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Abbastanza grandi per capire
Mirko Locatelli, giovane regista milanese, è stato invitato da una scuola elementare e media di Milano a realizzare un documentario didattico raccontando – spiega il Corriere – “le idee dei giovanissimi, da 6 a 14 anni, a proposito di legalità”.
Tra le venti ore di interviste ai ragazzi su temi come la vita, la morte, l’immigrazione, la diversità, i valori, sono emerse differenze di analisi in base all’età («Alle medie… i maschi cominciano a riproporre concetti presi dagli adulti, sono più influenzabili») e al genere («le ragazzine… hanno più capacità di analisi, vogliono vivere bene, tutelare se stesse e gli altri…»).
Parlando di famiglia, Locatelli racconta: «Ho notato un fatto curioso. I figli che sono stati e sono “spettatori” dei litigi fra padre e madre, una volta intervistati mettevano l’accento sul fatto che i genitori “si dicono anche le parolacce”. Per loro era sconvolgente individuare nella propria famiglia il “trasgressore” delle regole, quelle stesse che abitualmente i genitori insegnano loro. Molti mi hanno detto “A volte dobbiamo fare noi i grandi…”».
Non so voi, ma personalmente rabbrividisco di fronte a certe situazioni di ordinario paradosso.
Figli presi in ostaggio tra due litiganti ma che non godono affatto, e restano disorientati da genitori che si comportano in maniera opposta rispetto a quel che insegnano.
Bambini che, quando non vengono tirati in mezzo alle dispute di una coppia in crisi, si ritrovano nel ruolo innaturale di pacieri in erba, angosciati da una vicenda più grande di loro, che non possono controllare né risolvere.
Bambini troppo adulti che devono badare ad adulti troppo bambini, incapaci di scrollarsi di dosso la superficialità di una vita catodica nemmeno di fronte alla responsabilità di una famiglia.
Ma gli adulti irresponsabili non si concentrano tutti nella categoria dei genitori, anche se in quel contesto si notano di più. L’esempio sbagliato può venire – e spesso viene – anche da chi, forse, leggendo di questi drammi familiari ha tirato un sospiro di sollievo.
Se i bambini sono la società del futuro, non stiamo investendo abbastanza per dare loro il futuro che si meritano. Siamo troppo impegnati a fare i nostri interessi, presi da quell’egoismo che ormai non risparmia nessun versante del tempo in cui viviamo, per ricordarci di quei piccoli, semplici gesti e parole che cambiano la giornata (e, talvolta, la vita).
Gesti e parole che aiutano adulti e bambini: dare una mano a chi ne ha bisogno, stare vicino a chi soffre, offrire un sorriso a chi ha il buio dentro, spendere una parola di speranza con chi prova la disperazione di veder crollare tutto attorno a sé.
Sono gesti e parole che non hanno età, e di cui si sente il bisogno a tutte le età: non è solo l’adulto ad aver bisogno di sapere che c’è sempre qualcuno pronto a starci vicino, su cui contare e da cui correre nei momenti più tristi.
Anzi: forse i primi a capirlo e a sentire l’esigenza di questo Qualcuno, in una società come la nostra, sono proprio i più piccoli.
Dietro la facciata
La Gran Bretagna si inchina davanti alla sua nuova diva, una anonima disoccupata quarantottenne che ha dapprima fatto sorridere, poi stupito e infine entusiasmato il pubblico televisivo.
Doveva essere una banale serata di nuove proposte per il programma “Britain’s Got Talent”, una sorta di “X factor” in salsa inglese dove aspiranti artisti di successo si esibiscono davanti a un pubblico in sala – e milioni di spettatori a casa – e a una giuria composta da tre esperti che, a differenza del programma nostrano, sono così giovani e fotogenici da sembrare finti.
Sabato sera, a un certo punto, sale sul palco Susan Boyle: 48 anni, goffa, vestitino a fiori e viso dai tratti ruspanti, poco consoni alla televisione di oggi: una sorta di Arisa più in età (e meno truccata).
