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Coraggio alla Giannini

Era una vita che non sentivamo parlare dei gemelli Giannini: anzi, probabilmente i più giovani non avranno notizia di quei sei pargoli nati nel 1980 e diventati subito oggetto di interesse da parte dei media, in quello che potremmo definire il prototipo della cronaca-reality. I sei gemelli Giannini – Letizia, Roberto, Linda, Francesco, Fabrizio, Giorgio – insieme alla mamma Rosanna esondavano dalle copertine dei periodici e dai servizi che i programmi tv riservavano a questa strana famiglia, mettendoci al corrente di cambi di pannolini, primi passi, compleanni e immortalandoli perfino in uno spot televisivo (per un detersivo, ovviamente).

A un certo punto, evidentemente, la morbosità dei media si è concentrata su altri obiettivi, lasciando mamma e figli a crescere nell’oblio di una vita normale. Beninteso, per quanto possa essere normale una casa che tra genitori, figli e nonni raggiungeva la decina di unità, sballando ogni media sui nuclei familiari di Bibbiena.

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Ruoli confusi

Si continua a parlare di Rick Warren: l’Ansa nei giorni scorsi rivelava che «Rick Warren, il popolare pastore della Saddleback Church che Barack Obama ha invitato a benedire la cerimonia dell’insediamento, ha ritirato dal suo sito web frasi anti-gay che avevano suscitato critiche al presidente eletto dalla comunità omosessuale».

«Dal sito web della Saddleback Church, la chiesa del religioso nella Orange County in California, è scomparsa la frase in cui si affermava che “chiunque non vuole pentirsi del suo stile di vita omosessuale non è benvenuto nella nostra chiesa“. Una frase che è peraltro rimasta conservata nella memoria nascosta di Google”.

In Veneto si direbbe “pezo el tacòn che el buso”, peggio la pezza del buco: togliere ora quella frase risulta in effetti una mossa politica, più che una scelta ragionata.

La frase in questione ovviamente ha scandalizzato gli omosessuali e molti laici, ma lascia perplessi anche guardandola in un’ottica cristiana.

Infatti è ben vero che Dio non tollera il peccato: accoglie ogni creatura che cerca la salvezza in lui, ma questa ricerca deve comportare la disponibilità a pentirsi dei propri peccati, dato che proprio i peccati tengono l’essere umano lontano da lui, precludendogli il rapporto con Dio.

Dio odia il peccato ma ama il peccatore e accetta chi si pente; bisognerebbe però chiedersi se si possa fare lo stesso ragionamento per la chiesa. Sono benvenuti tutti, o solo coloro disposti a pentirsi?

È un problema di approccio, e forse di logica.
In chiesa dovrebbero essere benvenuti tutti, nella speranza cristiana che anche il peccatore più incallito (di qualunque natura sia il peccato) possa ravvedersi, e possa farlo proprio in seguito al messaggio del vangelo che riceve nel corso della visita in chiesa.

È solo una questione di forma, dirà qualcuno. Viene invece da pensare che, per la chiesa di oggi, sia piuttosto un problema di sostanza.

Troppe volte vediamo i credenti confondere il “portare a Dio” un non credente con il “portarlo in chiesa”: pare quasi che il nostro obiettivo sia quello di far entrare le persone tra le quattro mura del luogo di culto, anziché impegnarsi personalmente, con pazienza e costanza, per comunicare loro in maniera efficace il messaggio del vangelo.

Troppe volte vediamo bollare con eccessiva leggerezza “l’allontanamento dalla chiesa” come un “allontanamento da Dio”, senza farsi troppe domande sui motivi di disagio o sofferenza della persona, quasi che la chiesa rivesta la perfezione e non debba porsi questioni scomode.

Troppe volte si confonde la santità della chiesa (o meglio, cui la chiesa è chiamata) con la sacralità di Dio: un equivoco da cui si sviluppa un circuito autoreferenziale di culti, incontri, rapporti e ruoli, in cui la chiesa si rifugia rifiutandosi di guardare la realtà circostante perché “noi non siamo di questo mondo”.

Insomma, troppo spesso tendiamo inconsciamente a identificare la chiesa con Gesù stesso. Con tutto quel che ne consegue quando si tende a sostituire l’umano al divino.

