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Alle fonti della gentilezza
Non so se ve ne siete accorti, stamattina, uscendo di casa e incrociando i vostri vicini: oggi è la giornata mondiale della gentilezza.
Un’iniziativa a dire il vero un po’ velleitaria che però raccoglie persone di buona volontà in una ventina di paesi, che ogni anno promuovono una giornata – sempre il 13 novembre – in vista della quale si occupano di raccomandare e sollecitare la gentilezza verso gli altri.
Un Cuore da bollino rosso
Sadico: l’hanno definito sadico. «In un saggio di prossima pubblicazione – scrive il Corriere – due specialisti, Pino Boero e Giovanni Genovesi, sostengono che Cuore non sia “adatto per i ragazzi”… La lettura di Cuore è sconsigliata per il carattere “lacrimevole”, talvolta “truculento”, spesso “sadico”».
Del libro Cuore, nel nostro piccolo, avevamo già parlato. A quanto pare, però, non eravamo informati sui fatti.
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L'egoismo che uccide
Nei giorni scorsi i giornali hanno raccontato la notizia del panettiere di Sanremo rimasto oltre quattordici ore in coma sulle scale prima che qualche vicino di casa si degnasse di soccorrerlo.
Era lì, rannicchiato sul pianerottolo, dopo che una caduta gli aveva provocato un trauma cranico; tutti i coinquilini però – e ne sarà passato qualcuno, nel corso della giornata – hanno creduto, o hanno voluto credere, che fosse ubriaco.
Sul Corriere Isabella Bossi Fedrigotti commentava lamentando l’indifferenza, “la nuova malattia” che non è “solo un malessere minore” o “un secondario tic”; riflette sul fatto che probabilmente «almeno una ventina di persone, se non di più, quante, cioè, abitano sopra il primo piano, rientrando la sera o uscendo la mattina, abbiano dovuto letteralmente scavalcare il corpo», e conclude che, italiani o extracomunitari che fossero, «le regole del vivere civile si stanno appannando un po’ per tutti».
Ha ragione, ma forse sarebbe necessario aggiungere un elemento su cui non ci si è soffermati.
Probabilmente capita a tutti, quotidianamente e in qualsiasi città, di imbattersi in persone sedute per la strada, distese ai giardini, assopite nelle stazioni, accucciate sotto i portici. Talvolta, nel fissarli, sorge davvero qualche dubbio sulla loro sorte: sono solo appisolati, oppure hanno avuto un malore? Stanno smaltendo i postumi dell’ebbrezza alcolica, oppure hanno perso i sensi per qualche ragione più seria?
Nel dubbio, spesso ci limitiamo ad andare avanti; talvolta allertiamo qualche agente di polizia o telefoniamo al 118.
Non ci permettiamo azioni più marcate per non sembrare fuori luogo: il comune sentire – quel senso di cui giorno dopo giorno stiamo perdendo la funzionalità – ci insegna che è abbastanza normale, per giovani e meno giovani, bivaccare sul sagrato di una chiesa, o stendersi su una panchina a riposare.
E nessuno si permetta di invocare la buona creanza, un’anticaglia che suscita sorrisi di compassione al solo nominarla: d’altronde, ci si sentirà rispondere, cosa ci sarà mai di male nel distendersi su una panchina, sedersi per terra, intralciare con l’auto in seconda fila il percorso degli altri? Sono gesti entrati nella quotidianità egoista di tutti noi: chi, di fronte a uno di questi gesti, provasse a chiedere “ha bisogno d’aiuto?” verrebbe preso a male parole.
Sarà solo una questione di regole e di formalità superflue, ma qualche anno fa era più semplice capire se qualcuno si trovasse in difficoltà.
Oggi che l’abito non fa il monaco, non si distingue il vero dal finto povero. Oggi che la chirurgia estetica fa miracoli, non si distingue il vero dal finto giovane. Oggi che la sciatteria dei comportamenti regna sovrana in ogni piccolo gesto, non si distingue il vero dal finto malato.
Ci si ride su, almeno fino a quando le conseguenze non si fanno letali. E a quel punto, amaramente, dobbiamo constatare come la coperta che ci siamo cuciti a misura del nostro egoismo sia troppo corta perfino per un’esistenza individualista come la nostra.
L’egoismo che uccide
Nei giorni scorsi i giornali hanno raccontato la notizia del panettiere di Sanremo rimasto oltre quattordici ore in coma sulle scale prima che qualche vicino di casa si degnasse di soccorrerlo.
