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Dimmi quando. O forse no
La notizia, se confermata, sarebbe inquietante: l’Università di scienze mediche di Teheran avrebbe scoperto che basta un esame del sangue per scoprire quando una donna andrà in menopausa.
Anche se, con tutto il rispetto, la fonte accademica non sembra garantire una particolare attendibilità alla dichiarazione, l’ipotesi ha fatto il giro del mondo, suscitando discussioni e riflessioni. Sul Corriere ha commentato la notizia la scrittrice Silvia Avallone, esprimendo un certo scetticismo: «L’idea che un prelievo sia sufficiente a predire il futuro – commenta – può entusiasmare o meno. Del resto ricorriamo ancora agli oroscopi e ai tarocchi per sapere se e quando avremo un figlio, e dovremmo gioire adesso che il responso potrà essere scientifico e non più vaneggiato».
Le paure della Fifa
Riecco la Fifa inflessibile, severa, rigida ed equidistante. Ne sentivamo la necessità: in un mondo del calcio dove la furbata è all’ordine del giorno, dove i soldi portano a intrallazzi e malversazioni, dove i problemi dello sport si sommano a quelli della geopolitica, ecco che la Fifa riprende il suo ruolo di custode della pace e dell’ortodossia.
Sì, ne sentivamo il bisogno: faceva troppo male sapere che Blatter e soci avevano glissato con un sorriso sul caso Henry, su quel colpo di mano voluto e rivendicato, grazie al quale la Francia aveva segnato il gol decisivo per accedere alla fase finale della Coppa del mondo. L’Irlanda aveva rivendicato i suoi diritti, esponendo le sue ragioni e chiedendo giustizia: la ripetizione della partita o l’accesso ai Mondiali come 33.ma squadra.
Blatter, come sempre, aveva sfoderato il suo sorriso da politico promettendo di pensarci, e poi come sempre aveva detto che no, non si poteva fare: chi aveva avuto, aveva avuto; chi aveva dato, aveva dato. Così parlò la Fifa in quell’occasione, e la soluzione puzzava di opportunismo, o di interessi sporcati da principi diversi rispetto a quelli rivendicati – d’accordo, erano le Olimpiadi e non i Mondiali di calcio – da De Coubertain.
Dietro la porta
Dal mondo del calcio arriva una storia dal sapore natalizio: Edwin Van der Sar, 39 anni, portiere olandese del Manchester United, «si ferma per stare vicino alla moglie, colpita da un’emorragia cerebrale», che verserebbe in condizioni molto gravi dopo un collasso.
Di solito le notizie sulla vita privata dei calciatori non sono particolarmente edificanti in termini di moralità e solidarietà: atleti che si vantano di centinaia di conquiste, che fanno mattina in discoteca, che spendono e spandono per garantirsi una superiorità almeno estetica rispetto ai loro fan e al resto del mondo.
Un messaggio frainteso
«Il punto centrale è che il cristianesimo non lo difendi brandendolo come un’ideologia, ma testimoniandolo nella vita quotidiana come risposta ai bisogni dell’uomo. La grande forza del cristianesimo, quella che colpisce e “contagia” il prossimo che incontriamo, è la possibilità per l’uomo di sperimentare una novità di vita»: la constatazione, molto evangelica, è di Giorgio Vittadini.
Nei giorni della polemica leghista contro le esortazioni espresse dal cardinale di Milano, il fondatore della Compagnia delle Opere centra meglio degli altri la questione e la sua frase, da sola, vale quanto un discorso: Cristo non può essere un’ideologia, un mezzo, un alibi per giustificare comportamenti che si scontrano con il suo insegnamento.
Tutto in un cognome
«Perché dovremmo portare solo il cognome paterno?»: è una discussione che dal Sessantotto, con maggiore o minore realismo, ciclicamente riprende quota anche nel nostro paese. Da qualche settimana se ne riparla per la proposta di legge del deputato Giulia Bongiorno, che prevede – qualora approvata – l’assunzione obbligatoria del doppio cognome per tutti i cittadini neonati.
Non dovrebbe trattarsi di una norma retroattiva, per cui saremo graziati dall’imparare una nuova firma alla nostra non più tenera età, e l’incombenza spetterà solo ai nuovi arrivati.
Il percorso di Eli Stone
Tra i nuovi serial tv di cui i critici televisivi hanno parlato in questi mesi, ha avuto poco spazio un telefilm la cui prima serie si è conclusa ieri, Eli Stone.
Si tratta di un serial che si poteva scoprire solo per caso – da un po’ di tempo le emittenti non brillano per la capacità di promozione delle serialità e per il rispetto degli appassionati che le seguono – ma che man mano mi ha incuriosito, e non solo per la trama.
Trasmesso da Italia Uno al martedì sera, racconta le vicende di un rampante avvocato trentacinquenne, Eli Stone appunto, socio di un autorevole studio legale di San Francisco.
La fatica di sentirsi vivi
Stando a una ricerca riportata dalla Stampa e basata sulle risposte di 1500 ragazzi, l’alcol è l’ultima frontiera dei giovanissimi. Cominciano a bere presto, già a undici anni, e a quindici sono esperti di intrugli ad alta gradazione.
Lo fanno «per non pensare alle cose brutte», «per sentirsi invincibile», «sciolto, libero, felice», addirittura «più bello», perché «è una cosa da duri», «si ha l’impressione che niente può andare storto». Ma anche «per una botta di vita», «per divertimento», «per fare colpo», «per essere figo».
