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Fame di fede

“Meglio il successo sul lavoro o la felicità privata?“, chiede l’editorialista americano David Brooks in un articolo riportato dal Corriere.

«Se ci mettete più di tre secondi per rispondere alla mia domanda – aggiunge -, siete proprio pazzi. La felicità coniugale è di gran lunga più importante di qualsiasi altra cosa nel garantire il vostro benessere»: lo prova anche la scienza, che negli ultimi anni ha dimostrato come “il successo mondano è transitorio, mentre è sui legami affettivi che fondiamo le nostre certezze”.

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Stragi nel silenzio

Nella notte tra mercoledì e giovedì, in Egitto, si è consumata una strage: nove persone sono state uccise all’uscita di una chiesa, dove avevano celebrato il natale copto.

Una notizia agghiacciante che merita attenzione per la gravità del fatto e per la scossa che una vicenda simile inevitabilmente porta nei rapporti tra comunità religiose e le ripercussioni che potrebbe avere anche in Europa.

Evidentemente, però, la pensiamo così quasi solo noi.
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Mediamente male

Nella sua semplicità è geniale il sistema messo a punto da due studiosi – un matematico e un informatico – per “misurare la felicità” degli americani.

Hanno creato un sistema di algoritmi capace di prendere in considerazione oltre due milioni di blog e utenti twitter, pescando di volta in volta gli interventi che si aprono con “mi sento…” (“I feel…”).

Poi hanno dato ai vocaboli più comuni un punteggio da 1 a 10: “paradiso” o “trionfo”, per esempio, sfiorano il 9, suicidio è sotto il 2.

In base a questo schema i due studiosi sono stati in grado di misurare l’umore degli utenti, e – visti i numeri – fare una media più o meno verosimile del sentimento comune nella pubblica opinione, almeno quella che naviga in rete.

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Il prezzo del successo

«Le donne hanno paura di dire che non vogliono figli. Ma io penso che le cose, adesso, stiano cambiando. Ho più amiche che non hanno bambini, rispetto a quelle che li hanno. Onestamente, non abbiamo bisogno di più bambini. Abbiamo un sacco di persone su questo pianeta» si sfoga Cameron Diaz, l’attrice con un viso da baby sitter che però, a quanto pare, di pargoli non vuole sentir parlare: 37 anni e «una vita incredibile». Anzi, precisa, «In un certo senso, ho questo tipo di vita proprio perché non ho figli».

Le fanno eco varie starlette e attrici italiane che rimandano, glissano, o dicono chiaramente di non sentirne il bisogno. Qualcuna, come Valeria Golino, va oltre e si lancia in un’analisi arguta: «Avere almeno un figlio è quasi un obbligo, un desiderio indotto dal nuovo conformismo. E questo mentre finisce l’epoca delle grandi certezze, della famiglia com’era, della coppia com’era».

A confortare la posizione child-free delle attrici c’è anche il supporto dell’immancabile esperta: «L’identità femminile non può essere definita soltanto dalla maternità».

Molto vero, anche se onestamente troviamo difficile trovare qualcuno che, nell’anno di grazia 2009, sia davvero convinto che la donna serva solo a fare figli, e non le riconosca invece un ruolo essenziale – solamente, concedetecelo, complementare e non competitivo rispetto all’uomo – nella società.

In fondo, si potrebbe concludere, non è un obbligo: se uno non ritiene di mettere al mondo dei figli eviti di farlo, e la società eviti di colpevolizzare la sua scelta. Certo, è ironico notare come in molti casi chi potrebbe averne non li vuole per nessun motivo, mentre chi non può smuove mari e monti per ottenere quello che considera un privilegio: questa, però, è un’altra faccenda.

Quel che invece è sintomatico, da parte delle attrici candidate a non diventare mamme, è che sono tutte sostanzialmente single. Le due cose, peraltro, oggi non sono collegate – anzi, spesso prevale un’inversione dei passaggi tradizionali: prima un bebè, poi eventualmente il matrimonio – ma possono essere un sintomo della stessa difficoltà: la difficoltà a impegnarsi, a vivere un rapporto, ad accettare le responsabilità, ad affrontare una sfida di vita.

Ubriacate dal lavoro, le ragazze si ritrovano prigioniere del loro status “incredibile” (termine che usiamo con tutte le riserve del caso), protagoniste e vittime di uno star-system che non consente una vera vita privata, un vero progetto a lungo termine, veri rapporti umani.

È il prezzo del successo, quel successo che cambia la vita e, spesso, rende instabile l’equilibrio interiore delle star. Quel successo che, come una droga, inibisce le difese immunitarie dello spirito, e rende la persona sempre più debole e influenzabile, erode scelta dopo scelta la sua dignità, ottunde il suo metro di giudizio e le scelte in campo morale, etico, spirituale.