Era lì, rannicchiato sul pianerottolo, dopo che una caduta gli aveva provocato un trauma cranico; tutti i coinquilini però – e ne sarà passato qualcuno, nel corso della giornata – hanno creduto, o hanno voluto credere, che fosse ubriaco.
Sul Corriere Isabella Bossi Fedrigotti commentava lamentando l’indifferenza, “la nuova malattia” che non è “solo un malessere minore” o “un secondario tic”; riflette sul fatto che probabilmente «almeno una ventina di persone, se non di più, quante, cioè, abitano sopra il primo piano, rientrando la sera o uscendo la mattina, abbiano dovuto letteralmente scavalcare il corpo», e conclude che, italiani o extracomunitari che fossero, «le regole del vivere civile si stanno appannando un po’ per tutti».
Ha ragione, ma forse sarebbe necessario aggiungere un elemento su cui non ci si è soffermati.
Probabilmente capita a tutti, quotidianamente e in qualsiasi città, di imbattersi in persone sedute per la strada, distese ai giardini, assopite nelle stazioni, accucciate sotto i portici. Talvolta, nel fissarli, sorge davvero qualche dubbio sulla loro sorte: sono solo appisolati, oppure hanno avuto un malore? Stanno smaltendo i postumi dell’ebbrezza alcolica, oppure hanno perso i sensi per qualche ragione più seria?
Nel dubbio, spesso ci limitiamo ad andare avanti; talvolta allertiamo qualche agente di polizia o telefoniamo al 118.
Non ci permettiamo azioni più marcate per non sembrare fuori luogo: il comune sentire – quel senso di cui giorno dopo giorno stiamo perdendo la funzionalità – ci insegna che è abbastanza normale, per giovani e meno giovani, bivaccare sul sagrato di una chiesa, o stendersi su una panchina a riposare.
E nessuno si permetta di invocare la buona creanza, un’anticaglia che suscita sorrisi di compassione al solo nominarla: d’altronde, ci si sentirà rispondere, cosa ci sarà mai di male nel distendersi su una panchina, sedersi per terra, intralciare con l’auto in seconda fila il percorso degli altri? Sono gesti entrati nella quotidianità egoista di tutti noi: chi, di fronte a uno di questi gesti, provasse a chiedere “ha bisogno d’aiuto?” verrebbe preso a male parole.
Sarà solo una questione di regole e di formalità superflue, ma qualche anno fa era più semplice capire se qualcuno si trovasse in difficoltà.
Oggi che l’abito non fa il monaco, non si distingue il vero dal finto povero. Oggi che la chirurgia estetica fa miracoli, non si distingue il vero dal finto giovane. Oggi che la sciatteria dei comportamenti regna sovrana in ogni piccolo gesto, non si distingue il vero dal finto malato.
Ci si ride su, almeno fino a quando le conseguenze non si fanno letali. E a quel punto, amaramente, dobbiamo constatare come la coperta che ci siamo cuciti a misura del nostro egoismo sia troppo corta perfino per un’esistenza individualista come la nostra.
A ruoli invertiti
Si chiama Roberto Wagner, ha 44 anni e un passato intenso – elicotterista, pilota di go-kart, produttore discografico – e un presente meno emozionante ma non meno impegnativo: fa la mamma a tempo pieno. O meglio, come si definisce lui stesso, il “mammo”. Tutto è cominciato nell’estate del 2000, quando in Grecia ha incontrato Robyanne, che sarebbe diventata presto sua moglie; sono venuti a vivere a Milano e, nel mettere su famiglia hanno dovuto prendere delle decisioni su come gestire la famiglia.
Se infatti il lavoro di Roberto non era monotono, la professione di Robyanne è totalizzante: assistente di volo su linee aeree internazionali, quei ruoli che ti tengono lontano da casa per settimane.
Qualcuno avrebbe dovuto fare un passo indietro, per badare ai figli senza sballottarli tra una tata e un asilo, novelli orfani virtuali cresciuti per procura.
A passare la mano è stato il papà: «Ho pensato che avrei potuto provare a stare io con i piccoli. Lei ama il suo lavoro, è ancora giovane. Io ho avuto una vita piena, sono stato elicotterista, ho vissuto intensamente il lavoro in discografia, ho girato il mondo, non mi spaventa cambiare e ricominciare». Eccolo così a preparare colazioni, accompagnare i piccoli a scuola, chiacchierare con le mamme dei compagni, cambiare pannolini, curare i raffreddori e così via.