Paola Nicolini, l’esperta che ha curato la ricerca, l’ha chiamata “sbronza preventiva”: «non ci si ubriaca più per dimenticare ma per vivere». Capovolgendo, di fatto, la prospettiva dei bevitori delle precedenti generazioni.
Spiega l’esperta che tra i teenager «nessuno associa l’ubriachezza al timore di essere scoperto, al senso del proibito, alla trasgressione. La birra, il vino, la vodka, il rum, il limoncello sono la stampella di un Io fragile che cerca conferme nel gruppo. Tutti vogliono essere simpatici, spiritosi, brillanti. E bere aiuta».
Di fronte ad abitudini così poco raccomandabili le famiglie sono in difficoltà: la ricerca rivela «il disorientamento e il senso d’impotenza delle famiglie» che sanno del vizio dei figli, vogliono capirne i motivi e si ripromettono anche decisioni di polso, ma poi scaricano la responsabilità sulle autorità, facendo appello a “leggi” e “controlli” e ammettendo, così, la loro sostanziale incapacità.
A quanto pare, quindi, il problema non è solo dei figli. Se il massimo che i genitori sanno fare è minacciare provvedimenti o rivolgersi a “chi di competenza”, evidentemente non hanno argomenti migliori. Argomenti che dovrebbero passare per termini come educazione e disciplina, e che presuppongono concetti come valori e morale.
Trovarsi di fronte a un figlio adolescente brillo dovrebbe portare un moto d’orgoglio e di responsabilità. Dovrebbe risvegliare nei genitori il buonsenso sopito, riattivare l’attenzione verso i punti di riferimento di cui, negli ultimi decenni, si è fatto strame a beneficio di una malintesa libertà. Una libertà che, se non ha limiti e obiettivi, è solo un’autostrada per l’autodistruzione.
È curioso notare che genitori si appellano alle leggi e ai controlli, senza ricordare che sono stati loro, quando avevano l’età dei loro figli, a chiedere a gran voce l’abolizione di ogni limitazione.
In parte avevano ragione: non sono le leggi esteriori a poter offrire una vita degna di essere vissuta, ma quella legge interiore che si fonda sulla fede, sulla coscienza, sull’esperienza. Una legge che decade quando perde i suoi presupposti, quando non le si riconosce più un valore intrinseco. Le conseguenze sono più ampie di quanto si potrebbe pensare: la fede cristiana, che porta con sé un comportamento e un’etica degni di questo nome, comporta anche un obiettivo, uno scopo, una speranza nella vita.
Come in un effetto domino, perdere di vista i valori porta a perdere anche il senso della vita, e i risultati sono sotto i nostri occhi: figli disorientati, famiglie che non sanno da che parte guardare, paura generalizzata di guardare al futuro.
Se, per i giovanissimi, perdere il senso della realtà è l’unico modo per sentirsi vivi, non possiamo non dirci preoccupati.
Esiste una soluzione? Sì, ma non si può limitare a un nuovo passatempo, a una moda più salutista delle precedenti, a una campagna di sensibilizzazione, a un buon proposito di capodanno.
Una soluzione efficace non può limitarsi a increspare la superficie, deve andare in profondità. Deve partire dalla consapevolezza di un bisogno, ma ancora non basta: funziona solo se siamo disponibili a un cambiamento radicale sul piano personale, capace di riportarci – riportare ognuno di noi – nella direzione della Speranza.
Perché non possiamo pretendere di cambiare la società, i giovani, il futuro, se prima non siamo disposti a cambiare noi stessi.
Quel bisogno d'amore
“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.
Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.
Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.
Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.
Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.
Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.
Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.
Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.
Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.
In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.
Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.
Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.
Distrazione fatale
Ott 1
Pubblicato da pj
Due temi diversi, oggi, hanno stimolato due commenti molto simili nella sostanza da parte della Stampa e di Repubblica.
Sul quotidiano torinese Gramellini commentava l’allusione del senatore Ciarrapico sull’equazione ebreo=traditore, espressa nel suo intervento a Palazzo Madama: «Fino a quando – si chiede Gramellini – si continuerà a considerare un esercizio di folklore lo scempio dei valori con i quali siamo cresciuti, che credevamo condivisi? […] Non so voi, ma io non lo trovo divertente. E neppure innocuo. Qualcuno dirà che certa gente ha sempre pensato certe cose, senza trovare il coraggio di dirle. Ecco, vorrei tanto sapere chi glielo ha dato, adesso, quel coraggio. Forse ci siamo distratti un attimo. Per favore, non distraiamoci più».
In sintonia Michele Serra nella sua rubrica quotidiana su Repubblica: in merito alle parole del docente milanese che inneggiava alla Rupe Tarpea, fa il punto della situazione-volgarità: «Il punto è che,negli anni, sono saltati come vecchi tappi tutti o quasi gli argini che impedivano o sconsigliavano di scavalcare alcuni – almeno alcuni – argini. Convenzioni rispettate, forse ipocrite, forse solo ragionevoli, suggerivano di non varcare certe soglie verbali… Ha poi prevalso, lentamente ma inesorabilmente, l’idea che niente possa o debba essere rimosso e occultato. Schiodati dalle loro prigioni di profondità, sono emersi uno a uno gli istinti più asociali e aggressivi e “scorretti”» Con l’abbandono del buonismo (o, forse, anche della buona educazione?), «ogni fanatico ma anche ogni debole, e ogni rancoroso, si sente in diritto di esternare il suo male. Il “cattivismo” fa molte più vittime del “buonismo”».
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