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Quattro cose sul voto
Domani e domenica si vota per rinnovare la nostra rappresentanza al Parlamento europeo e, in molte zone del Paese, per eleggere presidenti (e consigli) di province e comuni.
I politici e i giornali, per questa tornata elettorale, hanno preferito concentrarsi su scandali e cadute di stile, piuttosto che dare spazio a programmi e opinioni dei candidati: forse è meglio così, dato che magari molti dei candidati nemmeno sanno cos’è l’Europa.
Però, da cristiani e da elettori, il dilemma resta: devo votare? E per chi?
Forse qualche spunto di riflessione può tornare utile.
1. persona e personaggio.
Spesso nei candidati la morale vissuta in privato e i principi sostenuti in pubblico non coincidono, e questo porta al paradosso di politici che sostengono la causa della famiglia pur avendone un paio alle spalle.
La scelta non è proprio così ovvia. Se la politica è l’arte del compromesso, è meglio puntare su un candidato capace, con le idee chiare ma con un curriculum personale non ineccepibile, o votare un candidato di specchiata moralità ma poco capace o poco in linea con il nostro modo di vedere la società?
Qualcuno obietterà che se il candidato non vive ciò che sostiene non sarà davvero in grado di portare avanti la causa. In teoria il discorso fila; nel concreto, però, va rilevato che non sono rari i casi di politici “non credenti” che hanno fatto per i valori cristiani molto di più rispetto ai politici “credenti”.
2. per cosa si vota.
Prima di entrare in cabina è importante capire per cosa si sta votando.
La rappresentanza europea è una questione politica: quindi riguarda i grandi temi, i principi, i valori che vorremmo dare all’Europa.
Le elezioni amministrative, invece, riguardano la gestione del territorio, che con la politica ha (o, almeno, dovrebbe avere) poco in comune: non mi interessa in cosa creda l’amministratore del mio condominio, purché svolga bene il suo lavoro. In una città, strade pulite e giardini accoglienti non sono di destra, di sinistra o di centro.
3. una questione di democrazia.
In campo cristiano c’è chi sostiene che non dovremmo interessarci alle questioni politiche e sociali, in quanto “non siamo di questo mondo”; in risposta c’è chi obietta che comunque “viviamo in questo mondo”, e che interessarci a chi ci sta attorno sia la testimonianza più efficace dell’amore che siamo chiamati a mostrare.
Va rilevato anche che la democrazia è un privilegio, e non è per niente scontato: la libertà di vivere la propria fede in privato e in pubblico è preziosa e, purtroppo, rara. Smettere di tutelarla potrebbe rivelarsi, in un futuro più o meno remoto, una scelta poco saggia.
4. votare o non votare.
Certo, onestamente parlando, spesso è difficile decidere per chi votare. Talvolta pare che i candidati facciano di tutto per non farsi scegliere, e il teatrino dei politici non aiuta le istituzioni a mantenere il dovuto contegno e la necessaria autorevolezza.
In questo contesto anche l’astensione può essere una forma di scelta. Estrema, ma legittima.
L’importante è che venga esercitata in seguito a una decisione consapevole e non per pigrizia. Quello, sì, sarebbe inaccettabile: come elettori e come cristiani.
Farewell, mr. President
Ultimo giorno di lavoro per George Walker Bush: martedì, dopo il giuramento di Obama, verrà portato in Texas, dove comincerà per lui una nuova vita da ex presidente. La Stampa spiega che si impegnerà «alla guida del “Freedom institute”, presso l’Università metodista del sud», istituto da lui fondato ad hoc per il dopo-Casa Bianca.
Prima di dare spazio a Obama – che, a dire il vero, in questi ultimi mesi si è già impadronito della ribalta – e chiudere il capitolo dell’era Bush ci sembra corretto ricordare un presidente che negli ultimi mesi è stato fatto oggetto di un intenso e ingeneroso tiro al bersaglio.