Racconta che «stare con i bambini è il lavoro più bello e faticoso del mondo» e riflette: «Forse le donne sono predisposte, geneticamente programmate, a loro viene più naturale».
Mero maschilismo di ritorno? Suonerebbe strano, vista la ammirevole scelta di vita del “mammo”. Forse allora il concetto merita una riflessione più profonda, lontana dai luoghi comuni più alla moda.
In fondo l’esperienza del “mammo” è qualcosa di più profondo rispetto alle belle parole dei terapeuti di coppia: un’esperienza testata sul campo, che dimostra come la semplice buona volontà di venirsi incontro – che, in questo caso, certo non manca – non sempre basti.
E allora chissà. Magari dovremmo rivedere quella generica parità di ruoli che viene predicata dai facili profeti di modernità, quell’intercambiabilità facile da vivere solo se si resta in superficie, ma che rischia di compromettere gli equilibri se dalla teoria si passa alla pratica.
Roberto ammette che “Il ribaltamento di ruoli… comporta qualche problema di coppia“: «Il mammo entra in un terreno minato. Un conto è la moglie che ti lascia il pupo e ti dice cosa fare, un conto il contrario. Mica facile per la donna accettare questa invasione di campo».
Se per un papà è difficile fare la mamma, per una mamma è altrettanto arduo accettare un ridimensionamento del proprio ruolo. Non è impossibile, ma ci vuole una massiccia dose di buona volontà: per quanto moderna e anticonformista possa essere una coppia, portare avanti scelte così controcorrente è un impegno dentro l’impegno.
Questo non significa, naturalmente, che sia impossibile: ogni coppia può decidere in autonomia la strada da seguire, l’importante è che a prevalere siano le esigenze dei figli, non l’affermazione di un principio o di una ragione.
Va da sé che poi, qualunque sia stata la scelta, nello sviluppo del progetto di vita comune non devono mai mancare maturità, buonsenso, responsabilità. E coerenza rispetto alle decisioni intraprese: i ruoli nella coppia si possono invertire, ma non si possono improvvisare.
Troppo facile
“C’è crisi, dilagano le psico-sette: le prime vittime sono i manager”, titolava mercoledì Il Giornale.
Si scopre che, al Centro Studi Abusi Psicologici sono pervenute oltre quattromila richieste di aiuto da parte di persone cadute nella rete delle psicosette, o di parenti e amici che vedono una persona cara cambiare il proprio atteggiamento verso gli altri e scontrarsi con i familiari.
Il dato più interessante riguarda l’identikit di chi cade nel tranello: “uomo, giovane (29 anni), laureato, professionista (architetto, avvocato, ingegnere)”. Non è quindi persone di scarsa preparazione culturale o disadattate, ma la cosiddetta “società civile” a rischiare di restare ammaliata da queste realtà che “promettono benessere psicofisico e rendimento massimo nel lavoro”, insieme a una spruzzata di metafisico.
Ce li possiamo immaginare, questi soggetti a rischio.
Forti fuori ma deboli dentro, dopo anni di sacrifici e qualche utile mezzuccio per raggiungere il fine (che, si sa, giustifica i mezzi), ostentano il successo raggiunto con un’apparenza che inganna l’osservatore, facendo credere che siano davvero felici.
E invece felici non sono proprio, se sentono il bisogno di rendere di più, presumibilmente per avere di più e mostrare di più, sfoderando tutto l’orgoglio possibile per marcare la distanza tra ciò che vogliono dimostrare e ciò che, invece, sono.
Se a questo aggiungiamo l’insoddisfazione di chi ha confuso l’essere con l’avere, e l’esigenza – celata in ognuno di noi – di dare un senso vero alla propria vita, diventa più chiaro il motivo per cui persone rispettabili e insospettabili possono diventare adepti di psicosette poco raccomandabili, infilandosi in un tunnel di privazioni affettive, umane, sociali per aderire a una ricerca filosofico-spirituale dalle credenziali più che dubbie.
D’altronde, si sa: l’essere umano ama le soluzioni complicate. Basterebbe rispolverare la Bibbia (che tutti, nel nostro Paese, possiedono) per scoprire un tesoro di risposte, di spiritualità profonda, di consigli preziosi per la vita quotidiana e per l’esistenza. Troppo facile, troppo economico, troppo vicino, troppo trasparente: le strade tortuose, costose, esotiche e ammantate di mistero sono decisamente più affascinanti.