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Se la Bibbia sbarca in Libia
A margine dell’iniziativa con la quale Gheddafi ha portato il Corano (fisicamente e spiritualmente) a qualche centinaio di ragazze italiane, il deputato europeo Potito Salatto (PdL) pone una domanda interessante: «Cosa accadrebbe se fosse Berlusconi a donare Bibbie o Vangeli in terra libica?» E suggerisce: «Perché non provarci?».
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Soluzioni trascurate
Si chiama papilloma ma, dietro al nome rassicurante, si nasconde un virus. Si tratta di una infezione che causa il tumore al collo dell’utero. Per prevenire la malattia in Gran Bretagna è stata stabilita la vaccinazione semi-obbligatoria (“fortemente raccomandata”) di tutte le ragazze tra i 12 e i 15 anni, che viene somministrata direttamente a scuola.
Proprio in seguito a questa azione di profilassi, però, una ragazza di 14 anni ha perso la vita. Si tratta del primo caso, causato forse da “una reazione rara al vaccino”, o a “qualche condizione medica preesistente”.
Consigli per la crescita
Se la manualistica educativa ha ampi riscontri di vendite e i decaloghi mantengono il loro fascino da migliaia di anni, si può prevedere un grande successo “Decalogo per genitori italiani”, l’ultima uscita dedicata a una categoria, quella dei genitori, sempre più confusa e incerta.
La letteratura di settore è controversa: prima ci hanno insegnato che i figli andavano educati in maniera rigida, poi ci hanno detto che no, che andavano lasciati liberi di fare quel che vogliono; qualcuno, a corollario, ha preteso di veder crescere una generazione di orfani virtuali, dove il genitore era un amico da chiamare per nome, ma i risultati deludenti hanno suggerito di rivalutare un approccio fermo: in assenza di una parola definitiva, per decenni ci si è barcamenati tra i due estremi.
Gli esperti di turno, ora, propongono un decalogo sobrio e, tutto sommato, condivisibile.
1. non pretendere da un figlio maschio meno di quanto pretendi da una figlia femmina.
Vero: a forza di servire e riverire, spesso ci ritroviamo di fronte ai classici bamboccioni che non sanno lavare i piatti o rassettare il letto.
Però, per par condicio, la norma andrebbe interpretata in maniera bidirezionale: non pretendere da una figlia femmina meno di quanto pretendi da un figlio maschio. Già oggi non sono pochi i casi di ragazze in età da marito incapaci di tenere in mano un ferro da stiro. Se poi sanno anche riparare una lampadina o montare una ruota di scorta, meglio: faranno contenti i paladini della parità. E anche i mariti.
2. non permettere che tuo figlio tenga dei comportamenti che disapprovi quando messi in atto dai figli degli altri.
Comportamento odioso, oltre che diseducativo: pretendere dagli altri bambini un comportamento adulto, e permettere al proprio di fare i capricci. I bambini non sono stupidi. Né quelli degli altri, né i nostri.
3. sii disponibile quando tuo figlio ti cerca, ma aiutalo solo quando non puà farcela senza di te.
In due parole: presenti ma discreti. Non fate i suoi compiti, e non rispondete quando le sue domande nascono dalla pigrizia di non voler aprire il dizionario.
4. allena tuo figlio a un rapporto responsabile con il denaro.
Evitiamo tre errori: dargli tutto quello che vuole, fargli credere che tutto si possa comprare, e dall’altro lato instillargli un senso del risparmio che rischi di sconfinare nell’idolatria.
5. avvicina tuo figlio ai libri e al piacere della lettura.
Fargli trovare in giro per la casa libri adatti è un’idea, ma il metodo migliore resta l’esempio. E qui, forse, prima di educare i nostri figli dovremmo educare noi stessi.
6. diventa alleato degli insegnanti nell’istruzione di tuo figlio.
È la soluzione migliore: giustificare il pargolo di fronte ai docenti lo porta a una sensazione di onnipotenza che, in seguito, non sconterà solo lui.
Certo, potrà capitare che in questa prospettiva talvolta il ragazzo si ritrovi a subire un’ingiustizia: gli insegnanti sono esseri umani. L’importante è comprendere che non si tratta di un dramma planetario: semmai lo aiuterà a formare gli anticorpi a una situazione che, nella vita, vedrà fin troppo spesso.
7. lo sport è importante per crescere, ma saper perdere è la prima cosa da imparare.
Ditelo ai genitori che, dagli spalti dei campetti di provincia, urlano insulti all’arbitro, dando una lezione desolante ai giovanissimi che, in campo, vorrebbero solo divertirsi.
8. tratta tuo figlio maggiorenne da adulto.
Bisogna rassegnarsi: crescono, prima o poi. Rallentare il percorso non giova a loro, e nemmeno a noi.
9. non idealizzare il destino di tuo figlio e credi nel suo futuro.
