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Spiriti sottovuoto
Avie Woodbury è una signora che vive in Nuova Zelanda. Non è famosa, né probabilmente intendeva diventarlo, eppure oggi compare sui giornali di mezzo mondo per aver fatto un affare decisamente particolare: attraverso un’asta online ha venduto per 1400 euro due ampolle senza un particolare valore storico, artistico, affettivo o tecnologico.
Già questa sarebbe una notizia – anche se di gonzi, a questo mondo, ce ne sono parecchi -, non fosse che il presunto contenuto delle bottigliette in questione è ancora più clamoroso del prezzo: la venditrice assicura infatti che nei due contenitori, rigorosamente tappati, sarebbero stati rinchiusi due fantasmi “catturati in casa sua con l’aiuto di un esorcista”.
Consigli di lettura – 9
Turismo, musica, società, strategie belliche, teologia tra i consigli di lettura di questa settimana.
Si comincia con “In viaggio con Lutero” (Claudiana) di Reinhard Dithmar. Sono numerosi ogni anno i protestanti che si recano in visita ai luoghi della Riforma: a disposizione hanno ovviamente i manuali di storia e le classiche guide turistiche. Mancava, in italiano, un volume che raccogliesse le informazioni utili per un viaggio sulle tracce di Lutero: ci ha pensato la chiesa luterana in Italia che ha pubblicato, in collaborazione con la casa editrice Claudiana, “In viaggio con Lutero”, testo di Reinhard Dithmar, studioso di teologia, germanistica, filosofia, pedagogia e professore di letteratura.
Nel volumetto, comodo come una guida turistica, vengono presentati fatti storici, dettagli, curiosità sulle località della Turingia e della Sassonia dove visse Lutero.
Una lettura interessante da fare sul campo, ma anche comodamente a casa, per scoprire qualcosa di più su Lutero rispetto a quello che racconta un manuale di storia, senza limitarsi ai dettagli di una comune guida turistica.
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Passando alla musica, nell’estate di vent’anni fa moriva uno dei più grandi direttori d’orchestra del Novecento, Herbert von Karajan. Un genio della bacchetta e allo stesso tempo un personaggio di cui si è parlato molto, ma sul quale mancava una voce “preferenziale”: quella della seconda moglie, Eliette.
Una lacuna colmata da una biografia: “La mia vita al suo fianco”, edito da Giunti, scritto proprio da Eliette Von Karajan l’anno scorso, nel centenario della nascita del direttore.
Si tratta, in realtà, di un’autobiografia della signora Karajan, ma inevitabilmente si trasforma nel racconto della persona cui è stata accanto per oltre trent’anni: trent’anni al fianco di un personaggio pubblico che la signora von Karajan racconta indugiando tra viaggi e “prime”, cerimonie e mondanità, ma rivelando anche il Karajan che poteva conoscere solo lei, privato, umano. Un Karajan che, nel racconto della moglie, piace ritrovare, a tanti anni dall’addio.
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Parlando di vita, non si può non incappare anche nella morte. E la morte è un tema che non si affronta mai molto volentieri. Stefano Lorenzetto, giornalista di lungo corso e ampia sensibilità, le ha dedicato un intero libro: si intitola “Vita morte miracoli. Dialoghi sui temi ultimi”, edito da Marsilio.
Con la consueta formula delle interviste a tema, già sviluppata tra gli altri nel suo precedente e piacevole “Italiani per bene”, Lorenzetto dialoga con una ventina di personaggi sconosciuti ai più, ma con una storia che vale la pena di essere raccontata: c’è l’oncologo affetto da sclerosi che sa quale sarà il suo destino, ma non si rassegna e si presenta ogni giorno a curare i suoi pazienti; c’è il geriatra che accudisce i pazienti in stato vegetativo permanente (e ha visto qualcuno di loro risvegliarsi); ci sono persone comuni colpite da quelle che comunemente chiamiamo “disgrazie”, ma che hanno saputo trovare una nuova speranza o una nuova prospettiva grazie alla fede.