Il suo ingresso solleva le risatine del pubblico e la perplessità dei patinati in giuria, un po’ come succede alla Corrida di fronte ai personaggi più improbabili: la signora Boyle è evidentemente fuori target, fuori età, fuori forma, fuori format, fuori tutto.
Dalle battute che scambia con i bellocci che ne dovranno valutare le capacità artistiche si dimostra spiritosa e, tutto sommato, a suo agio in un contesto dove sembra capitata per caso.
Lo scetticismo del pubblico e della giuria si spegne appena Susan attacca il brano: in barba a chi si aspettava una macchietta, la donna sfodera una voce limpida, intonata, potente, posata ma non artefatta. Che lascia letteralmente a bocca aperta i giurati, mentre il pubblico scatta in piedi a metà esibizione per una imprevedibile standing ovation.
Il successo della performance viene confermato nei giorni successivi, quando cinque milioni di navigatori si godranno la sua interpretazione da Youtube, tanto che i bookmaker ne prevedono la vittoria. Un vero tripudio che Susan ha accolto con sorpresa e, forse, un po’ di sollievo.
Chissà quanti le avranno sbattuto la porta in faccia, di fronte alle sue aspirazioni musicali accompagnate, ahilei, da una faccia un po’ così. Chissà quante delusioni. Chissà quanti agenti discografici, che magari fino a ieri avranno riso di fronte a quella donnona sgraziata e ai suoi demo, oggi si mangeranno le mani per non essersene accaparrati l’esclusiva.
Eppure sarebbe bastato ascoltarla. Sarebbe bastato non fermarsi all’apparenza, a quell’apparenza che è la chiave di lettura e il leit motiv di quest’epoca. Quell’apparenza che fa emergere i belli, a prescindere dalle loro capacità, e non offre alcuna opzione a chi – per scelta o per ventura – non rientra nei canoni.
Susan Boyle è una piccola, parziale, insignificante rivincita di chi si ritrova escluso, pur meritando un’occasione.
Ma è anche una lezione, per tutti noi. Perché, nonostante la storia e l’esperienza, ancora oggi tendiamo troppo spesso a giudicare dall’apparenza, e finiamo per non dare alla sostanza nemmeno il tempo di convincerci a cambiare idea.
Ci crediamo di larghe vedute, ma non lasciamo concludere un concetto. Ci consideriamo progressisti, ma non siamo in grado di ascoltare per intero un consiglio. Ci spacciamo per validi interlocutori, ma non siamo capaci di leggere con attenzione le ragioni altrui. Ci illudiamo di essere democratici, ma non garantiamo un’opportunità a chi ci sta di fronte.
E, quel che è peggio, spesso ci pregiamo di essere cristiani, ma non abbiamo ancora superato i pregiudizi più elementari.
Sì, di fronte al caso di Susan Boyle possiamo solo fare silenzio e ascoltare. La sua splendida voce e la sua lezione.
La ragazza del fiume
«Due milioni e settecentomila spettatori: questo il numero delle persone che hanno seguito ieri sera “Chi l’ha visto“, il programma di RaiTre dedicato alle persone scomparse e agli omicidi misteriosi. Nel corso della puntata, stravolta rispetto ai piani originari a causa delle nuove rivelazioni sul caso Orlandi, Federica Sciarelli è tornata anche sulla vicenda del cadavere di donna ritrovato nel Po lo scorso 25 maggio».
Se poi non saranno stati proprio due milioni e settecentomila gli spettatori arrivati svegli fino alle 22.40 per seguire il collegamento con Milano, non importa: è già una soddisfazione che la nostra testata venga interpellata da un programma Rai come fonte autorevole in relazione a un caso che, in qualche modo, risulta legato al mondo evangelico.
