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Quelle Porte aperte sul dramma

Una volta all’anno, il convegno di Porte Aperte fa bene.

Fa bene, perché è organizzato bene: abbastanza denso da dare informazioni precise sulla condizione dei cristiani perseguitati, ma sufficientemente leggero da permettere l’interazione tra i presenti (quest’anno a Rimini erano oltre trecento: meno dello scorso anno, ma comunque un numero ragguardevole in tempi di crisi) e la riflessione sul nostro ruolo di cristiani occidentali, privilegiati da una condizione di libertà e da diritti impensabili fuori dal nostro continente.
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Vite d’azzardo

Che i soldi non facciano la felicità è una certezza. Che vincere alla lotteria possa portare più svantaggi che vantaggi, è stato segnalato molte volte: giocare d’azzardo rilascia endorfine e quindi può portare a una dipendenza, e anche chi ne fosse immune rischia di non resistere al meccanismo della rivalsa (“devo recuperare quel che ho perso”), trascinato in un pozzo senza fondo di giocate senza esito, fino a ritrovarsi sul lastrico.

Insomma, che il gioco d’azzardo sia una piaga sociale e tenersene lontani sia meglio è fuori di dubbio: paradossalmente lo ammettono a mezza bocca perfino alcuni gestori di lotterie istantanee, casinò online e affini, nel momento in cui raccomandano di “giocare responsabilmente”.

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Dovrebbe essere scontato

«I mafiosi e coloro che fanno parte della criminalità organizzata sono automaticamente esclusi dalla Chiesa cattolica: “Non c’è bisogno – ha detto monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei – di comminare esplicite scomuniche perché chi vive nelle organizzazioni criminali è fuori dalla comunione anche se si ammanta di religiosità“».

La conferenza episcopale italiana, nella sua sessantesima assemblea generale, ha aperto un capitolo interessante, toccando un tema annoso: cosa comporta il fatto di essere cristiani?

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Tutto in un cognome

«Perché dovremmo portare solo il cognome paterno?»: è una discussione che dal Sessantotto, con maggiore o minore realismo, ciclicamente riprende quota anche nel nostro paese. Da qualche settimana se ne riparla per la proposta di legge del deputato Giulia Bongiorno, che prevede – qualora approvata – l’assunzione obbligatoria del doppio cognome per tutti i cittadini neonati.

Non dovrebbe trattarsi di una norma retroattiva, per cui saremo graziati dall’imparare una nuova firma alla nostra non più tenera età, e l’incombenza spetterà solo ai nuovi arrivati.

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Fuoco di valori

Ridurre in fin di vita un uomo per divertimento, e vantarsene: non stiamo parlando di vecchi sicari rotti alle esperienze malavitose, ma di quattro ventenni riminesi di buona famiglia, che in una serata di noia non hanno trovato di meglio da fare che dare fuoco a un ignaro barbone.

Una vicenda raggelante, dove il cinismo e la mancanza di riferimenti morali si mescola all’ingenuità, dando vita a una Second life in salsa horror dagli sviluppi incontrollabili.

La frequenza di drammi simili, seguiti da giustificazioni spiazzanti e da un candore sconvolgente («Dottore, ora che le ho detto tutto posso tornare a casa?», chiese un giovanissimo dopo aver confessato di aver massacrato una coetanea) non possono non farci riflettere sul messaggio che questi giovani devono aver ricevuto, e sul quale hanno costruito le loro (in)certezze e la loro scala valoriale (rovesciata). Ci siamo dentro tutti: i media sciacalli, una società compiacente e compiaciuta dalla morbosità, il sistema giudiziario permissivo e inefficace, i vicini di casa indifferenti, i genitori assenti o acquiescenti.

«Succede», hanno detto. «Succede», diranno ancora.
Si, succede. Succede se l’unico amore che si insegna è il sentimento usa e getta, se l’unico valore è apparire, se l’unica morale è arrivare; succede se tutta l’attenzione si concentra su se stessi, se l’unico obiettivo è riuscire a tutti i costi, se l’altro vale solo in funzione del nostro piacere, del nostro divertimento, della nostra utilità; succede se tutto è consentito, se concetti come umanità e rispetto sono relegati a un tempo passato come anticaglie inutili in una modernità che vive un egotismo di inconsapevolezza e inanità.

Nelle nebbie della nostra indifferenza dovremmo far entrare un barlume di indignazione che superi la distanza della giornata, e che fecondi una volta buona il nostro desiderio di cambiamento. Che faccia cambiare noi per primi, scrollandoci di dosso la religiosità e il moralismo di maniera per applicare alla nostra vita – prima che al giudizio verso gli altri – quell’amore che non è solo carezze, ma anche carattere. Quell’amore che è impegno alla coerenza in ciò che facciamo, diciamo, guardiamo, ascoltiamo, pensiamo.