Non tutti i casi proposti sono “da manuale” o del tutto condivisibili, ma il quadro generale che Lorenzetto offre è – come sempre – chiaro e sobrio; il tono è delicato, ma capace di impennarsi e anche di mordere quando cita fatti di cronaca che negano il valore di quella vita la cui importanza viene ribadita, intervista dopo intervista, insieme agli interlocutori.
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Veniamo alla strategia. Sono passati sei anni dalla caduta di Saddam Hussein, ma – come tutti possiamo constatare – al di là del trionfo militare americano, a tutt’oggi la battaglia non è stata vinta del tutto.
Si è trattato – e si tratta – di una guerra diversa da quelle del passato, e proprio per questo richiede – e avrebbe richiesto – un approccio diverso.
A rileggere oggi, a distanza di sei anni dall’uscita, il libro del generale Wesley Clark, “Vincere le guerre moderne. Iraq, terrorismo e l’impero americano” (edito da Bompiani), si può restare sorpresi. Clark, eroe di guerra in Vietnam, è stato comandante supremo delle forze alleate in Europa dal 1997 al 2000, direttore del dipartimento piani strategici del Pentagono e a capo della delegazione per gli accordi di pace nei Balcani a Daytona. Insomma, è uno che conosce l’argomento militare e diplomatico.
Nel libro, Clark presenta la sua posizione critica sulle scelte effettuate dall’amministrazione Bush in relazione alla guerra in Iraq; racconta i retroscena e ventila le “reali motivazioni” della strategia americana. Una posizione, quella di Clark, probabilmente non del tutto disinteressata, visto il suo tentativo di avviare una carriera politica con la candidatura alla presidenza USA nelle file dei democratici nel 2004 (finita con un nulla di fatto); tuttavia, vista la sua esperienza, non si può non prendere in considerazione le sue osservazioni.
Nel volume, dopo una disamina della situazione, Clark offre anche qualche spunto per una soluzione, e qualche consiglio per il futuro: in primis il fatto che nelle “guerre moderne” i terroristi vanno sconfitti “dall’interno” con un puntuale lavoro di intelligence, e non sul campo.
Naturalmente le tesi di Clark non sono state prese in considerazione da Bush nel corso del suo secondo mandato. Ma, nell’era obamiana, e di fronte a una situazione in Iraq ancora critica, chissà che le idee del generale non abbiano maggiore fortuna.
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Chiudiamo con uno spunto di lettura teologico.
La predestinazione è un tema su cui, nel corso dei secoli, la chiesa cristiana si è interrogata a lungo. La salvezza si realizza, si attua o si accetta come un dono?
In base alla risposta sono nati movimenti, sono scoppiate dispute, si sono consumate divisioni, probabilmente più che per qualsiasi altro tema dottrinale.
Giorgio Tourn, pastore e già presidente della Società di studi valdesi, ha toccato il delicato argomento con un libro pubblicato da Claudiana. Si intitola semplicemente “La predestinazione nella Bibbia e nella storia”, e si propone di fare il punto in maniera chiara e senza spirito di parte sulla questione.
Tourn parte ovviamente dalla Bibbia e dalla temperie culturale in cui il problema si è posto per la prima volta; analizza il modo di affrontare la predestinazione dei cristiani nell’età apostolica, gli sviluppi nella teologia cristiana (dai padri alla scolastica). Numerosi capitoli sono dedicati, ovviamente, alla posizione assunta nel tempo dalle correnti evangeliche (dalla Riforma alla Ginevra di Calvino, dal Calvinismo al protestantesimo moderno).
Affronta, infine, la dottrina della predestinazione analizzandola in chiave teologica, fino a concludere considerando la necessità di “reinventare” un tema che oggi, dopo secoli di dispute, è paradossalmente fin troppo trascurato.