Non dargli false illusioni: non hanno mai fatto bene, e sono ancora meno salutari in tempi di recessione.
Non caricarlo di aspettative esagerate: il futuro è il suo, e solo marginalmente il tuo. Sii sobrio per insegnargli a essere sobrio.
10. dai un fratello, se possibile, al tuo figlio “unico”.
Naturalmente qui entrano in gioco variabili che non sempre si possono prevedere. Però se possibile, quando possibile, per molti versi un fratello cambia l’approccio alla vita.
Soprattutto, come chiosa Deborah Compagnoni, «i bambini sono persone; non sono una tua copia, né quel qualcosa che tu non sei». E forse, a ben guardare, è proprio questa la chiave per cimentarsi al meglio nell’impegnativo ruolo di genitori.
Il prezzo del successo
«Le donne hanno paura di dire che non vogliono figli. Ma io penso che le cose, adesso, stiano cambiando. Ho più amiche che non hanno bambini, rispetto a quelle che li hanno. Onestamente, non abbiamo bisogno di più bambini. Abbiamo un sacco di persone su questo pianeta» si sfoga Cameron Diaz, l’attrice con un viso da baby sitter che però, a quanto pare, di pargoli non vuole sentir parlare: 37 anni e «una vita incredibile». Anzi, precisa, «In un certo senso, ho questo tipo di vita proprio perché non ho figli».
Le fanno eco varie starlette e attrici italiane che rimandano, glissano, o dicono chiaramente di non sentirne il bisogno. Qualcuna, come Valeria Golino, va oltre e si lancia in un’analisi arguta: «Avere almeno un figlio è quasi un obbligo, un desiderio indotto dal nuovo conformismo. E questo mentre finisce l’epoca delle grandi certezze, della famiglia com’era, della coppia com’era».
A confortare la posizione child-free delle attrici c’è anche il supporto dell’immancabile esperta: «L’identità femminile non può essere definita soltanto dalla maternità».
Molto vero, anche se onestamente troviamo difficile trovare qualcuno che, nell’anno di grazia 2009, sia davvero convinto che la donna serva solo a fare figli, e non le riconosca invece un ruolo essenziale – solamente, concedetecelo, complementare e non competitivo rispetto all’uomo – nella società.
In fondo, si potrebbe concludere, non è un obbligo: se uno non ritiene di mettere al mondo dei figli eviti di farlo, e la società eviti di colpevolizzare la sua scelta. Certo, è ironico notare come in molti casi chi potrebbe averne non li vuole per nessun motivo, mentre chi non può smuove mari e monti per ottenere quello che considera un privilegio: questa, però, è un’altra faccenda.
Quel che invece è sintomatico, da parte delle attrici candidate a non diventare mamme, è che sono tutte sostanzialmente single. Le due cose, peraltro, oggi non sono collegate – anzi, spesso prevale un’inversione dei passaggi tradizionali: prima un bebè, poi eventualmente il matrimonio – ma possono essere un sintomo della stessa difficoltà: la difficoltà a impegnarsi, a vivere un rapporto, ad accettare le responsabilità, ad affrontare una sfida di vita.
Ubriacate dal lavoro, le ragazze si ritrovano prigioniere del loro status “incredibile” (termine che usiamo con tutte le riserve del caso), protagoniste e vittime di uno star-system che non consente una vera vita privata, un vero progetto a lungo termine, veri rapporti umani.
È il prezzo del successo, quel successo che cambia la vita e, spesso, rende instabile l’equilibrio interiore delle star. Quel successo che, come una droga, inibisce le difese immunitarie dello spirito, e rende la persona sempre più debole e influenzabile, erode scelta dopo scelta la sua dignità, ottunde il suo metro di giudizio e le scelte in campo morale, etico, spirituale.
Ma quel che stupisce forse di più è la mancanza di prospettive. Oggi sono felice, oggi vivo una vita meravigliosa, oggi non ne sento il bisogno.
Come in un brutto film urlano al mondo la propria indipendenza e si credono invincibili, immortali. Nessuna preoccupazione per domani o dopodomani, quando la bellezza sarà sfiorita, la fama sarà sfumata, i fan saranno un ricordo e il confronto con il passato renderà ancora più atroce il presente.
In quei momenti solo la presenza di rapporti umani reali, custodi di un’intimità e di una complicità costruite e consolidate nel tempo, potrà garantire quella serenità e quell’equilibrio necessari a non cadere nel vortice della disperazione.
Cambiamenti e ravvedimenti
Le cattive ragazze cambiano aria: un articolo della Stampa riferisce che personaggi come Amy Winehouse, Lindsey Lohan, Britney Spears, Paris Hilton hanno abbandonato gli eccessi che avevano fatto la gioia dei giornali scandalistici, e stanno cambiando (faticosamente) strada.
