile si stanno appannando un po’ per tutti».
Ha ragione, ma forse sarebbe necessario aggiungere un elemento su cui non ci si è soffermati.
Probabilmente capita a tutti, quotidianamente e in qualsiasi città, di imbattersi in persone sedute per la strada, distese ai giardini, assopite nelle stazioni, accucciate sotto i portici. Talvolta, nel fissarli, sorge davvero qualche dubbio sulla loro sorte: sono solo appisolati, oppure hanno avuto un malore? Stanno smaltendo i postumi dell’ebbrezza alcolica, oppure hanno perso i sensi per qualche ragione più seria?
Nel dubbio, spesso ci limitiamo ad andare avanti; talvolta allertiamo qualche agente di polizia o telefoniamo al 118.
Non ci permettiamo azioni più marcate per non sembrare fuori luogo: il comune sentire – quel senso di cui giorno dopo giorno stiamo perdendo la funzionalità – ci insegna che è abbastanza normale, per giovani e meno giovani, bivaccare sul sagrato di una chiesa, o stendersi su una panchina a riposare.
E nessuno si permetta di invocare la buona creanza, un’anticaglia che suscita sorrisi di compassione al solo nominarla: d’altronde, ci si sentirà rispondere, cosa ci sarà mai di male nel distendersi su una panchina, sedersi per terra, intralciare con l’auto in seconda fila il percorso degli altri? Sono gesti entrati nella quotidianità egoista di tutti noi: chi, di fronte a uno di questi gesti, provasse a chiedere “ha bisogno d’aiuto?” verrebbe preso a male parole.
Sarà solo una questione di regole e di formalità superflue, ma qualche anno fa era più semplice capire se qualcuno si trovasse in difficoltà.
Oggi che l’abito non fa il monaco, non si distingue il vero dal finto povero. Oggi che la chirurgia estetica fa miracoli, non si distingue il vero dal finto giovane. Oggi che la sciatteria dei comportamenti regna sovrana in ogni piccolo gesto, non si distingue il vero dal finto malato.
Ci si ride su, almeno fino a quando le conseguenze non si fanno letali. E a quel punto, amaramente, dobbiamo constatare come la coperta che ci siamo cuciti a misura del nostro egoismo sia troppo corta perfino per un’esistenza individualista come la nostra.
Troppo facile
“C’è crisi, dilagano le psico-sette: le prime vittime sono i manager”, titolava mercoledì Il Giornale.
Si scopre che, al Centro Studi Abusi Psicologici sono pervenute oltre quattromila richieste di aiuto da parte di persone cadute nella rete delle psicosette, o di parenti e amici che vedono una persona cara cambiare il proprio atteggiamento verso gli altri e scontrarsi con i familiari.
Il dato più interessante riguarda l’identikit di chi cade nel tranello: “uomo, giovane (29 anni), laureato, professionista (architetto, avvocato, ingegnere)”. Non è quindi persone di scarsa preparazione culturale o disadattate, ma la cosiddetta “società civile” a rischiare di restare ammaliata da queste realtà che “promettono benessere psicofisico e rendimento massimo nel lavoro”, insieme a una spruzzata di metafisico.
Ce li possiamo immaginare, questi soggetti a rischio.
Forti fuori ma deboli dentro, dopo anni di sacrifici e qualche utile mezzuccio per raggiungere il fine (che, si sa, giustifica i mezzi), ostentano il successo raggiunto con un’apparenza che inganna l’osservatore, facendo credere che siano davvero felici.
E invece felici non sono proprio, se sentono il bisogno di rendere di più, presumibilmente per avere di più e mostrare di più, sfoderando tutto l’orgoglio possibile per marcare la distanza tra ciò che vogliono dimostrare e ciò che, invece, sono.
Se a questo aggiungiamo l’insoddisfazione di chi ha confuso l’essere con l’avere, e l’esigenza – celata in ognuno di noi – di dare un senso vero alla propria vita, diventa più chiaro il motivo per cui persone rispettabili e insospettabili possono diventare adepti di psicosette poco raccomandabili, infilandosi in un tunnel di privazioni affettive, umane, sociali per aderire a una ricerca filosofico-spirituale dalle credenziali più che dubbie.
D’altronde, si sa: l’essere umano ama le soluzioni complicate. Basterebbe rispolverare la Bibbia (che tutti, nel nostro Paese, possiedono) per scoprire un tesoro di risposte, di spiritualità profonda, di consigli preziosi per la vita quotidiana e per l’esistenza. Troppo facile, troppo economico, troppo vicino, troppo trasparente: le strade tortuose, costose, esotiche e ammantate di mistero sono decisamente più affascinanti.