La Luce guida dei Sentieri
Chiude “Sentieri”, la telenovela più longeva nella storia della tv: così longeva che è nata, 72 anni fa, in versione radiofonica (correva l’anno 1937) e solo nel 1952 si è trasferita in video.
Dopo 16 mila puntate, innumerevoli personaggi, storie, parole, il prossimo 18 settembre “Sentieri” scrive definitivamente la parola fine alle vicende ambientate nella cittadina di Springfield (no, non quella dei Simpson); gli appassionati italiani, però, hanno un vantaggio: la distanza dalla stella che si spegne garantirà altri quattro anni di intrattenimento, prima che cali l’ultimo sipario anche nella versione italiana.
Perché ne parliamo? Perché leggendo qualche articolo commemorativo si scopre che Sentieri, nella sua versione originale, si intitola “Guiding light”, luce guida (e non, come qualcuno segnala su wikipedia, “spirito guida”). Un nome quantomeno sospetto, specie nel contesto statunitense.
Il percorso di Eli Stone
Tra i nuovi serial tv di cui i critici televisivi hanno parlato in questi mesi, ha avuto poco spazio un telefilm la cui prima serie si è conclusa ieri, Eli Stone.
Si tratta di un serial che si poteva scoprire solo per caso – da un po’ di tempo le emittenti non brillano per la capacità di promozione delle serialità e per il rispetto degli appassionati che le seguono – ma che man mano mi ha incuriosito, e non solo per la trama.
Trasmesso da Italia Uno al martedì sera, racconta le vicende di un rampante avvocato trentacinquenne, Eli Stone appunto, socio di un autorevole studio legale di San Francisco.
Il prezzo del successo
«Le donne hanno paura di dire che non vogliono figli. Ma io penso che le cose, adesso, stiano cambiando. Ho più amiche che non hanno bambini, rispetto a quelle che li hanno. Onestamente, non abbiamo bisogno di più bambini. Abbiamo un sacco di persone su questo pianeta» si sfoga Cameron Diaz, l’attrice con un viso da baby sitter che però, a quanto pare, di pargoli non vuole sentir parlare: 37 anni e «una vita incredibile». Anzi, precisa, «In un certo senso, ho questo tipo di vita proprio perché non ho figli».
Le fanno eco varie starlette e attrici italiane che rimandano, glissano, o dicono chiaramente di non sentirne il bisogno. Qualcuna, come Valeria Golino, va oltre e si lancia in un’analisi arguta: «Avere almeno un figlio è quasi un obbligo, un desiderio indotto dal nuovo conformismo. E questo mentre finisce l’epoca delle grandi certezze, della famiglia com’era, della coppia com’era».
A confortare la posizione child-free delle attrici c’è anche il supporto dell’immancabile esperta: «L’identità femminile non può essere definita soltanto dalla maternità».
Molto vero, anche se onestamente troviamo difficile trovare qualcuno che, nell’anno di grazia 2009, sia davvero convinto che la donna serva solo a fare figli, e non le riconosca invece un ruolo essenziale – solamente, concedetecelo, complementare e non competitivo rispetto all’uomo – nella società.
In fondo, si potrebbe concludere, non è un obbligo: se uno non ritiene di mettere al mondo dei figli eviti di farlo, e la società eviti di colpevolizzare la sua scelta. Certo, è ironico notare come in molti casi chi potrebbe averne non li vuole per nessun motivo, mentre chi non può smuove mari e monti per ottenere quello che considera un privilegio: questa, però, è un’altra faccenda.
Quel che invece è sintomatico, da parte delle attrici candidate a non diventare mamme, è che sono tutte sostanzialmente single. Le due cose, peraltro, oggi non sono collegate – anzi, spesso prevale un’inversione dei passaggi tradizionali: prima un bebè, poi eventualmente il matrimonio – ma possono essere un sintomo della stessa difficoltà: la difficoltà a impegnarsi, a vivere un rapporto, ad accettare le responsabilità, ad affrontare una sfida di vita.
