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Il ritocco della discordia

Gisele Bundchen è stata protagonista, ieri, di una vicenda quantomeno curiosa che la riguarda peraltro solo indirettamente.

La famosa e ricercatissima modella brasiliana ha posato per la campagna pubblicitaria di una marca di abbigliamento. Nella foto compare a dire il vero poco vestita, e questo potrebbe già essere motivo di ironia, se la pubblicità in questi anni non ci avesse abituato a paradossi peggiori.

La cosa che ha fatto discutere è che compare magra. Niente di strano per una modella, se non fosse che Gisele Bundchen è incinta. Un colpo di videoritocco, ed ecco sparire il pancione.

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Parole a vuoto

Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.

Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».

Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.

Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.

In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.

Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.

Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.

«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.

A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.

Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.

Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.

Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.

Felicità gonfiate

«Nel mondo dello spettacolo rifarsi è un’ossessione. La plastica in tv mette in moto una reazione a catena: mi arrangio con il botulino, ma non so quanto resisterò»: parole di una starlette nota al pubblico italiano. Ai suoi esordi, nelle interviste, erano per lei motivo di vanto le sue vistose protesi mammarie, dichiarando che aveva deciso di maggiorare le sue misure per per ottenere la notorietà.

Qualche lustro dopo la ritroviamo a lanciare l’allarme: dei suoi pregi acquisiti parla oggi come di un drammatico circolo vizioso, che costringe al rilancio continuo per non cedere ai segni del tempo. I suoi punti di forza sono diventati allo stesso tempo un idolo e una dipendenza (“un’ossessione”).

Una situazione drammatica sul piano umano, perfino disperata sul piano estetico («mi arrangio con il botulino, ma non so quanto resisterò»), che presenta tristemente il conto alle dichiarazioni ammiccanti e sostenute dell’epoca, quando alla soubrette sembrava sarebbe bastata qualche misura in più per essere felice.

Chissà se oggi, risvegliata dall’anestesia cui la celebrità l’ha sottoposta, ha colto la falsità dell’accostamento tra la felicità – quella vera – e fama, denaro, eccessi.

Chissà se, delusa da una vita a fondo cieco, avrà il coraggio di cercare una via alternativa, o se invece vorrà rilanciare fino all’ultimo, nella disperazione di una decadenza che i continui interventi estetici accelereranno.

E chissà se la sua (triste) vicenda potrà essere un monito per chi continua a vedere nel personaggio televisivo un essere che rasenta la perfezione, da mitizzare e invidiare, o per chi aspira a entrare nel rutilante mondo dello spettacolo.

Cosa dire, come dirlo

Ieri ho assistito a un recital. Originale, in campo cristiano, come forma di comunicazione artistica: a colmare la lacuna ha pensato Chris Burnett, eclettico americano che vive da anni nel nostro paese, e che ha dimostrato una capacità di adattamento e di comprensione non comuni (detto per inciso, forse è una questione di approccio: non è arrivato in Italia da missionario ma da “semplice” credente, e forse in questa prospettiva l’integrazione è più agevole).

Non è facile costuire uno spettacolo, questo lo sanno tutti. O almeno, tutti coloro che sanno cosa sia uno spettacolo, e non pensano che improvvisare sia la scelta migliore per qualsiasi evenienza, dalla predicazione ai concerti.

Un recital, forse, è qualcosa di ancora più complicato: richiede non solo performance convincenti, ma anche un calibrato equilibrio tra parole e musica e una buona capacità di concatenare le singole performance dando alla storia un filo logico.

Le parole adatte e il tempismo adeguato, insomma. Chris, insieme a sua moglie Erma e accompagnato da Andrea di Francia alla batteria, c’è riuscito, e ha costruito una serata sobria, piacevole, convincente. E toccante. Ha raccontato la sua storia di “bravo ragazzo” che, dietro le quinte, viveva tra contraddizioni e ipocrisie. Per tutti era un bravo cristiano: il segreto del suo disagio lo nascondeva dentro di sé, «ero un primo della classe – come ha spiegato con una metafora – ma la mia vita non era un 30 e lode, quanto un 29. Mi mancava sempre qualcosa».

Quel qualcosa lo ha trovato in un’occasione spiacevole: la morte di un suo amico, partito missionario per le Filippine e stroncato in poche ore da un virus. Una vicenda che ha colpito Chris e lo ha fatto riflettere, fino a portarlo a quella scelta di vita che lo ha reso veramente un cristiano.

Non è facile raccontare una vicenda così complessa, vissuta in prima persona, in maniera ordinata ed efficace, senza cadere nella tentazione di giocare sul senso di pietà o sul sentimentalismo: e forse proprio per questo la serata ha toccato i presenti.

Non c’è stata una predicazione, non c’è stato un appello, non ci sono state scene di commozione. Qualche tradizionalista resterebbe perplesso per questo.
Eppure la partecipazione del pubblico alle riflessioni di Chris si percepiva attraverso un silenzio irreale che testimoniava un’attenzione non di maniera.

Si può parlare di Cristo senza scadere nelle solite formule? Pare di sì. Anche se è raro.