Chissà cosa ne penserebbero i tanti martiri che, nel corso dei secoli, hanno dato la vita per ribadire che nessuno, su questa terra, può sostituirsi a Cristo: nemmeno la chiesa stessa.

L'ultima spiaggia

Ormai i sondaggi imperversano, a prescindere dalla rilevanza del tema: torme di intervistatori tormentano persone che di rispondere a domande più o meno banali non hanno nessuna voglia.

L’ultima, in ordine di tempo, ha coinvolto mille italiani tra i 14 e i 79 anni (praticamente tutta la società produttiva, e oltre) con una domanda da salotto annoiato: cosa porteresti con te se dovessi vivere da solo, per cinque anni, su un atollo sperduto nel Pacifico. Ossia sulla classica isola deserta.

Emerge che gli italiani, noti buongustai, non rinuncerebbero alla pasta e al vino per quanto riguarda gli alimenti; porterebbero la radio e l’orologio come prodotti tecnologici, mentre tra i libri, sull’isola deserta porterebbero con sé la Bibbia.

Il responso sorprende. Stando ai sondaggi di settore, gli italiani non sembrano così affezionati alle Sacre Scritture: non le conoscono, non le praticano, non le leggono. Eppure, se dovessero trovarsi soli e isolati, non porterebbero Guerra e pace o l’Odissea, e nemmeno un testo del laico Odifreddi: riscoprirebbero la Bibbia.

Se è così viene da chiedersi come mai, allora, nell’ordinarietà del quotidiano la Bibbia resti ben chiusa su qualche mensola di casa.

Certo, è colpa del logorio della vita moderna, dello stress, degli impegni che non danno respiro: su un’isola deserta, con cinque anni da passare in serenità e senza le scadenze incombenti, magari nel silenzio assordante della solitudine, sarebbe diverso.

Non è vero, quindi, che la Bibbia non abbia importanza per gli italiani. La Bibbia gode di considerazione e rispetto, e viene vista come una soluzione, una consolazione, una risposta; solo che si tratta di un valore di scorta, un impegno in bassa priorità, una chance residuale.

La Bibbia, dall’italiano medio, non viene percepita come uno strumento utile per una vita sana, ma come un rifugio cui guardare nel momento del bisogno. Come il supermercato. Come il medico. Come Dio, purtroppo.

L’ultima spiaggia

Ormai i sondaggi imperversano, a prescindere dalla rilevanza del tema: torme di intervistatori tormentano persone che di rispondere a domande più o meno banali non hanno nessuna voglia.

L’ultima, in ordine di tempo, ha coinvolto mille italiani tra i 14 e i 79 anni (praticamente tutta la società produttiva, e oltre) con una domanda da salotto annoiato: cosa porteresti con te se dovessi vivere da solo, per cinque anni, su un atollo sperduto nel Pacifico. Ossia sulla classica isola deserta.

Emerge che gli italiani, noti buongustai, non rinuncerebbero alla pasta e al vino per quanto riguarda gli alimenti; porterebbero la radio e l’orologio come prodotti tecnologici, mentre tra i libri, sull’isola deserta porterebbero con sé la Bibbia.

Il responso sorprende. Stando ai sondaggi di settore, gli italiani non sembrano così affezionati alle Sacre Scritture: non le conoscono, non le praticano, non le leggono. Eppure, se dovessero trovarsi soli e isolati, non porterebbero Guerra e pace o l’Odissea, e nemmeno un testo del laico Odifreddi: riscoprirebbero la Bibbia.

Se è così viene da chiedersi come mai, allora, nell’ordinarietà del quotidiano la Bibbia resti ben chiusa su qualche mensola di casa.

Certo, è colpa del logorio della vita moderna, dello stress, degli impegni che non danno respiro: su un’isola deserta, con cinque anni da passare in serenità e senza le scadenze incombenti, magari nel silenzio assordante della solitudine, sarebbe diverso.

Non è vero, quindi, che la Bibbia non abbia importanza per gli italiani. La Bibbia gode di considerazione e rispetto, e viene vista come una soluzione, una consolazione, una risposta; solo che si tratta di un valore di scorta, un impegno in bassa priorità, una chance residuale.

La Bibbia, dall’italiano medio, non viene percepita come uno strumento utile per una vita sana, ma come un rifugio cui guardare nel momento del bisogno. Come il supermercato. Come il medico. Come Dio, purtroppo.