Ubriacate dal lavoro, le ragazze si ritrovano prigioniere del loro status “incredibile” (termine che usiamo con tutte le riserve del caso), protagoniste e vittime di uno star-system che non consente una vera vita privata, un vero progetto a lungo termine, veri rapporti umani.
È il prezzo del successo, quel successo che cambia la vita e, spesso, rende instabile l’equilibrio interiore delle star. Quel successo che, come una droga, inibisce le difese immunitarie dello spirito, e rende la persona sempre più debole e influenzabile, erode scelta dopo scelta la sua dignità, ottunde il suo metro di giudizio e le scelte in campo morale, etico, spirituale.
Ma quel che stupisce forse di più è la mancanza di prospettive. Oggi sono felice, oggi vivo una vita meravigliosa, oggi non ne sento il bisogno.
Come in un brutto film urlano al mondo la propria indipendenza e si credono invincibili, immortali. Nessuna preoccupazione per domani o dopodomani, quando la bellezza sarà sfiorita, la fama sarà sfumata, i fan saranno un ricordo e il confronto con il passato renderà ancora più atroce il presente.
In quei momenti solo la presenza di rapporti umani reali, custodi di un’intimità e di una complicità costruite e consolidate nel tempo, potrà garantire quella serenità e quell’equilibrio necessari a non cadere nel vortice della disperazione.
Quella serenità così sfuggente
Quali sono i comportamenti più fastidiosi, in aereo? British Airways ha condotto una serie di interviste a viaggiatori non britannici, ricavando una top ten dei modi di fare più irritanti.
Tra questi, spiccano l’abitudine di dare calci al sedile davanti al proprio, l’uso di lasciar scorrazzare i figli avanti e indietro per i corridoi, la fretta di scendere appena il velivolo apre i portelloni, la loquacità dei viaggiatori che intavolano discorsi inutili, il suono (o, più spesso, il rumore) che esce dalle cuffie di chi sta ascoltando musica.
Nel prontuario che è stato realizzato dopo questo sondaggio, la compagnia di bandiera britannica non ha trovato di meglio che consigliare ai viaggiatori di salire a bordo sereni. Facile a dirsi, dirà qualcuno: chi mai ama viaggiare irritato? Eppure forse il suggerimento, per quanto banale, ci permette di riflettere su un aspetto che spesso trascuriamo.
Ciò che succede quando viaggiamo – ma anche quando stiamo a casa, siamo al supermercato, pazientiamo in fila alla posta, guidiamo, facciamo acquisti – lo percepiamo secondo la nostra prospettiva.
Lo stesso episodio può suscitare una risata o una sfuriata: la reazione dipende dal nostro stato d’animo. Quando siamo irritati o nervosi ci dà fastidio qualsiasi dettaglio, anche il più insignificante: una frase scontata, l’andatura di chi ci precede, il gesto di un collega.
In questi casi ogni imprevisto contribuisce ad amplificare il nostro disagio, e credere che il mondo ce l’abbia con noi diventa un alibi al nostro fastidio interiore.
Sì, perché – a voler essere onesti – possiamo riconoscere che il disagio nasce dentro di noi, non attorno a noi. Ed è sintomo di una significativa mancanza di serenità.
La serenità è una questione delicata.
C’è chi si illude di trovarla negli eccessi, e chi nella cadenza regolare di una vita ordinaria; qualcuno tenta di trovarla negli oggetti o le persone di cui si circonda.
Tutto questo può aiutare, ma non basta. Perché niente e nessuno, in questo mondo, può toccarci – e cambiarci – dentro. Nemmeno noi stessi.
Fino a prova contraria, la serenità non nasce da una vita senza imprevisti né da una situazione economica agiata. E anche una generica ricerca spirituale non basta, fino a quando non comprendiamo un concetto essenziale: la serenità nasce dalla consapevolezza del nostro ruolo.