Amy Winehouse alla fine ha accettato di entrare in una clinica per disintossicarsi: ora si apre a un repertorio più romantico e vagheggia l’idea di trovarsi il classico “lavoro serio” aprendo un centro estetico, qualora decidesse di lasciare la musica.
La Lohan, dopo due arresti per guida in stato di ebbrezza (ma la definizione ufficiale, a quanto raccontano le cronache, è eufemistica: era proprio ubriaca fradicia), ha deciso di dire basta ai baccanali e alle nottate in giro per locali; cerca un lavoro “per pagare l’affitto”, dimostrazione che anche i ricchi vivono nel nostro mondo (anche se raramente piangono).
Di Britney Spears si è detto ampiamente: fatta di stupefacenti e cattive compagnie, spendacciona e seminuda (oltreché volgare, ma questo non è un reato), è stata tirata a lucido in una clinica di riabilitazione e ora porta avanti il suo tour mondiale controllata a vista dal padre, che le ha imposto un’ora di lettura biblica al giorno: e chissà se, nella migliore tradizione della scuola domenicale, dopo la lettura ne verifica anche l’apprendimento.
Paris Hilton ha trovato l’amore, ricambiata, e ha quindi smesso i panni della nullafacente metropolitana tutta capricci e leziosità per dedicarsi al suo lui: pensa al matrimonio, e per il personaggio è già tutto dire.
I bimbi crescono, e anche le bad girls, raggiunto un punto di rottura, devono decidere cosa fare. Un cambiamento radicale talvolta è l’unico modo per sopravvivere, specie quando lo stile di vita è più pericoloso di una passeggiata in autostrada.
Ciò che viene da chiedersi se si tratti di un vero cambiamento, o di una pausa tra due eccessi: rinsavire per non morire, prima di rituffarsi nelle vecchie abitudini ritrovando le vecchie compagnie.
Esperienze passate dimostrano che spesso è solo una questione di tempo. Senza una base solida anche il cambiamento più radicale non è destinato a durare. Senza la consapevolezza dei propri limiti, della sporcizia morale, del proprio fallimento interiore, è difficile ricominciare davvero da capo.
Dietro molti di questi cambiamenti sbandierati di fronte ai media non sembra esserci vera motivazione, ma solo una questione di sopravvivenza: cambiare vita per non morire, adottare una condotta salutista senza però toccare l’interiorità di una vita spirituale disastrata, ossia la principale causa di disagio.
Uno stile di vita più sano può aiutare a stare meglio, ma è il cambiamento interiore a portare felicità, serenità, pace.
C’è una bella differenza. La differenza che passa tra sopravvivere e vivere.
Pregiudizi alla rovescia
Due ragazze sono state cacciate dalla Luteran High School della California per “essersi comportate in modo compatibile con il lesbismo”: ad avvisare i docenti era stato un altro studente, dopo che una delle due lo aveva invitato a visitare il suo spazio Myspace, dove – a quanto pare – la ragazza enfatizzava la sua tendenza sessuale.
In seguito all’espulsione le ragazze avevano fatto ricorso, ma la Corte d’appello della California ha dato loro torto.
Da parte della scuola pare evidente che non si sia trattato di un atto di discriminazione. Come ricorda un giudice della Corte, «il messaggio religioso della scuola è strettamente legato alle sue funzioni secolari, lo scopo di mandare un ragazzo o una ragazza a un istituto religioso è di far si che impari anche i temi mondani dentro un contesto religioso». E la Lutheran High School è parte di una confessione che considera «l’omosessualità un peccato».
Mandare i propri figli in una scuola confessionale comporta il desiderio che vengano formati secondo certi parametri; la scuola è basata su certi, specifici valori, che non si può pretendere non vengano applicati.
Giusto o sbagliato si voglia considerare un rapporto omosessuale – non è di questo che si discute ora -, sarebbe successa la stessa cosa qualora uno studente avesse trasgredito altre regole, raccontando pubblicamente ed promuovendo le sue esperienze di tossicodipendente o le sue avventure sessuali prematrimoniali (immaginiamo che la Luteran High School abbia tra i suoi valori anche la castità).
La chiave della vicenda sta nel fatto che le due ragazze non sono state “sorprese”, ma hanno raccontato, forse enfatizzato, un comportamento che andava contro i principi della scuola che frequentavano. Ben consapevoli, probabilmente, delle conseguenze.
Poi si può discutere finché si vuole se sia giusto o non avere un certo credo, una certa opinione, se sia ragionevole che la Bibbia consideri peccato un certo comportamento o una certa tendenza. Se ne può discutere ma non è questo il punto, anche se, a margine di ogni vicenda simile, viene scomodato lo spettro dell’omofobia.
