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Vacanze connesse

Cambiano le abitudini estive degli italiani: se una volta per scegliere una località di vacanza si valutavano servizi legati all’accoglienza o alle bellezze naturali (panorami da cartolina, acqua limpida in cui tuffarsi, spiagge pulite), oggi ci si preoccupa di verificare che l’albergo, e magari anche la spiaggia, siano coperti dalla rete wi fi, per restare connessi.

E non sono solo i giovanissimi a richiedere la possibilità di collegarsi a Internet: «il 79% delle persone comprese nella fascia d’età tra i 45 e i 55 anni – scrive Mirella Serri sulla Stampa – ritiene questa caratteristica un elemento essenziale nell’orientare la propria scelta per un hotel o per un casale».
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Un disperato bisogno di ascolto

I dati raccolti da Telefono Azzurro dicono che pericoli e maltrattamenti sui minori continuano purtroppo con intollerabile frequenza.

Negli ultimi anni però si è profilato un cambio di prospettiva: oltre ai rischi che provengono dagli sconosciuti è aumentato il numero di casi in cui le malsane attenzioni nascano all’interno della cerchia familiare: genitori, ma anche insegnanti, amici di famiglia (titolo decisamente poco azzeccato), parenti, vicini, guide spirituali. Un quadro desolante cui Telefono Azzurro risponde come può, ma che apre uno squarcio su un mondo diverso da quello che vedono molti di noi.
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Michael Jackson e la fede

«Ma davvero Michael Jackson si è convertito poco prima di morire?», ci hanno chiesto molti lettori.

La notizia, che rimbalza in queste ore attraverso i social network, parte da una dichiarazione su Facebook delle Mary Mary, nota formazione vocale USA, secondo cui Jackson, di recente, “avrebbe accettato Gesù nella sua vita”.

«L’altra sera – scrivevano le Mary Mary il 26 giugno – abbiamo ricevuto una buona notizia da Terri McFaddin-Solomon, che è una buona amica di Sandra Crouch. Tre settimane fa Sandra e Andre [Andrae Crouch, noto cantante gospel, ndr] hanno trascorso un po’ di tempo con Michael Jackson, che era loro amico. Michael chiese ad Andrè di suonare “It Won’t Be Long And We’ll Be Leaving Here” (Tra non molto ce ne andremo), poi Michael ha pregato con Sandra e Andre e ha accettato Cristo nel suo cuore».

Succede alla morte di ogni personaggio: a prescindere da quale sia stato il suo comportamento, la sua etica, la sua fede, a  qualche ora dalla dipartita negli ambienti cristiani comincia a circolare la notizia, più o meno fondata, sulla sua conversione.

Il racconto entusiastico delle Mary Mary è stato però smorzato dallo stesso Crouch, protagonista della vicenda insieme alla sorella Sandra.

«Andrae’ and Sandra – riferisce Crouch nel suo spazio su Facebook – hanno visitato Jackson in due occasioni negli ultimi due mesi, una volta presso lo studio di registrazione e poi, tre settimane fa, a casa sua. Michael chiese preghiera per una unzione dello Spirito Santo, e come potesse rendere la sua musica più “spirituale”, così Andrae e Sandra gli hanno spiegato il concetto di unzione e gli hanno parlato di Gesù».

«Voleva sapere – continua il racconto di Crouch – cosa fa sì che le mani si alzino, cosa ti fa “uscire da te stesso”, cosa dà spiritualità alla musica. Ha poi chiesto di ascoltare il suo brano preferito, e ha voluto cantarlo, così lo hanno cantato insieme, alzando le mani e Michael ha esclamato “È bellissimo!”».

Insomma, Michael ha sicuramente avuto un incontro con Andrae e Sandra, e stando ad Andrae «non ha rifiutato Gesù, o la preghiera»: anzi, chiosa il cantante, Jackson è stato contento di unirsi a loro in preghiera e, lui che non tocca mai nessuno, li ha presi per mano per cantare e pregare.

Un dato, questo, significativo ma non decisivo; e lo stesso Crouch riconosce che «Non c’è stata alcuna “preghiera di conversione”», come altre fonti accennavano.

Questo avveniva tre settimane prima che Michael Jackson morisse. Nessuno può sapere cosa sia successo nel cuore di Michael Jackson nelle sue ultime ore di vita, e quindi non possiamo dire una parola definitiva sulla posizione spirituale al termine della sua esistenza: né in positivo, né in negativo.

Vorremmo, ma non sta più a noi. E, in fondo, è molto meglio così.

Parole a vuoto

Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.

Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».

Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.

Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.

In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.

Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.

Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.

«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.

A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.

Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.

Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.

Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.

Samaritani digitali

A Rhonda Surman evidentemente non andava proprio giù l’idea che quei due giovani sposini non avessero più le foto della loro luna di miele: aveva ritrovato la loro macchina fotografica digitale in un sito archeologico scozzese, senza nomi né altri riferimenti ai proprietari. Così, attraverso una ricerca in rete, la diffusione delle foto sui social network e la collaborazione degli internauti, è riuscita a risalire fino ad Aberdeen e alla casa dove viveva quella anonima coppia un po’ sbadata.

La storia ha ispirato il New York Times – e il Corriere, che l’ha rilanciata in Italia – perché rappresenta una nuova tendenza: quella dei «”digital Samaritans”, i samaritani digitali, quelli che non se ne fregano insomma, per identificare coloro che si impegnano per restituire oggetti ritrovati a chi li aveva originariamente perduti. Una missione, questa, che le nuove tecnologie rendono oggi particolarmente semplice».

Semplice, ma non scontata: il Corriere segnala che «è soprattutto l’intraprendenza personale, la voglia appunto di farsi buoni samaritani, a fare la differenza. Chi trova una macchina fotografica potrebbe anche decidere di tenersela. Consegnarla alle autorità di polizia può già sembrare un gran gesto, quanto basta per sentirsi a posto con la coscienza. Ma attivarsi e dedicare del tempo facendo di tutto per cercare di riportare l’oggetto nelle mani di chi l’ha perduto è decisamente qualcosa che va oltre».

Ed è forse questo il punto. Il web, insieme a tutta la tecnologia che ha invaso le nostre vite, è uno strumento, non un fine. Non vive di vita propria, non possiede una sua etica. Dipende da noi, ed è paradossale che talvolta ci ritroviamo convinti di dipendere da lui.

I mezzi sono neutri. Possiamo usarli per frodare le tasse, costruire bombe, allacciare rapporti poco raccomandabili. Oppure possiamo servircene per dare speranza a chi soffre, sollecitare le giuste domande, venire in aiuto di chi ha bisogno di noi. Ci permette di farlo più di ieri, meglio di ieri, in maniera più incisiva di ieri.

Le potenzialità ci sono, ma i contenuti dobbiamo metterli noi. Le tecnologie si limitano a enfatizzare, amplificare, portare all’estremo quello che siamo. E il modo in cui le usiamo racconta di noi, dei nostri valori, dei nostri scopi.

La tecnologia non ha un cuore. Noi sì. O almeno si spera.