Osservando le vicende dell’umana commedia, è difficile non intravedere alcuni elementi che accomunano epoche e latitudini. La tendenza umana a migliorare la propria condizione di partenza. Il desiderio di individuare la propria identità. Il bisogno di interagire con gli altri. La ricerca della libertà. La necessità di dare uno scopo ragionevole alla propria vita. L’individuazione di una prospettiva più ampia (e convincente) sul senso dell’esistenza e sul “dopo”.
Solo trovando queste risposte è possibile acquisire una serenità soddisfacente, stabile, non illusoria. Qualcuno potrà obiettare che, quelle risposte, non è difficile trovarle, spaziando tra politica (la libertà), filosofia (l’identità), la solidarietà sociale (lo scopo), le dottrine orientali (il senso della vita). E infatti è vero.
Il problema è trovare una soluzione che riesca, da sola, a rispondere a tutte le domande. La politica, la filosofia, l’impegno sociale, le dottrine orientali riconoscono – con onestà – la parzialità delle loro proposte.
Scartando i vari candidati ne resta uno solo: l’unico che, nella storia dell’umanità, ha avuto il coraggio di affermare “Io sono la via, la verità e la vita”, e ha aggiunto “venite a me… e io vi darò riposo”.
Se sia vero o solo una boutade, lo possono testimoniare milioni di persone che hanno creduto nel suo messaggio e in quel messaggio hanno trovato le risposte. E, con quelle risposte, la pace.
Otto secondi per decidere
«La velocità è nemica del senso morale, che ha bisogno per sua natura dei suoi tempi di decantazione. A sostenere questa verità non è solo il buon senso, ma uno studio di neuroscienziati del Brain and Creativity Institute della University of Southern California»: lo rivela il Corriere.
Stando agli studi in questione, per formulare “una risposta completa a emozioni profonde di ammirazione o di sofferenza” il cervello umano impiega sei-otto secondi.
La conclusione degli scienziati è che «i tempi delle scelte», considerati lunghi per i parametri odierni (ma otto secondi sono davvero un lasso di tempo così lungo?) «hanno una valenza etica, partendo proprio da quello che è il tempo fisiologico di reazione del cervello umano a fronte di un’emozione legata a una scelta morale».
Possiamo quindi rassegnarci: «i tempi della comunicazione digitale non sempre rispettano quelli umani e nel caso di azioni e reazioni con implicazioni etiche questa disparità diventa particolarmente vistosa».
Insomma, i neuroscienziati ci confermano quello che già sospettavamo: non basta uno sguardo di massima per farsi un’idea concreta, né basta una lettura superficiale per assumere una scelta ragionata e matura, per non dire etica.
Non sarà un caso se siamo tempestati da richieste di risposta “in tempo reale”: per qualcuno dei nostri interlocutori probabilmente è solo una questione di impazienza (“hai letto la mia mail? Te l’ho spedita già cinque minuti fa!”), ma non dovremmo ignorare che la fretta può essere usata come un’arma psicologica.
Le aziende più attente all’impatto con i potenziali clienti e si servono del fattore fretta: i ritmi incalzanti fanno capitolare gli interlocutori con maggiore facilità, e per questo è proprio nei primi istanti che bisogna vincere le eventuali resistenze. Se una persona dice sì subito, sarà più semplice vendergli qualcosa, si tratti di un’aspirapolvere, un abbonamento o una carta di credito: alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è lasciato abbindolare da un venditore che ci ha spiazzato, o che ha saputo conquistare la nostra fiducia fin dai primi istanti.
Cinque secondi non bastano per prendere una decisione consapevole. Dovremmo tenere conto di questo nostro limite: e non solo esercitando una sana diffidenza nei confronti del piazzista di turno. Spesso l’entusiasmo o l’impulsività ci portano a fare scelte radicali, nella nostra sfera personale, nel giro di pochi secondi.