Ma quel che stupisce forse di più è la mancanza di prospettive. Oggi sono felice, oggi vivo una vita meravigliosa, oggi non ne sento il bisogno.

Come in un brutto film urlano al mondo la propria indipendenza e si credono invincibili, immortali. Nessuna preoccupazione per domani o dopodomani, quando la bellezza sarà sfiorita, la fama sarà sfumata, i fan saranno un ricordo e il confronto con il passato renderà ancora più atroce il presente.

In quei momenti solo la presenza di rapporti umani reali, custodi di un’intimità e di una complicità costruite e consolidate nel tempo, potrà garantire quella serenità e quell’equilibrio necessari a non cadere nel vortice della disperazione.

Bellezze a confronto

Può esistere un concorso di bellezza in cui l’estetica non giochi un ruolo dominante?

Se la vostra risposta è “no”, sappiate che vi state sbagliando. Ma non fatevene una colpa, le nostre convinzioni nascono dalla società in cui viviamo: siamo occidentali, e nella nostra società la forma (fisica) risulta determinante in molte aree della vita.

Non è così ovunque, però – e questo, per inciso, dimostra che dovremmo smetterla di considerarci al centro dell’universo, e soprattutto di crederci i migliori -: in Arabia Saudita sono capaci di organizzare un concorso di bellezza, o meglio un reality, cui partecipano centinaia di ragazze coperte dalla testa ai piedi. Spiccano solo gli occhi, e qualcuna delle giurate (tutte donne, va da sé) particolarmente schizzinosa sostiene che si dovrebbero oscurare anche quelli.

Le valutazioni delle candidate si basano su qualcosa che noi europei abbiamo dimenticato: ciò che uno è dentro, ciò in cui una persona crede, come si comporta. Blanditi dai guru del relativismo abbiamo cancellato dal nostro immaginario tutto ciò che c’era di nobile, profondo, significativo, e che proprio per questo poteva apparire poco politicamente corretto.

In Arabia Saudita, a quanto pare, sono più avanti. O più indietro, a seconda dei punti di vista. Basano un concorso di bellezza – l’unico del paese – su educazione, conoscenza della morale (e, supponiamo, dell’educazione), qualità del rapporto familiare. Quasi una bestemmia per una società come la nostra, dove il massimo dell’espressione intellettuale emersa agli ultimi concorsi di bellezza è stata una dotta disquisizione sul “lato b”.

Sia chiaro: non vogliamo dimenticare che stiamo parlando dell’Arabia Saudita, un paese che non può essere additato come fulgido esempio di democrazia. Basti ricordare la condizione subalterna della donna, la mancanza di libertà religiosa, o il divieto di importare libri cristiani o simboli di una fede diversa dall’islam.

Premesso questo, però, viene da chiedersi se questa sorta di ballo delle debuttanti in salsa berbera, sia davvero così ridicolo come, a un primo sguardo, ci potrebbe sembrare.

In fondo abbiamo poco da ridere. Guardandoci attorno, camminando per la strada, navigando in rete troviamo una gioventù triste, delusa, senza punti di riferimento né valori: nemmeno l’ombra di quello che un tempo si definiva buona creanza, senso civico, buona educazione.

I miti di oggi sono sguaiati, arroganti, falsi, arrivisti, senza scrupoli né pietà, privi del benché minimo senso di opportunità.

Difficile stupirsi se poi i giovani si ritrovano a tirare avanti un’esistenza pigra, arrabbiata, sciatta, se tra un sms e l’altro niente li entusiasma e nulla riesce ad attirare la loro attenzione.

Pochi adulti se ne preoccupano davvero: “Sono solo ragazzi”, “è un’età difficile”, “hanno diritto a divertirsi” sono le frasi che ricorrono più spesso.
Nel declinare ogni responsabilità nei loro confronti dimentichiamo che tra qualche anno questi stessi ragazzi saranno, a loro volta, genitori. Con obblighi e responsabilità di cui, oggi, non vogliono nemmeno sentir parlare.

E allora una soluzione va trovata, e in fretta. Aiutarli a trovare un senso alla loro vita, spirituale e sociale, è un obbligo morale per tutti noi.

I palliativi e la soluzione

A Londra «Per far fronte a migliaia di casi di adolescenti rimaste precocemente incinta il governo britannico si appresta a autorizzare le cliniche per l’interruzione di gravidanza a fare pubblicità in tv e in radio… saranno confezionati anche pubblicità “progresso” per insegnare il corretto uso del profilattico. Ovviamente il tutto trasmesso nelle ore di maggior ascolto».