Il problema nasce dalla reverse discrimination, la stessa condizione in base alla quale si sospetta che il figlio di un personaggio noto sia agevolato nella sua carriera, e si pretende che non debba avere successo a prescindere dalle sue qualità.
In ogni vicenda dove entrano in gioco le tendenze sessuali, si presume ci siano pregiudizi nei confronti dei diversi, e quindi si ha buon gioco a invocare la omofobia con polemiche che però, in molti casi, sono solo strumentali e mirano a imporre – appunto – una discriminazione inversa: il diverso deve avere per forza ragione, in ogni contesto e a ogni occasione, proprio in quanto diverso. Se questo non avviene, la controparte viene liquidata come omofoba, e la vicenda diventa l’ennesimo, gonfiato caso di discriminazione.
Non va dimenticato che la Luteran High School è una scuola privata – in una scuola pubblica il discorso sarebbe stato diverso -, e si tratta di una scuola chiaramente confessionale: come ricordava il giudice, se un genitore vi iscrive i figli è perché vuole che vengano loro inculcati certi principi cristiani, specifiche conoscenze dottrinali evangeliche, strumenti per guardare il mondo circostante da una certa prospettiva.
In questo contesto la scuola si è limitata a portare avanti i propri principi con un provvedimento forse drastico ma sostanzialmente corretto, richiedendo ai suoi studenti il rispetto di un codice di comportamento. Intervenendo ha sollevato (facili) polemiche; d’altro canto se non fosse intervenuta sarebbe venuta meno ai suoi obblighi e al suo mandato.
La coperta è corta, specie per chi mal pensa.
Cento punti senza stile
A volte l’agonismo fa brutti scherzi. Ne sanno qualcosa le cestiste della Covenant School di Dallas, scuola superiore con una squadra femminile di basket insaziabile: nell’ultima partita hanno probabilmente battuto un record, vincendo con un tondo 100 a zero contro la compagine della Dallas Academy.
Certo, deve trattarsi di una squadra-materasso al limite del patologico, considerando che non vince una partita da quattro anni. Eppure a tutto c’è un limite, e la scuola delle vincitrici ha ritenuto opportuno inviare una mail alla scuola sconfitta porgendo nientemeno che le proprie scuse per l’umiliazione. «È vergognoso che questo sia successo. Questo, chiaramente, non riflette l’atteggiamento cristiano e onorevole di una competizione», ha scritto il preside.
Un gesto d’altri tempi, gentile, generoso e formativo: insegna che ricercare l’eccellenza è importante, ma che prima dei risultati vengono sempre e comunque le persone.
Di diverso avviso l’allenatore vincente, che non ha voluto saperne di scusarsi, e anzi ha giustificato le sue ragazze per la sonora sconfitta inflitta alle avversarie: «Non sono d’accordo sul fatto che le ragazze della squadra di pallacanestro di Covenant School debbano sentirsi imbarazzate», e ha ribadito le sue ragioni parlando di una «vittoria ampia» ottenuta «con onore e integrità».
Come dire: se abbiamo vinto è per merito nostro e demerito degli avversari. Sul campo non si fanno prigionieri e non esiste pietà: chi ha, dà; chi non ha, subisce.
Povera Dallas Academy, che si è trovata di fronte una squadra così motivata, guidata da un allenatore tanto agguerrito. Cento punti subiti, nemmeno uno segnato.
La scuola ospita studenti con problemi di apprendimento, e l’allenatore è più un amico che un coach: «Le mie ragazze non si sono mai rassegnate – ha detto al Dallas News -, hanno giocato con tutta l’intensità possibile fino all’ultimo secondo. Ci hanno messo tutto il loro cuore sul 70 a zero, sull’80 a zero, sul 100 a zero. Sono davvero orgoglioso di loro. È questo che ho detto loro alla fine della partita».
Insomma: nonostante i risultati diano un’immagine diversa, il suo mestiere di allenatore lo svolge bene.
Proprio come il suo antagonista, il vincente senza riguardi, il Mourinho della situazione: solo che lui, l’allenatore dei cento punti, ha sbagliato parquet, e di certo si troverebbe meglio nel campionato NBA, anziché sulla panchina una squadretta scolastica.
Chissà quanto gli rode doversi occupare di cinque ragazzette, proprio lui, con il suo talento e la sua filosofia battagliera.
Immaginiamo qindi che sarà stato contento nello scoprire che il suo trasloco è stato facilitato: dopo il rifiuto a porgere le scuse a nome suo e della squadra, è stato esonerato senza troppi complimenti.
Niente da dire: se è vero che una squadra vincente non si cambia e che chi vince ha sempre ragione, la scelta di mandarlo a casa è stato un bell’esempio di coerenza da parte della scuola, che con questo gesto esplica nel modo migliore la sua estrazione cristiana: privarsi di un coach di talento non è mai facile; farlo volontariamente per tener fede a un principio è ancora più ammirevole.