Secondo la vulgata benpensante la reazione è stata inevitabile conseguenza delle decisioni sbagliate prese da Bush nel corso del suo mandato, ma probabilmente la verità è un’altra, ed è legata all’immagine del suo successore. Nel suo ultimo anno di mandato, infatti, Bush è stato oscurato dalla stella di Obama: nero e giovane, brillante e tecnologico come nessun altro, fin dagli inizi della campagna elettorale 2008 Obama ha finito per incarnare agli occhi del mondo l’immagine del nuovo e della novità. Bush, di conseguenza, è apparso a un tratto banale, antico, demodé, diventando all’improvviso padre di tutte le colpe e le nevrosi dell’Occidente.
Eppure, nel suo conservatorismo solidale, nella sua ordinarietà, in quella mediocrità che tanto ha fatto discutere il mondo, Bush è stato un presidente innovativo. In un paese dove Dio e la fede stanno diventando qualcosa di cui vergognarsi, Bush ha invertito la tendenza, dichiarandosi serenamente cristiano. Ha raccontato senza remore il suo passato da rampollo viziato e dipendente dall’alcol, e come Dio lo avesse ripescato, alla soglia dei quarant’anni, servendosi di quel Billy Graham che per i Bush è un amico di famiglia.
Una scelta, spirituale e morale, confermata anche alla Casa Bianca: a voler essere onesti si deve riconoscere che la presidenza Bush non ha visto scoppiare scandali personali, dopo l’allegra gestione cui ci aveva abituati Bill Clinton.
Esattamente quattro anni fa, alla vigilia della cerimonia di insediamento (la seconda, dopo quella del gennaio 2001), Bush aveva dichiarato «non vedo come si possa essere presidente senza avere uno stretto rapporto con il Signore», e il suo secondo mandato più del primo ha confermato questo “filo diretto con Dio”, come ebbe a definirlo, raccontandoci della preghiera comunitaria alla Casa Bianca, gli inni cantati insieme ai suoi ministri, la lettura dei salmi al mattino, i culti domenicali, i mille riferimenti cristiani nei suoi discorsi.
Questa sua esposizione – troppo controproducente, sul piano dell’immagine, per non essere sincera – ha avuto le sue ripercussioni anche da noi: perfino le testate più influenti si sono dovute interrogare su chi siano questi evangelici, ribattezzati spesso evangelisti, evangelicali, rinati, a seconda della fantasia del giornalista di turno.
Non è mancata da parte dei media una buona dose di malizia, come ha rilevato a suo tempo il suo consigliere (cattolico) James Towey: «Secondo me, su questo punto si fanno due pesi e due misure. Il presidente Kennedy ha più volte invocato Dio nei suoi discorsi. Il presidente Carter ha perfino provato a convertire al Cristianesimo il presidente sudcoreano. Anche Bill Clinton non nascondeva mai la sua partecipazione a riti religiosi. Pensiamo a Lincoln: è impossibile comprendere la sua presidenza, distaccandola dalla sua fede personale. Ma quando si parla di Bush le cose cambiano. Ritengo che chi lo attacca su questo aspetto è in realtà a disagio con la propria fede. Porto un esempio: se il presidente ha un incontro con la comunità musulmana o ebraica, nessuno dice niente. Se però riceve un gruppo cristiano evangelico, ecco che subito qualcuno lancia l’allarme: che cosa starà facendo? Li sta favorendo? Questo è semplicemente falso».
Il tempo ci dirà se sarà opportuno ricordare Bush per aver detronizzato Saddam Hussein o per le conseguenze drammatiche delle lotte tra bande irachene; se gli afghani avranno saputo sfruttare la cacciata dei taliban o l’impegno americano sarà stato inutile; se le drastiche misure di Guantanamo saranno servite a prevenire nuovi attacchi terroristici contro l’Occidente.
Per il momento, ci piacerà ricordarlo con una sua confessione di qualche anno fa: «Ho pianto molto, [di lacrime] ne ho versate molte di più di quanto si possa pensare che accada a un presidente… In quei momenti mi sono appoggiato alla spalla di Dio».