Nella provincia inglese «Le studentesse di scuola secondaria inglese, poco più che bambine tra gli 11 e i 13 anni di età, potranno richiedere la pillola del giorno dopo, e per evitare imbarazzi potranno farlo via sms» senza che i genitori vengano informati. Il progetto parte «dopo un aumento inquietante di quasi il 10 per cento del numero delle ragazze minorenni rimaste incinte negli ultimi due anni» nell’Oxfordshire.

Alle obiezioni di chi crede che si stia dando un messaggio sbagliato alle giovanissime, i sostenitori del progetto ribattono che si tratta di moralismi, che bisogna stare al passo con i tempi.

Non ci si chiede, naturalmente, se non siano proprio i tempi moderni ad aver causato questa situazione, e si preferisce il corto circuito delle soluzioni-tampone, evitando accuratamente di affrontare il problema alla radice.

Forse la domanda di fondo è se la scuola, lo stato, la società debbano formare, o limitarsi a informare.

Nel secondo caso la situazione si fa scivolosa: anche l’informazione più neutrale è parziale, e l’informazione asettica non consente uno sguardo d’insieme sui problemi, portando il soggetto a farsi un quadro parziale.

Dire che la prevenzione è indispensabile non è sbagliato, ma non basta: è necessario far presente che non c’è solamente la prevenzione, ma un’igiene di vita che, irrisa sul piano morale, trova la sua rivincita nei riscontri concreti.

Checché se ne dica, chi vive con responsabilità vive meglio. Non vale solo per il consumo di alcolici, ma in tutti i settori dell’esistenza: dalle relazioni sentimentali alla cucina, dalla sicurezza sulla strada ai rapporti interpersonali.

In fondo l’umanità si interroga da sempre sulla strada da seguire, sul comportamento da tenere, sul modo di relazionarsi.
La risposta – quella vera, non un semplice palliativo – non è fatta di spot, di soluzioni del giorno dopo, di precauzioni.

È contenuta in un concetto più semplice e allo stesso tempo più profondo, sorprendentemente elementare e paurosamente impegnativo: vivi responsabilmente.

Cameron e la felicità inattesa

David Cameron, leader conservatore inglese, ha perso nei giorni scorsi il figlio Ivan, sei anni, affetto da paralisi cerebrale ed epilessia.

Nel ringraziare coloro che gli sono stati vicino, ha scritto tra l’altro: «Abbiamo sempre saputo che Ivan non sarebbe vissuto per sempre, ma non ci aspettavamo di perderlo così giovane e così all’improvviso… Quando ci fu detto per la prima volta quanto fosse grave la disabilità di Ivan, pensai che avremmo sofferto dovendoci prendere cura di lui ma almeno lui avrebbe tratto beneficio dalle nostre cure. Ora che mi guardo indietro vedo che è stato tutto il contrario. È stato sempre solo lui a soffrire davvero e siamo stati noi — Sam, io, Nancy ed Elwen — a ricevere più di quanto io abbia mai creduto fosse possibile ricevere dall’amore per un ragazzo così meravigliosamente speciale e bellissimo».

Di fronte a una confidenza così sentita, suona ancora più blasfema la notizia che arriva dagli USA, secondo la quale «Una clinica della fertilità di Los Angeles, scrive il sito web della Bbc, ha iniziato a offrire la possibilità di creare bambini su misura: i genitori potranno scegliere sesso, colore degli occhi e dei capelli degli eredi. Il primo neonato su ordinazione sarà “pronto” il prossimo anno».

Sicuramente addomesticare la genetica adattandola ai nostri desideri di oggi può sembrare comodo, e forse perfino geniale. In fondo l’uomo del XXI secolo, nella sua infantilità, ha dimostrato di non saper resistere al richiamo del “tutto e subito”: si tratti di vita, morte, salute, ambiente, rapporti sociali o altro, abbraccia le scorciatoie con una superficialità sorprendente e senza curarsi per nulla delle possibili conseguenze. Salvo poi, naturalmente, recriminare contro la natura, contro Dio, contro il governo o contro qualunque cosa gli capiti a tiro.

Costruire un figlio su misura, come si fa da tempo per i cani da concorso, sarà forse anche un progresso e una soddisfazione per qualcuno. Ed è certamente vero che, per quanto la sofferenza sia parte della nostra vita, non siamo nati per soffrire.

Eppure, ripensando al dramma di David Cameron, non possiamo non concludere che la vera felicità, per un cristiano, non stia tanto nel poter decidere, quanto nel saper accettare.