Ci bastano pochi secondi per aderire a un progetto, rispondere piccati a chi ci ha offeso, reagire malamente nei confronti di chi ha una prospettiva diversa dalla nostra.
Le neuroscienze confermano ciò che la saggezza popolare insegna da tempo immemorabile: la fretta è cattiva consigliera. E molto spesso è proprio delle decisioni troppo rapide che dobbiamo pentirci. Talvolta, ahinoi, non è nemmeno possibile rimediare, e ci troviamo a rammaricarci per mesi, anni, o per una vita di quei pochi secondi di follia che hanno mandato in frantumi un’amicizia, una collaborazione, un rapporto di fiducia. O che hanno rovinato la nostra reputazione, la nostra serenità, la nostra vita spirituale.
Bastano pochi secondi per compromettere anni di paziente lavoro, impegno, attesa. La Bibbia, tra i doni dello spirito, cita la temperanza: quell’autocontrollo che, se esercitato, ci tiene lontano da molti grattacapi.
Forse allora è il caso di investire qualche secondo in più nelle nostre decisioni, resistendo al vortice dell’istantaneità. Perché tra una risposta rapida e una risposta affrettata la differenza iniziale è minima; le conseguenze, purtroppo, no.
Preghiere pericolose
«Un’infermiera del Somerset (Inghilterra) rischia il licenziamento per essersi offerta di pregare per una paziente. Caroline Petrie è stata sospesa dal servizio per aver offerto sostegno cristiano durante una visita a casa ad una donna anziana».
Le notizie che arrivano dalla Gran Bretagna, sono sempre istruttive.
Riassunto delle puntate precedenti: nella patria del diritto e della libertà non è possibile festeggiare una ricorrenza che abbia un sentore religioso; è vietato indossare un oggetto configurabile come cristiano; è proibito pregare per chi ci sta vicino.
Come se non bastasse, ora è censurabile addirittura chiedere a un proprio paziente se apprezzerebbe la nostra preghiera nei suoi confronti.
L’infermiera faceva proprio questo: si limitava a chiedere ai suoi pazienti se volessero ricevere una preghiera. Si tratta di un gesto che, in un paese civile, verrebbe considerato pietoso e gentile, se non addirittura umano.
Chi soffre, di solito, sente il bisogno di dare un senso al suo dolore, cerca di comprendere la sua condizione, si interroga sulla vita e – talvolta – sulla morte. Una parola gentile che scaturisce da una fede serena può dare più sollievo di un farmaco.
Interessante notare anche che – stando al Corriere – l’infermiera correttamente non imponeva la preghiera, e si asteneva perfino dal proporla a coloro che riteneva potessero venir turbati da una simile offerta: e infatti a segnalare il caso è stata una anziana signora che, ironia della sorte, si definisce cristiana, e che ha riferito il fatto a un’altra infermiera, a quanto pare pronta a riferire alla direzione l’increscioso incidente.
Tant’è: l’infermiera è stata sospesa per aver voluto andare oltre, aiutare in ogni modo a lei possibile i malati che le erano stati affidati, certa che la malattia non sia solo un accidente fisico, ma (difficilmente si potrà sostenere il contrario) rattristi anche lo spirito.
Apprendiamo quindi che, in un paese laico e libero, l’infermiera deve limitarsi a fasciare le piaghe e tacere. Curioso, decisamente. Ci avevano raccontato che per certe professioni è necessaria una vocazione, specialmente quando si tratta di sopportare il peso di un contatto quotidiano con la sofferenza del prossimo: per questo ci eravamo illusi che la solidità spirituale potesse essere un valore aggiunto per chi opera in settori delicati come la sanità.