Altrimenti succede e succederà. E, se è vero che chi tace acconsente, succederà perché lo vogliamo.

Scomodo, ma a me piace

Non è il numero dei partecipanti. E forse nemmeno il posto. Quello che mi piace di Christian Artists, e che mi ha riportato ancora una volta in quel di Acquasparta, è il clima.

Quel clima di allegria che risuona nelle risate fin dal mattino; quel clima di creatività che si percepisce nei rapporti con gli artisti, tra dialoghi e spunti di riflessione; quel clima di serenità che si respira fino a notte fonda, tra seminari e spettacoli.

È una ricchezza intellettuale che distingue Christian Artists da ogni altro “campo biblico” – sia detto con tutto il rispetto possibile, naturalmente -, che permette a persone completamente diverse per provenienza culturale, preparazione, talento, percorso di fede, appartenenza denominazionale di trovare un comune denominatore in Cristo.

Proprio come dovrebbero fare sempre i cristiani, direte voi. Esatto. Proprio come dovrebbero, e come raramente fanno. Non sono molte, purtroppo, le occasioni di incontro tra cristiani di realtà diverse che si sentono uniti da uno scopo comune; sono rare le riunioni, talvolta anche di grande impatto, che non siano mere celebrazioni di una unità ancora solo teorica, e siano invece mirate alla concretezza di una comunione spicciola e quotidiana.

Christian Artists è così: dialoghi con il performer battista, chiacchieri con il tecnico pentecostale, scherzi con l’oratore “dei fratelli”, in un clima di sintonia che potrebbe suonare quasi irreale, o forse falso, a leggere le cronache evangeliche del nostro tempo.

Non solo. Da quando si è trasferito in Umbria, ospite di un borgo medievale che i bravi presentatori definirebbero “splendida cornice”, Christian Artists ha una marcia e un impegno in più: dimostrare concretamente quell’amore, quella nuova vita, quella gioia che – almeno a parole – caratterizzano il cristiano “nato di nuovo”, quel cristiano che – per intenderci – ha vissuto un’esperienza di fede e in seguito a questa ha fatto una scelta di vita cristiana.

Perché è facile parlare di fede tra noi, in una autoreferenzialità che si autoalimenta e che, giorno dopo giorno, ci chiude al “mondo”, impedendoci di comprendere le necessità e le speranze di chi ci sta attorno. È facile autocompatirsi su quanto poco siamo compresi o su come sia difficile il terreno di casa nostra (fateci caso: avete mai sentito una chiesa dire che nella sua città la gente è sensibile e ben disposta verso il messaggio di speranza della fede?).

Il difficile è sforzarsi per farsi capire. Perché, per farsi capire, è necessario prima capire. Capire gli altri, quegli “altri” da cui ci astraiamo per immergerci nelle oasi dei ritiri spirituali o dei campi biblici.
A volte, con il nostro modo di fare, ricordiamo da vicino la pubblicità di quella coppia che, tornata dalla crociera, vive con disperazione la banale quotidianità ritrovata a casa propria. Anche noi cristiani torniamo a casa dai ritiri spirituali e ci sentiamo “ristorati”, ma ben presto il ristoro si trasforma in frustrazione per il contesto ostile con cui dobbiamo fare nuovamente i conti ogni giorno. La quotidianità è un contesto troppo diverso dall’atmosfera delle giornate felici passate lontane dal “mondo”, specie se il ritiro spirituale non ci ha arricchito di elementi nuovi, capaci di cambiare la nostra prospettiva sulle cose e quindi la nostra capacità di intervenire sul contesto in cui viviamo.

Christian Artists, al contrario di molti ritiri, non è una vacanza: forse per questo non è così popolare. A Christian Artists ci si riposa, ma è un riposo attivo, dove gli stimoli sono continui. Scomodo? Certo, un ritiro spirituale è più comodo: ad Acquasparta siamo chiamati a rendere conto della nostra fede – per dirla con San Paolo – ogni giorno. Al bar del paese, in lavanderia, in piazza. La gente ci guarda, sa chi siamo, e aspetta di vedere se quella fede di cui parliamo è proprio qualcosa che vale la pena vivere, o se è solo un’altra forma di religiosità, magari un po’ più intensa, ma che non cambia davvero la vita.

Sta a noi dimostrare che la nostra vita è differente. Ma non a parole: con i fatti. Aiutati certamente da un contesto di seminari, corsi, incontri, ma da applicare poi alla vita di tutti i giorni. E subito. A Christian Artists la vita non viene sospesa artificiosamente per una settimana, ma continua giorno per giorno in un contesto umano fatto di incontri, di contatti, di sorrisi, di parole.

Per questo Christian Artists mi piace. Mi dispiace solo che pochi abbiano compreso il valore del progetto, perdendo l’occasione per un ritiro spirituale diverso dal solito, ma non per questo meno intenso. Anzi.