Nel breve intervento in diretta ho tentato di dare un quadro quanto più ampio possibile per inquadrare correttamente il contesto evangelico ed evitare quindi che il braccialetto venga considerato come un banale feticcio; la vicenda però mi ha fatto, ancora una volta, pensare.
Nel ragionare su un paio di possibili ipotesi sul perché una ragazza trovata cadavere nel Po portasse al polso un braccialetto “evangelico”, mi sono reso conto di quanto sia semplice, tutto sommato, che casi come questo avvengano.
In una normalissima chiesa evangelica arriva un volto nuovo: è una ragazza dal passato difficile, lo testimoniano un paio di ampi e aggressivi tatuaggi – di cui uno recente – e un modo di vestire trasandato per i nostri canoni. Viene da lontano, non si è mai ambientata nella zona perché il tempo disponibile l’ha trascorso con compagnie poco raccomandabili, e per questo è rimasta straniera nella città dove, per scelta o per ventura, vive ormai da anni.
La ragazza cerca: cerca una soluzione per la sua vita, cerca una risposta. Trova la fede. O, almeno, un granello di Parola si posa nel suo cuore. Le si apre un mondo che non conosceva, fatto di amore, solidarietà, persone semplici e sincere, magari un po’ fissate ma buone, che le fanno ritrovare fiducia nel genere umano. Capisce che può farcela, e comincia timidamente – lei, piantina ancora fragile – a frequentare culti e riunioni, fermandosi volentieri a scambiare due parole, magari senza aprirsi troppo per non scoperchiare un passato che preferisce seppellire. E che invece, a breve, seppellirà lei in un sacco, prima di buttarla nel fiume.
A un certo punto questa ragazza, che si è fatta vedere in chiesa per qualche mese con ragionevole costanza e buon interesse nei confronti della fede, sparisce improvvisamente.
Cosa fa la chiesa? Forse si chiede che fine abbia fatto. Ma non va a cercarla: in fondo venire in chiesa è una scelta, e poi magari ora ne frequenta una dove si trova meglio (lei, che era sempre presente con il sorriso sincero e stupito di chi ha trovato un tesoro), o magari si è trasferita, in fondo non era del posto, e poi a chi vuoi chiedere? Sì, l’abbiamo accompagnata una volta a casa ma non sappiamo esattamente dove abiti, e magari la mettiamo in imbarazzo, disturbiamo.
Magari potrebbero farlo i giovani? Ecco, sì, qualche ragazza potrebbe “fare una visita” con la scusa di vedere come sta: ma poi si sa come finiscono le cose, talvolta è più piacevole un concerto o un’evangelizzazione, e poi come fai a giudicare, se il Signore vuole ce la farà incrociare uno di questi giorni. E comunque, sia chiaro, preghiamo sempre per coloro “che si sono allontanati”. Com’è che si chiamava, a proposito, quella ragazza che si era avvicinata alla fede per un periodo, qualche mese fa?
Naturalmente la chiesa rappresentata qui sopra non è la nostra, ci mancherebbe altro. Noi non lasceremmo mai una persona in difficoltà senza fare del nostro meglio per aiutarla. Non è nostra abitudine rassegnarci quando un’anima comincia a perdersi. Siamo pronti a collaborare con i responsabili della comunità nella cura dei più deboli, confortandoci e incoraggiandoci l’un l’altro come dice la Bibbia. Come farebbe Gesù. Già.
“Cosa farebbe Gesù”: a volte viene da pensare che quel braccialetto dovrebbero renderlo obbligatorio. Come i vaccini.
Rissa continua
Apr 20
Pubblicato da pj
Il Corriere segnala che l’associazione Comunicazione perbene «ha monitorato le reti nazionali per individuare che spazio hanno litigi e risse nei programmi tv quotidiani. Secondo l’analisi ogni 8-10 minuti su uno dei principali canali, si può ascoltare un insulto oppure vedere un dibattito che diventa rissa verbale o che si trasforma in lite. Il tutto aggravato dal fatto, come evidenzia il 75% degli esperti, che questo avviene anche in fascia protetta».