E invece no. Scopriamo che il medico, asettico nel suo camice bianco, deve limitarsi a guardarci come guarderebbe una cavia da laboratorio, considerando la nostra patologia come una semplice sfida e la nostra persona come un banale ammasso di reazioni fisiochimiche. Non dovrebbe proferire parola, perché potrebbe urtare la sensibilità del paziente; non dovrebbe accennare un sorriso, perché potrebbe offendere il credo di chi vede la malattia come un dono; non dovrebbe elargire rassicurazioni, perché potrebbe turbare la fede del paziente fatalista.
Un paese con un sistema sanitario come questo sarà sicuramente un paese laico. Ma, francamente, non lo definiremmo un paese libero.
Giovani di ritorno
Famiglia Cristiana questa settimana dedica un servizio a un interessante fenomeno: si parla delle “sempre più numerose coppie di anziani che si dedicano al volontariato”.
Il titolo è accattivante: “Il pensionato va in missione. Dopo una vita intera dedicata al lavoro, ai figli e ai nipoti, prendono il largo in spirito evangelico e vanno ovunque ci sia bisogno di loro. Magari per aiutare preti amici”.
Si racconta la storia di due “ottantacinquenni, ingegnere elettronico lui, architetto lei, 57 anni di matrimonio, quattro figli e 12 nipoti. Questa coppia ha conservato uno spirito così giovanile da essere stata di recente due volte in Ruanda“.
E poi c’è il 65.enne che racconta: «Sulla soglia della pensione, dopo una vita lavorativa intensa, con un gruppo di amici ci siamo chiesti: “E adesso cosa facciamo?”. Abituati a girare il mondo per lavoro, abbiamo continuato a farlo a nostre spese per gratuità, senza inventarci niente, solo rispondendo ai bisogni che ci siamo trovati davanti».
L’ex direttore della Sea, «da sempre impegnato nella sua società a ottenere spedizioni a costo zero di generi di prima necessità in Kazakhstan, oggi che è in pensione ha “adottato”, insieme all’amico Scarfone, una trentina di giovani kazaki, organizzando corsi in Italia per manager, così da favorire poi la nascita di un’imprenditorialità locale».
E poi un ex dirigente HP, che sta portando avanti progetti «fuori dagli schemi e riflettono l’imprevedibilità della vita e degli incontri: una scuola in Cile per 150 ragazzi disabili, corsi professionali alla periferia di Nairobi, la clinica per malati terminali».
Infine un ex amministratore delegato che spiega come «L’opera che più mi ha entusiasmato è stata in Uganda, dove siamo riusciti a collegare in rete 46 centri medici sparsi in tutto il Paese con l’ospedale centrale di Kampala».
Insomma: anziani, ma per niente fuori dai giochi. Persone che hanno visto il ritiro dalla scena lavorativa come una nuova sfida, e non come una sconfitta.
Nessun sintomo di depressione, ma tante energie e il desiderio di spenderle nel modo migliore: mettendo a disposizione i propri talenti di amminsitratori, le proprie competenze, i propri ex contatti professionali in maniera disinteressata per il bene degli altri.
Quant’è diversa l’immagine di questi giovani di ritorno da quella del classico pensionato disteso sul divano, che macina talk show e reality, chiama per nome i conduttori, si appassiona alle gesta dei corteggiatori televisivi, si commuove di fronte alle lacrime preconfezionate dei postini catodici.
Temiamo di conoscerne più di qualcuno, purtroppo. E allora vorremmo proporre un ulteriore impegno a chi ha saputo mettere la propria vita post-lavorativa al servizio degli altri: non limitatevi ad aiutare chi ha bisogno, ma siate testimoni di ciò che si può fare a fine carriera; raccontate sogni e opportunità ai tanti pensionati che tirano sera senza uno scopo.
Date una vera speranza a quanti vedono in una chiave egoistica e limitata il loro “meritato riposo”.
Fatelo, per favore, e non sentitevi sminuiti: anche questo, in fondo, è dare al prossimo un futuro migliore.