Nello specifico, le categorie a maggiore rischio sono «i reality show e i talent show, dove la rissa sembra sia un vero e proprio ingrediente: in media una ogni 8 minuti di trasmissione».
A seguire, in termini di rissosità, i talk show e i programmi di informazione: «la rissa è per lo più verbale e immancabilmente scoppia ogni 10-11 minuti di trasmissione».
In questa speciale classifica si piazzano solo in terza posizione «quelle trasmissioni che un tempo erano considerate il simbolo della rissa tv: le trasmissioni sportive. In media qui scoppia ogni 12-15 minuti e per la maggior parte si tratta di sopraffazione verbale, seguita da accuse e insulti personali».
In coda «i programmi di intrattenimento, soprattutto i contenitori domenicali, dove la rissa scoppia ogni 18-20 minuti».
Sui reality, nulla quaestio: spesso il genere raccoglie appositamente personaggi invadenti, maleducati, scontrosi, e il carattere dei singoli viene selezionato in maniera da stabilire dinamiche di scontro. Naturalmente i programmi che riassumono le giornate dei nullafacenti puntano a proporre i momenti più significativi, ed è inevitabile che questo alzi la frequenza della rissosità.
In merito ai talent show si potrebbe sperare in un approccio diverso: gli sviluppi di questi ultimi mesi hanno visto prendere il largo il confronto tra allievi, insegnanti, giudici. Una tendenza troppo sospetta e improvvisa per non sospettare una scelta precisa da parte degli autori.
In fondo alla classifica, invece, troviamo due sorprese. Se qualche anno fa ci avessero detto che nel giro di poche stagioni i programmi domenicali si sarebbero conquistati la palma di trasmissioni meno rissose, probabilmente avremmo riso: sono ancora vivide (e disponibili su youtube) le patetiche scene dove protagonisti e commentatori si cimentavano in un triste “tutti contro tutti”.
Allo stesso tempo sarebbe stato difficile credere che un giorno non lontano i programmi sportivi sarebbero risultati tra i meno polemici: e in effetti ancora oggi, collegandosi a una di queste trasmissioni, l’impressione è che liti e insulti avvengano ben più spesso di quattro o cinque volte l’ora.
La categoria che sorprende di più, in questa classifica, è l’informazione. Un programma della testata giornalistica dovrebbe raccontare i fatti con obiettività, o quantomeno con equilibrio e sobrietà; i conduttori dovrebbero saper mantenere alta l’attenzione senza cavalcare le polemiche, esercitando la loro autorevolezza per impedire alle discussioni di degenerare.
E invece, eccoli a pari(de)merito con i talk show, a superare la soglia delle sei risse per ogni ora di trasmissione.
Probabilmente qualche benpensante sosterrà che anche la rissa comporta lo sviluppo di una discussione, che è semplicemente un’esposizione meno garbata e più vivace di una tesi, garantita anch’essa dal diritto all’informazione. Non può che essere così, altrimenti dovremmo chiederci come mai la tendenza all’insulto e alla sopraffazione prosegua implacabile, con il benestare degli anchorman e degli ascolti.
Che non sia solo una questione di stile e di etica, ma anche un problema concreto, lo si evince dai commenti preoccupati di molti esperti interpellati da Comunicazione perbene: la situazione è giudicata “molto rischiosa”, e «secondo il 64% potrebbe avere serie ripercussioni sui comportamenti quotidiani del pubblico, a partire da bambini e adolescenti che crescono convinti che aggredire e sopraffare gli altri sia normale».
Continuare il gioco al rilancio per accaparrarsi gli spettatori puntando sui toni forti probabilmente garantirà un futuro ai programmi, ma rischia di rubarlo a chi quei programmi, per interesse o per noia, li guarda.
Sarebbe meglio uscire dal circolo vizioso prima che le conseguenze, sul piano sociale, si facciano serie.
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